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A Classic Horror Story
Titolo originale: A Classic Horror Story
Anno: 2021
Paese: Italia
Genere: Horror
Produzione: Colorado Film
Distribuzione: Netflix
Durata: 95min
Regia: Roberto De Feo, Paolo Strippoli
Sceneggiatura: Lucio Besana, Roberto De Feo, Paolo Strippoli, Milo Tissone, David Bellini
Fotografia: Emanuele Pasquet
Montaggio: Federico Palmerini
Musiche: Massimiliano Mechelli
Attori: Matilda Lutz, Francesco Russo, Peppino Mazzotta, Yulia Sobol, Will Merrick, Alida Baldari Calabria, Cristina Donadio
A Classic Horror Story, come suggerisce il titolo, è un omaggio alla tradizione di genere che partendo da riferimenti classici, arriva a creare qualcosa di completamente nuovo. Il film è prodotto da Colorado Film, ed è stato presentato in Concorso alla 67esima edizione del Taormina Film Fest 2021. Interamente girato in Puglia e a Roma, il film arriva su Netflix il 14 Luglio e di seguito trovate la nostra recensione in anteprima.
Trama di A Classic Horror Story
Cinque carpooler viaggiano a bordo di un camper per raggiungere una destinazione comune. Il mezzo in questione è di proprietà di Fabrizio, un giovane calabrese con la passione per il cinema, intenzionato a documentare il viaggio riprendendolo con il suo smartphone. Cala la notte e per evitare la carcassa di un animale si schiantano contro un albero. Quando riprendono i sensi si ritrovano in mezzo al nulla. La strada che stavano percorrendo è infatti scomparsa; ora c’è solo un bosco fitto e impenetrabile e una casa di legno in mezzo a una radura. Scopriranno presto che è la dimora di un culto innominabile. Come sono arrivati lì? Cosa è successo veramente dopo l’incidente? Chi sono le creature mascherate raffigurate sui dipinti nella casa? Potranno fidarsi l’uno dell’altro per cercare di uscire dall’incubo in cui sono rimasti intrappolati?

Recensione di A Classic Horror Story
Con A Classic Horror Story, Roberto De Feo e Paolo Strippoli fanno un aperta dichiarazione d’amore al genere horror, non tralasciando però una riflessione attualissima sul nostro paese. Ma iniziamo per gradi, perché il film si prende un’audace libertà stilistica, che integra un folklore tutto italiano a una storia che non risparmia colpi di scena, sangue e tanta brutalità. Il film è sin dall’inizio pervaso da citazioni, stereotipi e paradigmi del genere horror. Ritroviamo l’estetica dei film anni 70, con richiami a pilastri del genere come La Casa di Sam Raimi, The Texas Chainsaw Massacre e The Wicker Man. Ma non solo, il film è invaso da richiami di pellicole horror: dalla menzione a It, al cinema horror più recente, come nella scena della lunga tavolata che cita senza ombra di dubbio Midsommar di Ari Aster.
La sceneggiatura è solida e si diverte a giocare con le aspettative del pubblico; costruendo un plot narrativo poggiato su archetipi prevedibili che sorprendono con risvolti del tutto imprevedibili. La storia si prende i suoi tempi all’inizio, per poi acquisire un ritmo tutto suo con l’avanzare della pellicola. A Classic Horror Story però, non si limita a riportare i classici dell’orrore (come suggerisce il titolo). Anzi esibisce un elemento di originalità che lo distingue da altri film, con l’inserimento della leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Ancora poco conosciuta nel nostro paese, è proprio da questa storia che Roberto Saviano prende spesso spunto quando deve spiegare cos’è la mafia. Questa infatti racconta la nascita di Cosa nostra, l’Ndrangheta e la Camorra. Nel film la leggenda è rappresentata sotto forma di culto religioso, con i “Tre Cavaleri d’anuri” (Tre cavalieri d’onore) che appaiono come tre Dei, tre figure sacre venerate da una misteriosa comunità di persone, nel Sud Italia.

Sostenuta ed esposta dal personaggio di Fabrizio, si fa strada nel film una riflessione sul rapporto morboso che l’essere umano ha con la violenza e le immagini. Una sorta di voyeurismo macabro, che porta spesso a una spettacolarizzazione della morte stessa. La società contemporanea ci sguazza da tempo nella pornografia del dolore, ancora prima dell’avvento dei social media, che hanno ulteriormente anestetizzato la sua platea. Il finale del film riesce a incorniciare perfettamente questa riflessione. Il contrasto netto tra la brutalità più esplicita e la placida calma della quotidianità, che si incontrano senza mai vedersi davvero. Esattamente come chi scrolla incessantemente da un immagine all’altra, attraversando la foto di un bambino siriano che fugge da uno scontro, senza però approfondire le cause, le dinamiche e le complessità di quella guerra stessa. Al di là della morale, arriveremo ad un punto in cui sarà necessario comprendere che le immagini hanno una forza che noi dobbiamo essere in grado di governare.
In conclusione, nonostante qualche sbavatura tecnica il film riesce nel suo intento, facendosi manifesto di un avanguardia necessaria in un paese in cui governa da anni lo stesso genere cinematografico. Ricordiamoci però, che l’horror ha rappresentato negli anni 70/80 una delle bandiere dell’export del cinema italiano, venendo poi sabotato negli anni a seguire. In questo caso abbiamo un film che esce dagli schemi, e che ha la possibilità di farlo su una piattaforma che viaggia oltre i confini nazionali. Viene quasi naturale l’istinto di sabotarlo, abituati al generale e motivato senso di sfiducia per il nostro cinema, ma questa volta dobbiamo ammettere che non è del tutto vero che “gli italiani non sanno fare i film horror“.