Sinossi: Nel 1962, Johannes Leinert, un giovane fisico, e il suo tutor di dottorato si dirigono verso un congresso scientifico nelle Alpi Svizzere, dove uno scienziato iraniano dovrebbe presentare una rivoluzionaria teoria di meccanica quantistica. Tuttavia, quando arrivano in un lussuoso hotel a cinque stelle, l’ospite iraniano è misteriosamente scomparso. Mentre la comunità dei fisici si dedica allo sci, Johannes decide di rimanere in albergo per lavorare alla sua tesi e si innamora di Karin, una pianista jazz dal passato misterioso. La situazione si complica quando uno dei fisici viene trovato morto e due ispettori di polizia iniziano a indagare. Nel frattempo, strane formazioni nuvolose nel cielo intensificano la tensione. Quando Karin scompare improvvisamente, Johannes si ritrova coinvolto in una serie di enigmi e incubi che lo conducono a una rivelazione scioccante che cambierà la sua vita per sempre.
Da dove nasce l’idea del film?
Durante un viaggio in treno, ho avuto questa idea di realizzare un film in bianco e nero ambientato negli anni ’60, intitolato “LA TEORIA DEL TUTTO,” con protagonisti dei fisici che praticano lo sci sulle montagne svizzere. Anche l’approccio “antico” del film, la sua qualità di pastiche, questa sensazione e questa struttura piuttosto idiosincratica che si ispira a opere come “La montagna incantata,” Erich Kästner, Hitchcock e Tarkovskij, non sono state decisioni prese da me in modo razionale, ma sono piuttosto emerse insieme all’idea del titolo. Non so da dove provengano immagini interiori di questo tipo, ma questa idea mi è sembrata relativamente chiara fin da subito. David Lynch ha condiviso il suo approccio alla ricerca di idee e immagini. Aspetta che le “parti giuste” che compongono un film appaiano nella sua mente attraverso le acque torbide del subconscio. Questo approccio può sembrare un po’ esoterico, e certamente non tutti i registi lavorano in questo modo, ma per quanto riguarda questa idea, è stato chiaro sin dai primi istanti che sarebbe stato il “mio prossimo film.” Allo stesso tempo, questa idea non è venuta dal nulla. Nel 2013, insieme al mio sceneggiatore Roderick Warich e alla mia produttrice Viktoria Stolpe, ho realizzato “THE COUNCIL OF BIRDS” come progetto di diploma presso la Filmakademie Baden-Württemberg. Questo film è ambientato nel 1929 e racconta la storia di un compositore scomparso. Durante la realizzazione di “THE COUNCIL OF BIRDS,” abbiamo avuto l’idea di realizzare tre film in totale, ognuno ambientato in una diversa epoca del XX secolo. “THE COUNCIL OF BIRDS” è stato il precursore diretto di “LA TEORIA DEL TUTTO,” e il personaggio di Johannes appare in entrambi i film, anche da giovane. Nonostante “THE COUNCIL OF BIRDS” sia stato presentato in anteprima alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Settimana della Critica nel 2014, non ha avuto una distribuzione cinematografica in Germania o altrove ed è rimasto relativamente sconosciuto. Pertanto, era importante per noi che “LA TEORIA DEL TUTTO” funzionasse come film autonomo, pur condividendo alcuni temi e stili con l’opera precedente. Entrambi i film esplorano, in modo diverso, l’idea del genio individuale immutabile. “THE COUNCIL OF BIRDS” era incentrato sulla musica tardoromantica, sull’ispirazione e sul misticismo della natura, oltre a toccare gli oscuri abissi che possono celarsi dietro a questa storia intellettuale, in particolare in Germania. “LA TEORIA DEL TUTTO” ha abbandonato la coloritura tardoromantica e ha affrontato un nuovo tema, concentrandosi sulla fisica, sull’ispirazione, sui falsi ricordi, sui sogni reali e sui fantasmi che si nascondono dietro a ciò che chiamiamo “la nostra storia.
Può parlarci un po’ dei personaggi principali?
Johannes Leinert ha 32 anni e sta perseguendo un dottorato in fisica. Potremmo dire che è già un po’ troppo “vecchio” per essere considerato giovane, ma conserva ancora una certa giovinezza interiore. È una sorta di viaggiatore intellettuale, uno spettatore surrogato, un misto di genio e idiota in un’unica persona, una pagina bianca che rappresenta una massa confusa, come alcuni psicologi potrebbero dire. Johannes è sinceramente convinto di aver sognato la sua grande idea nella fisica, ma le sue ambizioni non sono ancora state realizzate. Ho voluto creare una variante del viaggio dell’eroe e della figura classica del “prodigio scientifico” che abbiamo visto in molti film, con quei giovani geni maschili che scrivono formule sulle finestre con gessetti. Johannes è un giovane il cui percorso sembra già scritto, ma alla fine sarà travolto dalle fratture della cosiddetta realtà, almeno nella nostra versione della storia. Karin Hönig è la seconda protagonista segreta del film, anche se appare solo per breve tempo. Conosce Johannes in un mondo che possiamo solo intuire, ricevendo solo accenni e brevi dettagli. Sa molto di più su di lui di quanto lui non saprà mai su se stesso. Dietro la facciata della misteriosa pianista, la femme fatale, Karin nasconde un mondo interiore complesso. I suoi occhi rivelano una persona autentica, una donna con i suoi sogni, le sue ombre e le sue paure. Per Johannes, rimane un mistero, una custode dei confini tra mondi e un fantasma di un altro mondo, tutto in uno. Il Prof. Julius Strathen è il supervisore del dottorato di Johannes ed è una manifestazione quasi comica del “padre severo.” È pragmatico e rimprovera Johannes quando sembra distrarsi o quando si perde in contemplazioni metafisiche. Se Strathen avesse un motto, sarebbe “Stai zitto e calcola” (anche se questa citazione è spesso erroneamente attribuita al fisico Richard Feynman). Il Prof. “Henry” Blumberg è un vecchio amico di Strathen dai tempi degli studi ed è il suo completo opposto. Mentre Strathen è asciutto e serio, Blumberg rappresenta una variante più dionisiaca (come se Heinz Erhardt avesse sviluppato un interesse per le piante psicotrope). Come Strathen, Blumberg è una caricatura: è corpulento, affabile ma anche repellente, e pieno di difetti umani. Nel giovane Johannes, Blumberg intravede una scintilla del proprio potenziale, che ormai da tempo si è affievolito.

Il film lascia intendere che il protagonista Johannes Leinert esiste, o potrebbe essere esistito, anche in un altro mondo parallelo. Come descriverebbe la realtà in cui lo incontriamo nel film?
In modo unico, il film presenta diverse versioni della stessa storia. Tuttavia, era importante per me che vivessimo la storia di Johannes come qualcosa di inevitabile, seguendola in modo relativamente lineare durante il film, proprio come accade a una singola figura che resta costantemente se stessa. Questo significa che noi, come spettatori, rimaniamo all’interno della prospettiva di Johannes, un individuo unico che alla fine si trova a interrogarsi su quali altre decisioni, esperienze e realtà saranno sempre irraggiungibili per lui. Per Johannes, Karin è un fantasma di un mondo diverso. Tuttavia, se guardassimo il film dalla sua prospettiva (utilizzando ciò che sappiamo di lei), Johannes sarebbe il fantasma, un essere non-morto, una sorta di falsa resurrezione. Nel cinema, come nella vita, spesso sembra che ci sia un solo percorso possibile (nel caso di un film, questo deriva dal fatto banale che può avere un solo finale). E, almeno in retrospettiva, molte persone sono convinte che tutto nella loro vita debba necessariamente essere accaduto nel modo in cui è accaduto. Ma dietro ogni concetto di destino, si cela anche la reale possibilità di vivere in un universo caotico e indifferente, in cui nulla può essere davvero giusto o sbagliato al di fuori di un quadro di significati costruito dagli esseri umani.
Il tema del doppelgänger è spesso presente nella letteratura fantascientifica, ma non solo. Di frequente, esso incorpora il confronto inevitabile, in cui sorgono domande per entrambi gli individui, alle quali solo la persona reale, non il suo doppelgänger, può rispondere. Questa situazione genera una vera e propria paranoia e solleva implicitamente la domanda che il film pone: e se non conoscessimo la risposta e non potessimo conoscerla? E se, in un certo senso, fossimo tutti il nostro proprio doppelgänger? Il film esplora questa sensazione.
Ci dica qualcosa sulla lavorazione del film, unica in termini di aspetto e di musica.
In termini di design, volevo ottenere un découpage classico, una sensazione che potremmo ottenere da registi come Frank Capra, Orson Welles, Helmut Käutner, Truffaut o persino Spielberg. Questo stile, chiamato “tradizionalismo radicale,” ha l’obiettivo di dare una sensazione di familiarità fondamentale nel cinema, qualcosa di “immemorabile,” per poi sovvertirla gradualmente introducendo elementi più inquietanti e moderni. Samuel Goldwyn, il produttore hollywoodiano, una volta venne criticato per l’uso di “vecchi cliché” nella sceneggiatura di un suo film. La sua risposta fu che, in tal caso, erano urgentemente necessari nuovi cliché. Questo suggerisce una consapevolezza tra gli artisti che ciò che consideriamo contemporaneo, nuovo o originale potrebbe alla fine sembrare datato o una moda, una funzione riflessa del nostro presente. Nel film, ci avventuriamo nel territorio dei “vecchi cliché,” cercando di incorporarli in una storia moderna. Questo può creare una tensione tra la forma, la narrazione e il presente vissuto dal pubblico, portando a una sorta di “falsità” e astrazione inquietante che riflette la stessa “falsità” della storia raccontata ma crea qualcosa di nuovo. Il direttore della fotografia Roland Stuprich lavora in modo intuitivo, senza un eccessivo studio della storia del cinema. L’illuminazione e la produzione si sono basate su immagini “ricordate,” creando un film come un amalgama di molteplici strati di film ricordati solo in parte. Le citazioni cinematografiche intenzionali sono poche, e la costumista e la scenografa hanno lavorato allo stesso modo, cercando di catturare l’atmosfera dell’epoca con risorse limitate. Per quanto riguarda la musica, sono state studiate molte colonne sonore di diversi compositori, tra cui Bernard Herrmann, Paul Misraki, George Delerue, Trevor Duncan e John Williams. Il compositore Diego Ramos Rodríguez ha scritto una colonna sonora che si avvicina alla musica classica per film, fornendo sostanza musicale e ambivalenza emotiva ai leitmotiv del film, che sono al limite dell’assurdo, artificiale, vecchio, rumoroso e melodrammatico.
I film che esplorano le idee di esistenze multidimensionali e parallele sono piuttosto di moda in questo momento e sembrano riflettere lo zeitgeist. Secondo lei, perché?
Il film “Matrix” del 1999 ha avuto un impatto profondo sulla mia generazione e su molte persone, influenzando la nostra percezione del mondo moderno. Da questo film abbiamo imparato che viviamo in un mondo in cui il nostro tempo e la nostra energia sono sfruttati da entità cibernetiche superiori, e che se riusciamo a svegliarci da questa illusione, ci aspetta un mondo grigio e opaco in cui siamo costantemente perseguitati e costretti a vivere vite superficiali e prive di significato. Questa rappresentazione della realtà ha avuto un impatto significativo sulla nostra generazione, portandoci a vedere il nostro tempo come una risorsa preziosa sottratta da un sistema che sembra inarrestabile. Questo ha fatto sì che molte utopie, come l’ottimismo umanistico presente in serie come “Star Trek,” sembrassero irreali o fuori dalla portata. Mark Fisher ha affermato che oggi è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, il che riflette la sensazione di impotenza che molte persone avvertono nei confronti del sistema economico dominante. Di conseguenza, ci rifugiamo nel cinema, nelle serie televisive e nei videogiochi, dove possiamo sperimentare mondi virtuali e storie che ci offrono un senso di agenzia e possibilità che sembrano mancare nel mondo reale. La metafora dei multiversi, resa popolare dal franchise Marvel, risuona con questa sensazione di ricerca di significato e di fuga dalla realtà. Ci offre l’opportunità di esplorare mondi alternativi e di sfuggire al peso di dover vivere una sola vita, accettando l’idea che potremmo vivere molte vite in molte realtà diverse. Inoltre, il postmodernismo, con la sua enfasi sulla citazione, il collage e la sensazione che tutto sia stato già fatto, ha contribuito a creare una sensazione di vuoto e di stanchezza nell’arte e nella cultura contemporanea. Questo ha spinto molte persone a cercare significato e connessione altrove, come se ci fossero spazi vuoti tra i mondi pronti a essere esplorati alla ricerca di una realizzazione personale.