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American Graffiti
Titolo originale: American Graffiti
Anno: 1973
Paese: Stati Uniti d’America
Genere: commedia, drammatico
Produzione: Lucasfilm, The Coppola Company
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: 112 min
Regia: George Lucas
Sceneggiatura: George Lucas, Gloria Katz, Willard Huyck
Fotografia: Ron Eveslage, Jan D’Alquen
Montaggio: Verna Fields, Marcia Lucas
Attori: Richard Dreyfuss, Ron Howard, Paul Le Mat, Charlie Martin Smith, Candy Clark, Mackenzie Phillips, Cindy Williams, Wolfman Jack, Harrison Ford
Trama di American Graffiti
1962: Curt (Richard Dreyfuss), Steve (Ron Howard), John (Paul Le Mat) e Terry (Charles Martin Smith) sono quattro amici che, dopo aver trascorso l’adolescenza insieme, si preparano a passare un’ultima notte nella loro cittadina natale prima che Curt e Steve partano per andare in un college dell’East Coast. Mentre Steve, nonostante sia fidanzato con Laurie (Cindy Williams), non vede l’ora di lasciare la cittadina, Curt è in preda ai dubbi e sarà proprio quest’ultima surreale notte, in cui troverà e perderà i suoi miti dell’adolescenza, a fargli capire che è arrivato il momento di partire.
Curt: I don’t think I’m gonna be going tomorrow.
Steve: You chicken fink… After all we went through to get accepted? We’re finally getting out of this turkey town and now you want to crawl back into your cell – right? You wanna end up like John? You just can’t stay seventeen forever.
Dialogo tra Curt (Richard Dreyfuss) e Steve (Ron Howard)
Recensione di American Graffiti
Film fondamentale della New Hollywood e ultima opera di George Lucas prima della creazione dell’universo di Star Wars, American Graffiti offre una rappresentazione nostalgica e a tratti surreale ma complessa e realistica degli “happy days” statunitensi, caratterizzati da drive-in, rock n’ roll e soprattutto dalla prima precisa identità generazionale dei giovanissimi: a differenza di film come Grease (1979), American Graffiti non si presenta come un’edulcorata rappresentazione di un’epoca precedente all’impegno politico che avrebbe caratterizzato le generazioni successive, ma offre allo spettatore un ritratto quasi autobiografico, emotivo ma comunque non apologetico, di un periodo storico in cui Lucas, così come gli altri registi che avrebbero rivoluzionato l’immaginario hollywoodiano, ha vissuto la propria adolescenza.
Nonostante il film sia corale, il personaggio principale è sicuramente Curt Henderson, ragazzo riflessivo sospeso tra la paura di lasciare un mondo ormai alla sua fine (il film è ambientato nel 1962, cioè poco prima che un altro rivolgimento culturale affermasse una nuova identità generazionale) e la necessità di staccarsi da questo mondo di cui, a differenza degli altri protagonisti, vede con affettuosa rassegnazione i limiti. Sarà proprio l’ultima notte di Curt, una specie di ironica Odissea, a fargli comprendere come la sua vita nella cittadina sia ormai conclusa: la donna dei suoi sogni è infatti una prostituta, il suo idolo – lo speaker radiofonico “Lupo Solitario” – è una messa in scena e i Pharahos, la gang più temibile della cittadina, una volta accettatolo perdono ogni aura di eccezionalità.
La trama, che si dipana interamente in una notte – a eccezione dell’ultima scena, catartica e simbolica, ambientata all’alba – segue anche le avventure degli altri tre amici: Steve Bolander, interpretato dal futuro protagonista della celebre serie Happy Days (1974-1984), messa in onda l’anno successivo all’uscita di American Graffiti, a differenza di Curt desidera andarsene ma appartiene ancora al mondo che vorrebbe lasciarsi alle spalle, mentre lo “sfigato” Terry Fields, che non ha alcun interesse nell’abbandonare la cittadina, riesce tra mille intoppi a vivere la notte dei suoi sogni. John Milner, un Fonzie ante litteram, eroe di una generazione destinato a decadere una volta affermatasi una diversa mentalità, sa di essere inchiodato a un mondo in sparizione e con amara rassegnazione sminuisce il desiderio di cambiamento degli amici: la gara in macchina finale, nonostante sia per John una vittoria, è in realtà la metaforica rappresentazione della fine di un’epoca che, per quanto non priva di difetti come potrebbe apparire nei già citati Grease e Happy Days, non smetterà mai di evocare la nostalgia per una nuova gioia di vivere e una spensieratezza forse illusorie ma non per questo meno autentiche.
Note positive
- Sceneggiatura originale e realistica nonostante gli elementi surreali
- Caratterizzazione e recitazione dei protagonisti
- Fotografia
- Colonna sonora fondamentale nel creare l’atmosfera
Note negative
- Lo svolgimento della trama potrebbe risultare troppo statico