Au Hasard Balthazar (1966): l’arte come scienza dell’essere umano

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Au Hasard Balthazar

Titolo originale: Au Hasard Balthazar

Anno: 1966

Paese: Francia, Svezia

Genere: drammatico

Casa di produzione:
Parc-film, Argos film, Athos film, Svensk film industrie, Svensk filminstituten

Distribuzione: regionale

Durata: 95 minuti

Regia: Robert Bresson

Sceneggiatura: Robert Bresson

Fotografia: Ghislain Cloquet

Montaggio: Raymond Lamy

Musiche: Jean Drejac, Jean Wiener

Attori: Anne Wiazemsky, Philippe AsselinMarie Claire FremontWalter GreenJean-Claude GuilbertPierre KlossowskyNathalie JoyautFrançois Lafarge

Trailer del film

Colonna portante della storia del cinema, questo film è ritenuto dai più una vera opera d’arte che segna e caratterizza tutta la carriera del grande regista Robert Bresson. La sua regia è poetica e statica, all’insegna dell’osservazione e della contemplazione.

Trama di Au Hasard Balthazar

il film racconta la vita di Balthazar, un asino da soma che viene preso e ripreso da più padroni che lo utilizzano in diversi modi. Il tutto all’interno di un piccolo paesino della campagna francese.

scena del film con Balthazar e Anne Wiazemsky

Recensione di Au Hasard Balthazar

Nel pieno degli anni ’60 del Novecento, all’interno del panorama filmico della Nouvelle Vague, esce al botteghino un film la cui peculiarità colpirà in modo profondo tutta la storia del cinema: sto parlando dell’opera del regista Robert Bresson Au Hasard Balthazar. In questa pellicola il punto nevralgico in cui si dispiega l’intento artistico del regista è l’esperienza della spettatrice e dello spettatore, poiché il regista pone loro una sfida: l’immedesimazione. Il protagonista è infatti un asino, Balthazar, e la trama è la sua vita, troneggiata e decisa da figure umane, tra di loro diverse, ma al contempo simili nella loro subdola umanità. La catarsi si compie proprio nell’animale, che con occhio alieno osserva e ci dà testimonianza dell’essere umano, che non spicca sulla natura se non all’interno di essa e che vive inevitabilmente attraverso di essa.

Bresson mette in pratica il metodo scientifico ereditato dalla modernità: isola il fenomeno, lo osserva dall’esterno e, riportandolo in linguaggio matematico, cerca di trovarne la regolarità. Nel nostro caso l’oggetto di studio è l’essere umano e per ciò l’opera di Bresson risulta particolarmente complessa: l’uomo non può isolare se stesso da se stesso, non può osservarsi dall’esterno, non può studiare se stesso nella sua organicità, se non attraverso l’arte. Così il regista utilizza una soluzione ardita che ho già succitato, ossia la scelta sui generis dell’attore protagonista: per poter osservare l’uomo dall’esterno occorre innanzitutto un osservatore e chi se non un asino, animale completamente addomesticato e in continua relazione con l’uomo nella sua quotidianità?

Au hasard Balthazar
Lo sguardo passivo di Balthazar

Ecco perché la scelta dell’asino, la sua vita è segnata dall’essere umano, ne è completamente condizionata, e perciò è un animale che conosce molto bene la nostra quotidianità, i nostri costumi e i nostri comportamenti. Stando a contatto stretto con l’essere umano, l’asino è l’osservatore perfetto per poterlo studiare nel suo atteggiamento di supremazia nei confronti della natura; infatti l’asino è solo un pretesto per poter osservare noi stessi attraverso gli occhi della natura: una natura assoggettata, passiva, isolata. In questo senso dico che Bresson ci sfida a immedesimarci. La catarsi ci rende scienziati di noi stessi, attraverso il film riusciamo a osservarci dall’esterno e, seppure la vita rappresentata sia una dimensione sociale totalmente diversa dalla nostra, non facciamo fatica a trovare noi stessi in quei personaggi del contado francese. Anzi, la distanza sociale ci dà un’immagine di noi stessi che trascende la società e che quindi assurge a immagine totale e atemporale del comportamento antropocentrico umano. La condizione sociale diventa obsoleta davanti al comportamento universale dell’essere umano nei confronti della natura: un comportamento di supremazia, di crudele scientificità, di auto – isolamento forzato.

Proprio su quest’ultimo punto Bresson mette l’accento: l’essere umano sin dalla modernità si è completamente isolato dalla natura per poterla osservare dall’esterno e questo suo isolamento l’ha portato a voler troneggiare su di essa, a volerla assoggettare attraverso una visione matematico – geometrica. Proprio con lo stesso metodo il regista osserva i suoi simili: l’asino in quanto natura si isola da noi e ci isola. L’esperimento del cineasta mette in luce il nostro isolamento ingiustificato davanti a una natura passiva, ma non per questo perdente. Anzi sembra quasi che il regista voglia farci intendere che la natura rimane passiva per lasciarci andare verso l’autodistruzione, poiché non ha intenzione di salvaguardarci dal momento che le abbiamo voltato le spalle: una passività la cui azione negativa si dispiega contro di noi. Non siamo autosufficienti. Abbiamo bisogno di rientrare nell’organismo naturale.

I bulli di quartiere che vessano Balthazar e i compaesani
I bulli di quartiere che vessano Balthazar e i compaesani

Questa visione matematica della natura è ciò che Pierre Hadot, filosofo francese del tardo Novecento, rileva come «atteggiamento prometeico»: un comportamento riconducibile al Prometeo del mito greco, il quale abusa della natura. Egli va contro al suo ordinamento per ottenere un proprio vantaggio. Un atteggiamento al contempo esecrabile e necessario: la violazione è contronatura, ma la sua attuazione dà vita alla ragione, all’intelletto. Hadot però contrappone un altro atteggiamento umano dinanzi alla natura: il cosiddetto «atteggiamento orfico». Quest’ultimo si rifà alla figura mitologica di Orfeo, il cantore che disvela la natura col solo ausilio del canto, dell’arte. Un approccio di ricerca naturale che avanza non attraverso l’esperimento, l’abuso e la violazione prettamente fisica, ma che si avvale dell’arte per poter penetrare nella natura latente. La sua attuazione non è contronatura, ma allo stesso tempo i suoi risultati sono ben diversi da quelli perseguibili attraverso l’atteggiamento prometeico: per questo motivo Hadot non riesce a distinguere in modo netto i due approcci, ma identifica in ogni tempo della storia dell’uomo entrambi i comportamenti.

Attraverso questo studio di Hadot, possiamo comprendere meglio l’intento artistico di Bresson: il suo è un approccio scientifico che però si configura all’interno del panorama artistico. Au Hasard Balthazar si avvale di un atteggiamento orfico, teso però a svelare il nostro atteggiamento prometeico; attraverso la potenza catartica dell’arte, il film svela un mondo privo di quest’ultima. Supera i limiti imposti dalla scienza. Orfeo col canto riuscì a uscire da se stesso per scendere nell’Ade: Bresson con la sua regia è riuscito a farci uscire da noi stessi per farci scendere nei panni di un animale. Così facendo Bresson rende ogni spettatrice e ogni spettatore a loro volta un Orfeo, alla ricerca del diverso per scoprire noi stessi. La violazione della natura c’è, ma è consensuale, l’arte la addolcisce; non vi è fisicità, ma spiritualità.

Bresson così opta per uno stratagemma indiretto, sottile, che punta a far scaturire il pensiero di un comportamento sbagliato nello spettatore, senza però esporlo apertamente. I fatti narrati nel film sono di quotidianità: la vita di un paesino della campagna francese. Non vi è nessuna eccezione particolare, perché l’eccezione sta nella scelta del protagonista ed è quella che cattura la nostra attenzione. Ciò che noi vediamo attraverso gli occhi di Balthazar sono esseri umani che cercano di umanizzare illecitamente tutto ciò che hanno intorno, dal momento che se ne sentono in possesso (si veda il battesimo dell’asino a inizio film), senza però accorgersi dell’innaturalità delle loro azioni. L’asino soffre e attraverso di lui lo spettatore comprende il patimento della natura. Gli umani si specchiano nella natura, ma la natura non può offrire loro ciò che desiderano e in tal modo essi si chiudono all’interno della loro visione fallata, denaturando ciò che guardano e ciò che studiano, portando la natura alla sua stessa morte.

Attraverso le vicende di Balthazar, Bresson vuol farci arrivare proprio a questo: il comportamento antropocentrico porterà alla morte della natura, ossia la morte di Balthazar. Una morte solenne, celebrata e mistificata da un gregge di pecore bianche che sembra stia a indicare la solidarietà della natura contro l’egemonia umana: ma pur sempre una solidarietà sotto le nostre direttive, un gregge condotto da un pastore e dal suo cane nero addestrato. Tuttavia la scena è catartica, le pecore circondano il corpo di Balthazar donandogli brillantezza e luce, cristiana solennità: la sua morte noi la possiamo percepire perché emula la nostra morte. Nella morte della natura risiede la morte dell’essere umano. La scelta di dare religiosità alla morte di Balthazar trova la causa proprio in questo, Bresson compie finalmente la sua sfida costruendo un corteo funebre, divenendo egli stesso l’ultimo umano ad aver umanizzato l’animale: Bresson rappresenta in modo antropocentrico la morte della natura e così facendo culmina l’opera sintetizzando maestosamente in pochi secondi e in poche immagini tutto lo studio scientifico sull’essere umano.

Scena della morte di Balthazar
Scena della morte di Balthazar

La scena finale è la tesi di Bresson: la natura muore, ma la sua morte è solo quella dal punto di vista dell’essere umano; la natura muore solo nella prospettiva antropocentrica, per questo motivo la sua morte è umanizzata, poiché non è certo per mano nostra che la natura finisce di esistere. Siamo parte integrante della natura, non possiamo distruggerla, possiamo solo distruggere la parte che ci è manifesta, che possiamo vedere ed esperire; la parte restante continua a vivere feconda, incurante del nostro comportamento patologico nei suoi confronti. Per cui la solennità espressa da Bresson nel rappresentare gli ultimi attimi di Balthazar tocca lo spettatore perché mette a nudo il fallimento capitale dell’uomo, la sua primordiale incomprensione di sé e dell’altro, la sua ingiustificata superbia che l’ha portato al desiderio di dominare qualcosa che non ha mai dominato e mai dominerà.

Note positive

  • Tematica
  • Attore protagonista
  • Fotografia
  • Musica
  • Sceneggiatura

Note negative

  • Racconto lento
  • Eccessivi momenti di pausa
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