
Se ne esistesse una, i luoghi occuperebbero una posizione apicale nella gerarchia delle fonti ispiratrici; indissolubilmente connessi alla macchina da presa, questi diventano inconsapevoli narratori di fatti e vicende, ma si offrono alle sole menti in grado d’intercettarne l’influsso.
Il luogo dialoga costantemente col creativo, a volte racconta la meraviglia dello stare al mondo, altre lo squallore miserabile di non farne parte; colui che riprende altro non è che un mero traghettatore di qualcosa che esiste come un bisbiglio. Se anche fievolmente quel sussurro giungerà alle orecchie di un pubblico, l’artista farà di un dono esclusivo un patrimonio condiviso; l’arte ha dunque in sé la democrazia e in sé è comunismo. Quello sguardo personale diventa un’ottica comune e il luogo muta, si plasma intorno al ruolo assegnatogli. Dunque, il paesaggio è prima seme poi frutto, da lui nasce la storia e dalla storia nasce lui; allo stesso modo l’artista, che nell’essere figlio è anche padre dei luoghi che ha scelto di rappresentare.
Senza dubbio l’arte alberga nei luoghi, nei suoi odori, nei suoi sapori, nelle sue strade e nella sua gente; domandarsi se spazio e autore sarebbero stati comunque ciò che sono senza questa reciproca influenza è chiaramente una riflessione stuzzicante.
Immaginiamo un uomo come Roberto Rossellini cresciuto lontano dalla capitale, lontano da un certo fermento, lontano da un tipo di casualità quasi determinata, propria di un polo magnetico come Roma, cosa avrebbe prodotto? Forse di meglio, forse di peggio, forse nulla; certo è che una volta consegnate all’eternità le sue pellicole, alcune vie, alcuni incroci ed angoli remoti hanno acquistato un pizzico di eternità in più. È in quegli scorci che sopravvive l’opera al creatore, poiché la percezione condivisa si è forgiata irrimediabilmente su un’idea, la sua idea, terrificante o amorevole che sia. Non è necessario amare un film, o viverlo intensamente; una volta subito diventa parte del sentir comune.

Neanche nella realtà materiale è possibile riconoscere un’oggettività, è un’entità viva e in quanto tale volubile, altera i connotati dinnanzi a chi si appresta a farne esperienza; può un luogo mostrarsi univocamente se a poggiarci lo sguardo sono occhi ora innamorati, ora infuriati, ora intraprendenti?
Tal volta è proprio grazie all’infatuazione amorosa che alcuni dettagli si rivelano; anche quelle parti più esplorate, più note o persino appartenenti alla quotidianità, sembrano caricarsi di un fascino poetico dapprima sconosciuto, quasi a liberarsi di un grigiore ancestrale. Ogni essere umano indossa un filtro, un occhiale permanente fabbricato con le lenti dell’infanzia, del lavoro o di un qualsivoglia ricordo; fra tutte, quelle del cinema però possiedono un certo grado di universalità.
La realtà filmica si espande e lo spazio urbano diventa un set permanente; persino un lampione può, in certi casi, assegnare un peso specifico a ciò che lo circonda, specie se su di esso gravano decine di migliaia di lucchetti colorati, autografati e sigillati in una promessa. È certamente il caso di Ponte Milvio a Roma quello di cui si parla, che, dal successo editoriale e cinematografico di Ho voglia di te, è diventato simbolo dell’amore adolescenziale. Quindi dal film all’emulazione, dall’emulazione all’attrazione, dall’attrazione alla tradizione e dalla tradizione al turismo; a questo punto non soltanto appare evidente come il cinema giochi un ruolo centrale nella pianificazione territoriale, ma anche come la tradizione sia a sua volta effetto di un percorso rifondativo e che paradossalmente muova dall’innovazione più che dalla conservazione.
Viaggi di nozze, proposte di matrimonio e fughe romantiche sembrano convergere automaticamente verso Parigi come se in quella porzione di mondo fosse insorta un’anomalia magnetica, tanto antica da non poterne rintracciare l’esordio. Ma nessun fenomeno fisico possiede la forza di un’idea; un’idea è come un virus, sosteneva Di Caprio, persistente, altamente contagiosa, e il più piccolo seme di un’idea può crescere, può crescere fino a definirti o a distruggerti, o a renderti la prima meta per arrivi turistici, aggiunse in una scena tagliata. Ed essendo anche a prova di proiettile, per quell’Hugo detto V, non è facile perforarla e studiarla a fondo.
Quanti registi l’hanno scelta quella città, quanti l’hanno resa protagonista? Non un semplice scenario, non un telo verde, ma un personaggio attivo, che scaglia frecce e interagisce. Dal Gobbo di Notre Dome fino a Midnight in Paris, la Ville Lumière ha spruzzato il suo elisir su molti cuori; da immagine del grande schermo a cartolina vivente, da straordinario a quotidiano, il bacio sotto la Torre è la prerogativa di un luogo dove il viaggiatore diventa attore e lo spazio cinematografico si fonde con quello turistico. Il pellegrino speranzoso al teatro di posa col desiderio di un epilogo da film, lieta vittima di un pygmalion effect, vive sospeso nell’incredulità. Al termine del soggiorno il viaggiAttore scavalca la linea di campo per dedicarsi interamente alla postproduzione; monta, regola e filtra alla ricerca dell’incasso Social.
Lo spazio filmico è immune alle regole, oltrepassa le convenzioni e sfugge all’improbabile, accende la miccia del caso e accompagna un’avvenente attrice nel negozio di un libraio. Chi, passeggiando a Notting Hill come un Walter Mitty, non ha sperato che un residuo di magia si poggiasse su di lui segnandolo con un incontro inaspettato?

“Mai ambientare un film vicino casa propria…” Luca Guadagnino
Così, il noto regista palermitano, ricordava ironicamente le riprese di Call Me by Your Name, realizzate a Crema, il piccolo comune lombardo dove risiede. Il successo del film, dal canto suo, rischiava di spogliarlo di quella dimensione malinconico solitaria che tanto aveva guidato la narrazione intimista; semmai Crema accoglierà altri registi, in ciò che produrranno vivrà un po’ di Guadagnino.
Si pensi all’identità di un luogo come ad un puzzle, fatto di miliardi di piccole tessere a cui il cinema ha sagomato i bordi, favorendo spesso la nascita di visioni stereotipate non sempre somiglianti alla realtà. È ciò che è accaduto con le pellicole di Wyler e Fellini, che forse maggiormente hanno edificato il mito della mondanità e della Dolce romanità in un momento in cui Pasolini ritraeva scenari diametralmente opposti. Paradossalmente sarà proprio il successo di quelle produzioni a dare veridicità alle narrazioni stesse, puntando i riflettori e attirando investimenti, star internazionali, pettegolezzi e matrimoni sfarzosi.
Proprio quella mondanità che Sorrentino trasformerà nella maschera omertosa della vuota esistenza ma che sarà ugualmente in grado di trasportare orde di vacanzieri davanti all’abitazione di Jep Gambardella. La settima arte è dunque concretamente parte del processo di riqualificazione urbana e non necessita di fondi per trasformare un ritaglio di strada in un punto d’interesse culturale; questo diventa parte di un’offerta vendibile, può difendersi dal tempo e dalla speculazione sottoponendosi a tutela.

Non soltanto gli spazi ma le persone stesse forgiano le identità locali, ancorano al luogo un patrimonio immateriale fatto di tradizioni, di parole, di usi e di costumi; dall’interpretazione e dalla trasposizione dell’autentico nasce l’audiovisivo. Una città è la recita perpetua di artisti involontari, tal volta comici e pittoreschi, altre spaventosi o insignificanti; dall’esasperazione caricaturale di quei comportamenti nascono i protagonisti della commedia e non solo. I bar e le osterie trasteverine furono, com’è noto, scuole a cielo aperto per Carlo Verdone, che ogni giorno assorbiva i tratti di una realtà ancora fortemente operaia; è così che il bullo, il delinquente, il coatto, la nonna o il professore sono diventati icone dello spettacolo, attraverso l’imitazione dei residenti. Pertanto, quelle fotografie in movimento, costituiscono ancora uno strumento di analisi antropologica mediante la quale registrare l’evoluzione delle dinamiche sociali parallelamente alle trasformazioni paesaggistiche. Esistono come prove inconfutabili e indistruttibili di passati prossimi, nate dal folclore e pronte a tramandarlo, e nel farlo aggiungeranno qualcosa.
Senz’altro il cinema si è affermato come unico vero cronista delle nostre esistenze.

Giudicare un film significa anche valutarne la risonanza e comprenderne l’influenza, tanto sul cinema quanto sugli uomini; il valore di un’opera vive in e al difuori di sé e si considera nel tempo. Si colloca nell’immaginario collettivo? Si somma alla cultura popolare? C’è una sana attitudine imperialista nell’audiovisivo mainstream, che senza esercito va a colonizzare il mondo; ama il pubblico e non concepisce il favore della massa come motivo di svalutazione.
C’era una volta una bambina sokoviana, incastrata sotto le macerie, a causarle una bomba americana, il televisore è acceso e va in onda una sitcom prodotta dall’invasore stesso; sì, era Wanda Maximoff, che in un’esplosione isterica di dolore andrà a ricreare un mondo, che non somiglierà affatto a casa sua anzi avrà le sembianze di I love Lucy. Così la Marvel inseriva il discorso politico nel superomismo, ragionando sul suo stesso potere persuasivo.
Il racconto per immagini non soltanto ridisegna il paesaggio ma, più di altre forme espressive riesce a dare corpo a un sentimento, l’innata propensione al viaggio; come il migliore degli agenti fomenta l’ambizione di esplorare e incoraggia l’evasione. È presto detto il fascino del Road Movie, anche un po’ Buddy, che risveglia nello spettatore una coscienza primordiale di sé e del mondo.
Alcune terre, così suggestive, così incantate, sembrano poter esistere solo nella fantasia dei loro creatori; neanche il più razionale dei viandanti può attraversale senza sentirsi parte di un racconto fantastico.


C’è stato un tempo in cui, prima delle Geoscienze e della cartografia, l’odeporica da sola offriva i mezzi per mappare; la coscienza del mondo, delle sue dimensioni, dei suoi popoli e delle sue creature passava per la penna di un romanziere temerario. Nella contemporaneità la conoscenza è a portato di dito, eppure il cinema conserva un ruolo nodale nei processi di apprendimento, sociali ma anche fisico-territoriali. Non esiste terra vergine, tutto è almeno parzialmente esperienziato da remoto, di conseguenza carico di un pregiudizio e di un’aspettativa. Chi può credere in tutta onesta di non conoscere Times Square, Central Park o la pluri filmata Las Vegas, di cui si saprebbero persino suggerire i migliori Hotels. Con Terry Gilliam, Steven Soderbergh e Todd Phillips ai vertici del management di destinazione, la città del peccato domina nell’inbound statunitense; notti brave e addii al celibato non più topoi narrativi ma comportamentali.
Non è necessario quindi scomodare il tour della magia londinese per comprendere le connessioni che intercorrono tra cinema e turismo; l’industria cinematografica è in grado di azionare un meccanismo di indotti positivi capaci di ripercuotersi a cascata su molteplici aspetti economici della vita pubblica, foraggiarla significa assicurarsi un sicuro guadagno e un’amministrazione accorta non può esimersi dal lavorarci a stretto contatto. Il cinema accresce notevolmente il prestigio del marchio territoriale, da un lato attraverso la graduale fabbricazione di un cliché, dall’altro ospitando in loco produzioni e premiazioni; queste diventano parte integrante dell’offerta turistica complessiva, offrendo anche un sostegno a quelle attrazioni stanche e debilitate, costrette sotto la morsa stritolante di ospiti irrequieti e rimaste sole a fronteggiare le folle.

Nonostante l’affettuoso ricordo di quella gloriosa Hollywood sul Tevere sia sfumato del tutto, l’Italia resta un paese particolarmente amato dalla telecamera e ancora in grado di attirare cineasti da tutto il mondo; eppure, le amministrazioni locali faticano ad instaurare relazioni virtuose tra Cinema, Turismo e Territorio, finendo quindi col disperdere le possibilità di sviluppo socioeconomico fornite dal cine turismo.
“Quando mi domandano qual è la città in cui preferirebbe abitare? Londra, Parigi, Roma… Io rispondo Cinecittà, il teatro cinque di Cinecittà è il posto ideale” Federico Fellini
Per approfondire l’argomento si consigliano le seguenti visioni:
- Voi siete qui di Francesco Matera.
- Hollywood sul Tevere di Marco Spagnoli.