Ari Folman su Anna Frank e il diario segreto “la principale novità è stata quella di trasformare Kitty da amica immaginaria di Anna in una persona reale”

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Sinossi

Anna Frank e il Diario Segreto inizia con un miracolo: Kitty, l’amica immaginaria alla quale Anna Frank scriveva nel suo celebre Diario, prende vita nella Amsterdam dei nostri giorni. Ignara del fatto che siano trascorsi 75 anni, Kitty è convinta che, se lei è viva, allora deve essere viva anche Anna. Anna Frank e il Diario Segreto è la storia di Kitty e della sua febbrile ricerca attraverso l’Europa di oggi per ritrovare l’amica tanto amata. Armata del prezioso Diario e aiutata dal suo amico Peter, che gestisce un centro di accoglienza segreto per rifugiati clandestini, Kitty segue le tracce di Anna, dall’Annessione alla sua tragica fine durante l’Olocausto. Sconcertata da un mondo lacerato e dalle ingiustizie sopportate dai bambini rifugiati, Kitty decide di realizzare l’intento di Anna e, grazie alla sua onestà e al suo senso morale, lancia un messaggio di speranza e di generosità indirizzato alle generazioni future.

Incontro con Ari Folman

(Articolo tratto dai materiali stampa sul film rilasciati da Lucky Red)

Anna Frank e il diario segreto è un film sull’Olocausto. Perché hai deciso di usare
l’animazione?

Perché credo che sia un mezzo per raggiungere il pubblico più giovane. Ed è esattamente per questa ragione che la Fondazione Anne Frank di Basilea mi ha contattato otto anni fa, chiedendomi di realizzare proprio un film di animazione. Cercavano una nuova dimensione attraverso la quale raccontare la storia dell’Olocausto. Poi è emersa l’idea di portare in vita Kitty per darle il ruolo di protagonista del film, affidandole il ruolo di narratrice. Altri due elementi decisivi sono stati il voler collegare passato e presente e voler raccontare gli ultimi orribili 7 mesi della vita di Anna Frank.

Come si è materializzato questo nuovo approccio alla storia?

Come ho detto, la principale novità è stata quella di trasformare Kitty da amica immaginaria di Anna in una persona reale. Lei – e non Anna Frank – è la protagonista del nostro film. È lei a intraprendere una ricerca per scoprire cosa sia successo ad Anna dopo la fine della guerra, come sia morta, cosa le sia successo. Facendo questo, scopre anche quale sia l’attuale situazione in Europa, piena d’immigrati provenienti da ogni parte del mondo, in fuga da zone di guerra.

L’animazione è stata realizzata da Lena Guberman. Dato che questo mezzo offre possibilità praticamente illimitate, secondo quali criteri avete scelto lo stile visivo del film?

È vero, l’animazione consente di reinventare il mondo. Abbiamo dovuto iniziare dando forma a Kitty e ad Anna. Credo che siamo riusciti a dare a entrambe delle personalità molto vive e intense. Lena è un’artista eccezionale e le ha disegnate in modo eccellente. Fin dall’inizio abbiamo deciso di non ricorrere ad alcuni cliché. Per esempio, la maggior parte dei film di guerra mostrano il presente a colori e il passato monocromo. Noi abbiamo fatto il contrario. Così nel nostro film la Amsterdam del presente appare sbiadita, è una città invernale e i colori sono quasi inesistenti. Al contrario, il passato è visto attraverso gli occhi di Anna, è vivido, colorato e ricco di sfumature. Questo è stato l’approccio che ci ha guidati nella realizzazione del film. Inoltre non ci siamo posti alcun limite nella scelta dei colori, come avevo fatto invece per i miei precedenti film di animazione. Ci siamo sbizzarriti, specialmente per le sequenze che riguardano le cose immaginate
o sognate da Anna.

Traendo spunto dal contenuto del Diario, il film prende vita attraverso gli intensi dialoghi tra Anna, Kitty e Margot. Come sei riuscito a non cadere nella trappola di uno stile troppo didattico?

Nella mia mente agisce quello che si potrebbe definire un sistema automatico di autocensura. Quando mi sembra di star per ricorrere ad un luogo comune, immediatamente mi correggo e cerco di trasformare quell’elemento in una parte organica della storia. Nessuno meglio dei bambini si accorge se chi cerca di raggiungere un determinato pubblico tende a trasformarsi in professore. Perciò, per una storia che funzioni davvero, un giusto stile e dialoghi appropriati sono la chiave per raggiungere l’obiettivo che ci si pone realizzando il film.

Raccontare l’Olocausto rappresenta di per sé una sfida. Come hai trovato il linguaggio giusto e il giusto mezzo espressivo per raccontarlo al tuo pubblico?

Mi sono semplicemente rivolto al potere dell’immaginazione. Se devi raccontare una storia così orribile, puoi scegliere se ricorrere all’umorismo o far leva solo sulle emozioni. Entrambe le scelte rappresentano strade percorribili. Se esageri, e costringi il pubblico a immergersi nei cliché abusati del dolore e della disperazione, rischi di non raggiungere lo scopo. Devi riuscire a mantenere un certo equilibrio nel mostrare l’umanità dei personaggi, evitando di far leva eccessivamente sugli aspetti commoventi, perché questo finirebbe col renderli artificiali.

Hai assunto un approccio nuovo e totalmente diverso rispetto al Diario, che è un testo abbastanza noto alle giovani generazioni. Puoi dirci quali sono state le tue riflessioni rispetto a questo?

Abbiamo mantenuto molto del materiale originario contenuto nel Diario. Le scene che si svolgono nel passato raccontano la storia come è raccontata nel libro e direi che perfino il futuro, gli anni dopo l’Olocausto, sono già in un certo senso presenti nel Diario. Tuttavia il film racconta la storia in modo completamente diverso, in particolare non come un monologo di Anna ma come un dialogo che si svolge tra le ragazze. Con noi l’amica immaginaria è diventata reale, in grado di discutere con Anna ciò che lei aveva scritto in forma di monologo. In fin dei conti si tratta solo di una tecnica diversa per raccontare la stessa storia.

anna frank e il diario segreto ari folman
Fotogramma di Anna Frank e il diario segreto (2022)

Nel tratteggiare Kitty, quanto è stato ricavato dal Diario e quanto è frutto dell’elaborazione di Ari Folman?

Nel film Kitty ha una sua personalità, diversa da quella di Anna. Il personaggio di Kitty non è pensato per essere un’estensione o una nuova incarnazione di Anna dopo la sua morte. Quando Kitty lascia la casa per avventurarsi nel mondo, fa delle scelte che sono solo sue. Anche se, essendo io l’autore della sceneggiatura, si tratta di scelte dettate da me.

Nel Diario i rapporti tra Anna e sua sorella Margot, sua madre Edith e il signor Dussel appaiono in un certo senso come negativi. Tu invece li mostri sotto una luce più positiva. Perché?

Se parli con i ragazzi dei loro genitori rischi di sentire cose negative, non importa quanto vere. Gli adolescenti tendono generalmente ad assumere una posizione di contrasto nei confronti dell’ambiente che li circonda e del mondo in senso lato. Vogliono ribellarsi. Immagino che questa tendenza possa aggravarsi se un adolescente è costretto a vivere in isolamento per due anni. Per cui forse Anna non ha raccontato quello che la circondava in modo completamente aderente alla
realtà. Credo inoltre che bisognerebbe provare empatia per la madre, che Anne sembra disprezzare in ogni occasione così come il suo compagno di stanza, nonostante il fatto che litigassero frequentemente. Sono queste le ragioni per cui ho arricchito un po’ questi personaggi.

Credi che il Diario sia una buona fonte dalla quale trarre una lezione di storia per i bambini?

Sì. Il Diario è profondamente umano, è molto facile da leggere, comprendere e spiegare. Mancano tutti gli orrori vissuti da Anna e Margot dopo che Anna è stata costretta a smettere di scrivere. Non abbiamo una sua testimonianza sui sette mesi più terribili della sua vita. Questo rende più facile raccontare questa storia come la storia universale di una ragazza costretta all’isolamento in tempo di guerra, e sotto la costante minaccia di morire – come un diario scritto in modo meraviglioso, intelligente e coraggioso. Ma in questa storia manca del tutto la descrizione dell’orribile destino di quanti morirono di fame nei ghetti o furono deportati in treni che viaggiavano verso Est, verso la “soluzione finale”.

Hai ripercorso effettivamente il cammino di Kitty?

Kitty segue il percorso fatto da Anna in Europa, la quale prima ha viaggiato con la sua famiglia in un treno regolare che trasportava anche normali passeggeri per arrivare al campo di lavoro di Westerbork. Poi c’è stato tutto il percorso verso Auschwitz in Polonia, e da lì verso Bergen-Belsen. Per le mie ricerche ho percorso lo stesso itinerario. Westerbork adesso ha l’aria di un parco. La città ha così tanto verde che si fa fatica a immaginare come fosse durante la guerra. Ad Auschwitz sono stato molte volte, a causa dei miei parenti. Ho visitato il campo di Bergen-Belsen, e credo che sia stato trasformato in sito commemorativo con molto criterio. Non è rimasto molto delle strutture originali ma entrando si riceve un iPad contenente la testimonianza di un sopravvissuto che fa scattare subito l’immaginazione. Ho integrato quella esperienza, espandendola un po’, nella storia di Kitty. Mostro inoltre tutte le persone che incontra sul suo cammino e come il mondo intero comici a darle la caccia perché ha rubato il diario segreto.

Perciò, oltre a lavorare come artista, hai fatto delle ricerche?

Il lavoro per questo progetto è durato otto anni. Una delle ragioni per cui ci è voluto tanto tempo è perché abbiamo dovuto fare delle ricerche vaste e approfondite su ogni minimo aspetto prima di poterci mettere a scrivere. La sceneggiatura è basata su una preparazione accurata. Abbiamo lavorato con un team di ricercatori e visitato molti archivi, specialmente gli archivi della famiglia Frank curati dalla Fondazione Anna Frank di Basilea e di Francoforte.

Hai iniziato il tuo lavoro sulla sceneggiatura qualche anno prima che iniziasse la crisi dei rifugiati in Europa nel 2015. Quanto hanno influenzato il tuo lavoro quelle immagini trasmesse in televisione?

Direi che la sceneggiatura è progredita di pari passo con quello che accadeva nella vita reale. Inizialmente, alla fine del 2013, i rifugiati non erano particolarmente nei miei pensieri, pensavo piuttosto a ragazzine in zone di guerra che hanno vissuto storie simili a quella di Anna. Ma quando l’afflusso d’immigrati da Paesi in guerra verso l’Europa ha raggiunto il suo picco tra il 2018 e il 2019, ho riscritto la sceneggiatura, nonostante l’avessimo già utilizzata come base per la prima parte dell’animazione. In origine la seconda parte era incentrata sulla vita di bambine in zone di guerra. Ho modificato allora quelle parti, focalizzandole di più sui bambini che fuggono dai loro Paesi per cercare la salvezza in Europa. Questo è uno dei vantaggi dell’animazione: per produrre un film di animazione c’è bisogno di talmente tanto tempo che si possono fare dei cambiamenti nel corso della realizzazione del progetto.

A quel punto hai introdotto Awa, una giovane rifugiata in fuga dall’Africa. Da dove hai tratto ispirazione per questa scelta?

Awa è una rifugiata proveniente dal Mali, e ho fatto ricerche su come e su quali rotte gli immigrati dall’Africa raggiungono l’Europa. Dato che la storia si svolge ad Amsterdam, introdurre una ragazzina africana mi è sembrata la scelta giusta. Inoltre la storia copre tre generazioni a partire da Anna, che ha inventato Kitty, passando dal libro a lei in carne e ossa, a Kitty che trova Awa lasciando a sua volta il libro proprio a lei. Ma non avevamo la minima intenzione di paragonare l’Olocausto alle ondate di rifugiati che hanno raggiunto l’Europa negli ultimi cinque anni. I due eventi non sono assolutamente paragonabili. Abbiamo solo cercato di ricordare che ai nostri giorni circa un quinto dei bambini del pianeta è in pericolo di morte a causa delle guerre in corso. E vorremmo aiutare gli spettatori a capire cosa significhi essere un bambino nato in una guerra alla quale non partecipa e della quale non capisce il senso. Dalla prospettiva di un bambino le storie di Anna e di Awa hanno dei parallelismi.

Al giorno d’oggi sempre più giovani diventano attivisti impegnati in movimenti che provano a cambiare il mondo. Come percepisci questo fenomeno in relazione al film?

Nel mio Paese, in Israele, ho visto che gli attivisti appartengono a tutte le generazioni. Tuttavia sono stati i più giovani a manifestare tutti i fine settimana di fronte all’abitazione dell’ex-Primo Ministro Netanyahu, nel caldo torrido dell’estate o sotto la pioggia torrenziale d’inverno. E alla fine hanno vinto: il governo corrotto è stato sostituito da un nuovo governo. Il mondo sta cambiando. Sta diventando più razzista, più violento e antisemita. Ad un certo punto la gente raggiunge uno stato mentale che porta le persone a ritirarsi e a restare nella propria ‘comfort zone’. Negli ultimi anni Israele si è spostata decisamente a destra. Prima del Covid questa cosa provocava manifestazioni, soprattutto di giovani ventenni. Il loro attivismo era meraviglioso e consolante perché portava un po’ di speranza.

Quando il progetto è partito l’antisemitismo non era così diffuso. Secondo te il film può contrastare questo fenomeno in qualche modo?

La negazione dell’Olocausto è più forte tra gli estremisti ai margini della società. Dovremmo concentrare i nostri sforzi soprattutto sulla sensibilizzazione della maggioranza silenziosa per combattere la lenta caduta di quegli eventi nell’oblio e mostrare queste storie come rilevanti anche per il presente, e non come polverose reliquie del passato. Questo è molto più importante. Analogamente i bambini non dovrebbero crescere esposti a luoghi comuni, affermazioni retoriche e paure. Sono troppo svegli per queste cose, e crescono velocemente abituati a usare la tecnologia. È incredibile la velocità con la quale perfino bambini di tre o quattro anni riescano ad assorbire informazioni, toccando lo schermo per la prima volta e imparando poi a usarlo. Facendo questa operazione dovrebbero imbattersi in informazioni giuste, corrette e rilevanti. Se non saremo capaci di raccontare storie in grado di adattarsi al loro modo di fare le cose non riusciremo a stabilire un contatto con loro.

Ed è per questo che hai deciso di sviluppare un programma educativo per accompagnare il film?

Sì. Abbiamo sviluppato un fantastico programma educativo in cooperazione con la Fondazione Anna Frank di Basilea. Esiste già la graphic novel del Diario, pubblicata durante la produzione del film nell’autunno del 2017 e da allora tradotta in 30 lingue (in Italia edita da Einaudi con il titolo “Anne Frank – Diario”.) Adesso abbiamo anche il film e la storia di Kitty in forma di graphic novel, con il titolo: “Where is Anne Frank“. Abbiamo anche sviluppato un pacchetto educativo per scuole, insegnanti e studenti che contiene moltissime informazioni ed è complementare al progetto artistico. Tutto questo aiuta a soddisfare un bisogno di oggi, rappresentando un’opportunità per introdurre la storia del passato e l’attualità nelle classi.

Hai menzionato il libro che racconta la storia di Kitty. A differenza della graphic novel tratta dal Diario, Quest’opera parla in modo esplicito dell’Olocausto. Puoi dirci qualcosa di più?

Anna Frank viene percepita come una ragazzina che è stata rinchiusa e nascosta durante la guerra. Ma la “soluzione finale” manca nel suo Diario perché lei non ne ha scritto. Pertanto neanche i film su Anna Frank che sono stati girati in passato trattano quella parte della storia. Ma il libro di Kitty funziona come un seguito della graphic novel e racconta cosa è successo ad Anna dopo che la sua famiglia è stata tradita e deportata, gli ultimi sette mesi della vita di Anna. Il libro di Kitty completa la storia che Anna non ha potuto finire di scrivere e che Kitty ha finito al posto suo.

Nel libro fai scrivere a Kitty una lettera indirizzata ad Anna – la prima risposta che Anna abbia mai ricevuto alle lettere che lei stessa scriveva. Come hai affrontato questa parte del libro?

Mentre lavoravo al libro è diventato per me molto importante poter creare una connessione in entrambe le direzioni per non riproporre semplicemente il rapporto unidirezionale di Anna con Kitty. Dopo che Kitty scopre che Anna è morta e poi vede la lapide a Bergen-Belsen con il suo nome inciso, le scrive una lettera promettendole di realizzare il suo sogno: salvare chiunque possa essere salvato. E le promette anche di realizzare il sogno di Anna d’innamorarsi. È una specie di giuramento che lega le due amiche, ed è questa l’idea di base dalla quale è nata la lettera.

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