Inland Empire – L’impero della mente (2006): Rivoluzione digitale

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Inland Empire l'impero della mente locandina

Inland Empire – L’impero della mente

Titolo originale: Inland Empire

Anno:2006

Paese: Stati Uniti d’AmericaPoloniaFrancia

Genere:Drammatico

Produzione:Studio Canal, Fundacja Kultury, Camerimage Festival, Asymmetrical Productions

Distribuzione: BIM distribuzione

Durata: 168 min

Regia:David Lynch

Sceneggiatura:David Lynch

Montaggio:David Lynch

Musiche:Angelo Badalamenti

Attori:Laura DernJeremy Irons, Justin Theroux, Harry Dean StantonPeter J. Lucas

Trailer di Inland Empire – L’impero della mente

Trama d’Inland Empire – L’impero della mente

Los Angeles. Una squilla di origini polacche piange in una stanza di hotel dopo aver consumato un rapporto sessuale con un cliente, mentre in televisione appare una misteriosa sitcom con protagonisti dei conigli dall’aspetto umano.

Una attrice, Nikki Grace, intende conquistare il ruolo della protagonista Susan nel film On High in Blue Tomorrows. Il giorno prima dell’audizione la sua anziana vicina di casa le fa visita e le assicurà che riuscirà ad ottenere la parte, parlando come se fosse in grado di prevedere il futuro stesso. Le riprese però si trasformeranno in un incubo per la giovane Nikki in cui la sua psiche andrà in frantumi dando origina al suo alter ego simulato fino a non riuscire più a distinguere la sua vera identità da quella di Susan. La ragazza intanto cade in un oscuro legame sentimentale con l’attore protagonista Devon e il personaggio da lui stesso interpretato.

Recensione d’Inland Empire – L’impero della mente

Presentato alla 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Inland Empire – L’imper della mente è l’ultima fatica realizzata cinematografica del cineasta di Erashered se escludiamo la serie Twin Peaks “The Return realizzata dieci anni dopo il lungometraggio. Questo lungometraggio inoltre è stato il primo a essere girato interamente in digitale e, con grande maestria, lo stesso film gioca su questa tematica collegata alle nuove possibilità del cinema digitale che diviene parte indelebile della storia, dando a Inland Empire una connotazione piuttosto simbolica e metaforica del cinema stesso e delle sue nuove possibilità.

Iniziato a girare nel 2005 il film ha necessitato di un anno intero di riprese e lo stesso regista asserisce di aver lavorato in maniere completamente diverso dai suoi altri lavori cinematografici partendo proprio da una reale assenza di sceneggiatura

Non ho mai lavorato ad un progetto come questo prima. Non so esattamente come si rivelerà alla fine… Questo film è molto diverso perché non ho un copione. Ho scritto le cose scena per scena e molte di loro sono già state girate, ma non ho molto se non qualche indizio su come finirà. È un rischio, ma ho questa sensazione che tutto sia collegato, questa idea in questa stanza è in qualche modo legata a quella idea in quella stanza.

David Lynch su Inland Empire

Realizzato con una camera semi professionale  Sony PD-150 il regista con Inland Empire sfida il cinema stesso e terminato il lungometraggio dichiara che da oggi in poi non girerà più in pellicola i suoi prossimi lavori. Le riprese sono state realizzate, per la maggior parte, a Łódź, in Polonia, con attori locali e in alcune zone di Los Angeles.

Inland Empire, per la sua natura cinematografica piuttosto avanguardistica, ha trovato poco spazio all’interno della distribuzione cinematografica tanto che David Lynch e Mary Sweeney hanno pagato di propria tasca la produzione del film come la stessa distribuzione nei paesi del Canada e Stati Uniti.

Inland Empire – L’impero della mente è una sorta di film database dove vengono messi l’uno dopo l’altro una serie di visioni che in quel caso rimandano all’orizzonte dell’inconscio o della mentre dei personaggi che stanno all’interno del film, il tutto mostrato attraverso una narrazione attraverso delle strutture reticolari, a rete, che non possiedono una dimensione lineare, ma di navigazione tipica d’internet, di scelta di link interattivi all’interno di una serie di possibilità. Tale concetto è stato pienamente realizzato da Netflix con il film Black Mirror Bandersnatch.

Il lavoro di Lynch, girato quasi esclusivamente attraverso l’uso della macchina a mano e con numerosi scavalcamenti di campo tipici della filosofia estetica disturbante del cineasta, si basa essenzialmente su numerose linee narrative o definibili come visioni principali dell’opera che rende questo lavoro di complessa comprensione razionale.

Linee narrative d’Inland Empire – L’impero della mente

I primi 40 minuti del film sono abbastanza lineari nello sviluppo più o meno comprensibile, dove lo spettatore ha l’impressione di capirci ancora qualcosa: Il film ci racconta la storia di un’attrice NiKI Grace che è chiamata a interpretare un altro personaggio di un film: Susan Blue nel film On High in Blue Tomorrows. Apparentemente il film si configura come un film nel film, di una messa in abisso sul modello di otto e mezzo di Fellini. Ci sono però fin dall’inizio degli elementi d’intrusione che ostacolano questo tipo di lettura e ci impediscono di goderci narrativamente questo possibile film, che poi da un certo punto si dissolve completamente tanto che noi man mano che Inland Empire avanza non sappiamo più definire in quali linee narrative visive ci troviamo, il film le mescola, si passa dall’una all’altra senza fornirci quei punti di riferimento spazio – temporali del cinema narrativo. E’ un lungometraggio che non ci dà queste sicurezze, e quindi ci dà la stessa situazione del bambino che gli sono state tolte le ruote dalla bicicletta e deve procedere da solo senza nessun appiglio. Troviamo delle serie visive che non siamo in grado di riempire di un contenuto narrativo coerente rispetto alle altre serie visive, che hanno un carattere sia intertestuale e multimediale; intertestuale, perché rimandano a delle produzioni precedenti dello stesso Linch, e multimediali perché rimandano ad altri media che Linch utilizza per inserirli all’interno del suo film; – Una donna rinchiusa in una stanza davanti a una tv accesa, un’immagine che cita un cortometraggio di Linch ((Darkened Room, 2002) con cui il regista iniziò a sperimentare la tecnologia digitale, e che viene ripreso in alcune delle immagini del film.

Il terzo livello è costituito da questa sit – com interpretata da conigli antropomorfi, che da un lato rimanda al medium televisivo, però rimediato dal web, perché L. l’ha realizzata per il web, e dall’altra rimanda a una produzione precedente di L. Rabbits del 2002, da cui queste immagini dei conigli antropomorfi provengono.

Le riprese di Polonia che anch’esse rimandano a un precedente progetto di film non realizzato da lui; queste riprese sono riutilizzate all’interno del lungometraggio nella logica dell’appunto, come se fossero diventati degli appunti di L. per un film da farsi che non è mai stato fatto, ma che viene poi inglobato in questa sorta di progetto multimediale e ipertestuale che è Inland Empire.

Laura Harring, Scott Coffey, e Naomi Watts in Inland Empire
Laura Harring, Scott Coffey, e Naomi Watts in Inland Empire

Come possiamo cercare di descrivere questo film dal punto di vista della narratività?

Manca uno sguardo di insieme che consenta di tenere insieme Inland Empire e che consenta di costruire il film come un oggetto unitario; quello sguardo d’insieme che ci consente alla fine di Pulp Fiction di dire questo è successo prima e questo è successo dopo, come Memento, ma in questa narrazione ci manca uno sguardo di insieme, siamo perduti guardando la storia, come se attraversassimo la foresta senza avere una mappa, una bussola, senza saper leggere nessun segnale di orientamento. Il film ha un andamento di qualcosa che attraversa lo spazio che non conosce e a un certo punto si perde; magari pensa di essere a 10 km dal punto di partenza, ma poi si accorge che si ritorna al punto di partenza; l’esperienza che è capitata a ciascuno di noi di essere in una città che non conosciamo e a un certo punto si perdiamo completamente.

Inland Empire contesta ogni aspettativa di comprensione lineare; all’inizio noi possiamo essere spinti dal fatto che lui riserva diversi minuti a raccontarci la storia dell’attrice che è felice perché è stata assunta in questa grane produzione, inizia a lavorare alle prove del film e alle prime riprese sul set, e quindi il film sembra soddisfare le attese dello spettatore, ma quando dovrebbe decollare narrativamente, il film collassa su se stesso e le nostre aspettative narrative vanno immediatamente a farsi friggere.

Il film vuole riconfigurare l’esperienza filmica contemporanea, che solo il digitale rende possibile, come un’esperienza che imita i modi dell’interattività, è come se noi attraversassimo con il personaggio gli spazi e gli ambienti che Inland Empire ci presenta e scegliessimo con il personaggio di spostarci da un passo all’altro come seguendo un link, come attivando una connessione spaziale o temporale che ci permette di spostarci da una logica verso un’altra logica, da uno spazio dentro un altro spazio, da un tempo dentro un altro tempo. Questa esperienza interattiva, questo attraverso continuo di spazio è anche un’esperienza multimediale, mettendoci di fronte a suoni e a immagini che rimandano a differenti e possibili forme mediali; il radiodramma, la sit – com, l’immagine – video, l’immagine stessa digitale, il musical o spettacolo musicale. Il film è una sorta di navigazione interattiva dentro una sorta di grande rete e sistema che ripropone una serie di sensazioni che sono quella dei media.

Inland Empire – L’impero della mente supera la dimensione narrativa, va oltre la costruzione di una linearità basata sulla causa ed effetto; non è solo un film che demolisce una struttura esistente e che distrugge l’orizzonte di attese dello spettatore, ma che propone qualcosa di profondamente nuovo e innovativo; Questa novità è il tentativo di dare al lungometraggio la stessa struttura della nostra mente, del nostro lavoro mentale. Possiamo descrivere che il film come un tentativo di simulare i procedimenti e il funzionamento discontinuo della nostra mente, il fatto che essa è in grado di produrre immagini che saltano da uno spazio tempo a un altro spazio tempo, da un livello reale a un livello di irrealtà; e che posso ricordare una cosa reale che mi è successa anni fa, e posso poi associare a questo episodio una fantasia, a un evento che non è mai esistito realmente nella mia vita ed è uno dei tanti meccanismi che il film tende ad attivare. E’ un film che propone anche un’esperienza allo spettatore, cercando di comunicare con i nostri livelli meno logici, prelogici, che sono appunto il livello inconscio, dobbiamo porci su un paradigma psicanalitico, la nostra parte inconscia, e quindi il lungometraggio da questo punto di vista può essere descritto come la raffigurazione di una serie di visioni dell’inconscio che sono chiamate ad attivare a sua volta le nostre figurazioni e ossessioni legate all’inconscio oppure se vogliamo spiegare il film dentro un paradigma più cognitivista, più neuro – cognitivista, possiamo dire che è una narrazione che tenta di comunicare direttamente con gli strati profondi della nostra mente che sono quelli responsabili dell’attivazione del circuito emozionale. E’ una storia che ci propone un’esperienza emozionale profondamente diversa rispetto alle esperienze emozionali che abbiamo visto sin qui; fin qui noi abbiamo lavorato su esperienze che hanno un orientamento preciso su un oggetto, su un’ azione, su un obiettivo, che un soggetto si propone; le emozioni centrate su un personaggio e  su un obiettivo; anche le componenti formali che accompagnavano questo processo erano spesso associate a questo tipo di emozioni gool – oriented.

Inland Empire ci dà emozioni allo stato puro, sganciata dall’esperienza del personaggio, dall’azione, dal oggetto, di qualche forma di determinismo. E’ come se il film volesse arrivare a comunicare direttamente con il nostro strato emozionale più profondo senza attivare simultaneamente il nostro strato cognitivo; nei film mainstream la nostra emozione presuppone un’attivazione cognitiva molto forte; la cognitività è superiore al livello emozionale. Linch invece scoperchia il controllo cognitivo e ci mette direttamente in contatto con quella emozionale; per questo è un film così sconcertante e sorprendente che ci dà un’esperienza visiva sensoriale e anche emozionale del tutto nuova e particolare; a volte ci fa sobbalzare dalla sedia in alcuni momenti indipendentemente dalla narrazioni; sono le immagini e i suoni che lavorano tra di loro questi violenti picchi di emozioni, gli emotional marker, che fanno a meno della dimensione narrativa, sono allo stato puro

Ci propone una forma d’immersività assolutamente nuova rispetto all’immersività di Avatar o di altri film in 3d, che lavorano comunque sull’immersività e su un coinvolgimento dei sensi che non prescinde mai da una macchina empatica narrativa, che funziona attraverso dei personaggi, delle storie, che hanno un inizio, uno sviluppo, e una fine. In Linch questo effetto immersivo è dato immediatamente e direttamente dall’aderenza e prossimità della macchina di ripresa che gli interpreti e gli attori vengono filmati spesso in modo tale da risultare ei corpi davanti la mdp, di personificazione, di presa – diretta molto forte; noi non ci troviamo difronte a una rappresentazione simbolica come quella di un personaggio, ma abbiamo l’impressione di essere di fronte a un corpo di un attore che si muove, che abita uno spazio e vive delle esperienze corporee all’interno di uno spazio. Lavora in una maniera diversa, sulla nostra dimensione corporea, sul nostro coinvolgimento corporeo più diretto, immediato, senza basarsi sulla sovrastruttura creata dai personaggi. Le esperienze corporee che ci propone noi siamo chiamati a viverle direttamente, e non attraverso la mediazione che i personaggi stanno vivendo. Quando abbiamo parlato di allineamento percettivo, di coinvolgimento emotivo, possiamo cercare di definire questo film come allineamento dello sguardo della mdp, della videocamera digitale che dura per tre ore, l’intera durata del film, e la ricerca di un coinvolgimento diretto e immediato che passa attraverso il nostro strato emozionale, attraverso la nostra corporeità.

Incipit d’Inland Empire – L’impero della mente

La prima immagine è già una sorta di lettura dell’intero film: Un raggio di luce che attraversa il buio, che richiama il raggio di luce della proiezione cinematografica, una sorta di invito già dalla prima immagine di considerare Inland Empire come un’esperienza puramente cinematografica che ci riconduce alla materialità, alle origini stesse dell’esperienza cinematografica. Noi dobbiamo vedere quell’immagine, quella luce proiettata sullo schermo, da uno schermo, se vediamo il film su un supporto digitale, e non come una narrazione. Questo schermo rimane una superficie piatta, bidimensionale, non siamo invitati ad attraversarlo simbolicamente.

Il titolo ha una doppia chiave di lettura: Geografica, Inland Empire è un luogo realmente esistente, ma è anche un’evocazione dell’impero dell’interno, dell’interiorità, che rimanda ai meccanismi di funzionamento della nostra mente; vuole raccontarci e mostrarci l’impero della nostra mente. Il suono di un radiodramma, già evocazione di un’esperienza multimediale, e l’evocazione del vinile, è una chiave interpretativa possibile è che il film si colloca sul margine e confine su cultura analogica e cultura digitale; il vinile è il simbolo della persistenza della cultura analogica all’interno della cultura digitale.   

Inland Empire ci nega quelle che sono le due componenti di base della comprensione narrativa cinematografica:

  • Linguistica, i personaggi parlano in polacco; se uno non sa il polacco, questa sequenza ci risulta praticamente incomprensibile.
  • Un effetto digitale ha cancellato e sfumato digitalmente i volti dei personaggi, negandoci la comprensione del volto dei personaggi, e blocca sul nascere ogni possibile empatia nei loro confronti. E’ un’immagine che non ci fa capire e vedere quasi niente dal punto di vista narrativo. Un elemento iconografico molto importante da notare nel film è la presenza ricorrente di corridoi, porte, e punti di passaggio, che sono l’elemento che ci rimanda alla struttura reticolare e interattiva del film, di come uno spazio navigabile e attraversabile da cui possiamo scegliere i passaggi possibili; il corridoio, la porta. Tutti i punti di passaggio diventano anche quelli da un livello narrativo a un altro livello, da una logica spazio – temporale a un’altra logica spazio – temporale, non sono solo passaggi di spazi diversi.

Il corpo si smaterializza fino a dar vita ad un’immagine astratta, in cui non c’è più nessuna riconoscibilità iconica, ma delle pure forme astratte.

La musica poi ci crea tutta un’altra atmosfera emotiva, ci mette di fronte a un’altra esperienza mediale: la televisione, con una spettatrice di fronte alla tv, che non ha alcuna immagine (l’effetto neve), ma la vediamo in lacrime, in preda ad una violenta emozione e anche questo possiamo interpretarla come il meccanismo stesso del film che punta a una comunicazione direttamente e puramente emozionale, senza passare ad una comprensione narrativa; questo quindi è il caso dello spettatore che sta guardando l’effetto neve, infatti noi ci emozioniamo delle emozioni pure, prime di una certa logica narrativa. C’è il primo piano, la commozione, gli elementi facciali che rimandano tradizionalmente all’espressione di un’emozione, ma qui è sospesa nel vuoto, non sappiamo dargli nessun significato

Con una serie di raccordi di sguardo, di costruzioni in soggettiva, in tv iniziano a scorrere delle immagini che poi rivedremo successivamente nel film, creando un primo effetto di mise en abyme.

Passiamo alla sit – com “The Rabbits”: Il meccanismo empatico in rapporto con lo spettatore lo possiamo evincere dalle risate del pubblico tipiche della sit – com, ma totalmente immotivate dal punto di vista narrativo, ed è un’ulteriore tassello a cui Linch decostruisce i meccanismi dell’empatia che passa dalla narrazione, perché le risate sono completamente slegate da ciò che ciò vediamo, sentiamo, e comprendiamo; per noi sono immotivate. La situazione rappresentata è tipicamente quotidiana: La donna coniglia stira i panni, gesto banale e stereotipato tipico della quotidianità, e due conigli maschi sul divano; è anche vagamente femminista, dello stereotipo delle divisioni delle mansioni. Il film però rovescerà questo punto, perché ci racconterà esperienze che sono tutt’altro che quotidiane. L’utilizzo di usare questo contesto familiare e quotidiano è un riferimento esplicito a un saggio di Freud scritto agli inizi del 900 dal titolo “Il Perturbante” che in tedesco è un termine che è l’opposto di familiare/ domestico; ciò che perturba, ciò che inquieta, perché parte dal familiare ma lo rovescia di segno, rendendolo perturbante e inquietante, ed è l’effetto che il film ci propone, è un’esperienza che ci propone partendo sempre da contesti domestici e familiari apparentemente rassicuranti, che vengono però poi rovesciati. Per Freud il perturbante non è tanto il mostro venuto dallo spazio che ci minaccia e che ci mangia e divora, ma è qualcosa di più sottile che separa la nostra esperienza domestica rassicurante, con il suo immediato rovesciamento con qualcosa che ci inquieta e ci disturba. Sia nella sit- com, sia successivamente nella presentazione del personaggio dell’attrice, che introduce e inietta in un contesto familiare degli elementi perturbanti. Ainik An – Ainik.

In corrispondenza con l’attraversamento di una soglia, la porta, ci ritroviamo dentro ad uno spazio completamente diverso e irrelato rispetto al precedente, e il coniglio antropomorfo si dissolve, e siamo abbandonati come spettatori in questo ambiente di cui non sappiamo assolutamente niente, come di questi personaggi. Fin qui i materiali usati dal regista non sono definibili nell’estetica della low definition, sono materiali che richiamano il mondo video, della televisione, filmati con un cavalletto, costruiti con una certa simmetria e organizzazione spaziale; da questa sequenza in poi il film introduce anche la low definition come un’ulteriore forma di scrittura che il film stesso utilizza, filmando gli attori come li filmerebbe un operatore amatoriale a cui fosse stato chiesto di girare corsi sul set, di realizzare una sorta di making of del film, facendo delle riprese con una videocamera digitale tutta impostata in automatico. E’ lo stesso Linch ad avere fatto queste riprese, non un direttore o professionista della fotografia, utilizzando una telecamera automatica, in cui il fuoco e il bilanciamento del contrasto luminoso viene lasciato automatico, come spesso facciamo noi quando usiamo la telecamera digitale. Nuovo regime amatoriale, in cui la telecamera traballa continuamente e portata direttamente in mano dall’operatore, dal fatto che si muove insieme all’attrice, come se fosse essa stessa un personaggio. Un ulteriore passaggio della porta.      

Prima Inquadratura/ Il radiodramma: Seconda Inquadratura: “La più longeva trasmissione radiofonica della storia… grigio giorno d’inverno in un vecchio Hotel”

 Tanto lo scopriò un giorno. Quand’è che lo dirai?                                            

Inland Empire – Rabbit

Seconda Sequenza d’Inland Empire – L’impero della mente

Apparentemente siamo dentro a un contesto familiare, in cui c’è l’ambiente domestico rassicurante, di una nuova vicina che va a fare visita all’attrice. Anche se siamo nell’estetica della low definition, Linch non rinuncia alla sintassi narrativa ad es. del raccordo di sguardo, della soggettiva, che conservano il sistema del montaggio classico. L’inquadratura però è instabile, quindi il sistema dei raccordi funziona per metà. Si tratta di falsa soggettiva, perché poi, di quella che noi pensiamo sia la sua soggettiva, il personaggio entra in campo; è in boga nel cinema di Antonioni, e quindi col cinema contemporaneo. Questa è una cosa che un amatore non saprebbe fare così bene. La luce che entra dalle finestre brucia o buca l’immagine, rendendola vuota, perché non ci sono informazioni, e il direttore della fotografia intende evitare. Il campo – controcampo, struttura sintattica classica, ma nello stesso tempo perturbata e disturbata perché l’attrice è troppo vicina all’immagine, c’è una vicinanza eccessiva rispetto al cinema a cui siamo abituati, occupa troppo l’inquadratura. Il cattivo bilanciamento prosegue in tutti i punti di luce dell’immagine nel pavimento, perché essendo la camera impostata automatica, bilancia la luce solo in un punto dell’immagine, la camera fa ciò che vuole. Due donne che prendono il caffè è quanto di più quotidiano ci possa essere, ma ci sono degli elementi che perturbano e disturbano qualcosa che è semplicemente banale o familiare. La donna mostra di avere doti di preveggenza rispetto al futuro, e questo comincia a materializzare l’effetto perturbante che la sequenza inizia ad assumere, non solo per dei tratti visivi, ma anche dal dialogo, e non sappiamo da dove venga realmente e come faccia a sapere il futuro dell’attrice Nikki.  Mancano gli effetti del cinema mainstream, ad es. il trucco della donna che è anti – cinematografico, coi solchi profondi sotto gli occhi e le occhiaie non cancellate dal trucco, per dare questo effetto di ripresa amatoriale. Attraverso questa battuta della vicina sul tempo è in relazione alla struttura sconnessa del tempo che è presente nel film. Questa sequenza ha una parvenza di linearità narrativa, che sembra in presa – diretta, in tempo reale; è come se questo personaggio fosse arrivato a scompaginare la linearità del tempo della vita quotidiana dell’attrice.

Primo scarto temporale, effetto anacronico, che risulta ancora comprensibile, sappiamo il tempo in cui siamo e dove ci troviamo, ma successivamente, non ci sarà mai detto in quale tempo, in quale spazio, reale o mentale, si svolgono le azioni che vengono mostrate. Il salto nel giorno dopo è pieno di gioia/ il salto anacronico in soggettiva ci invita a vedere la situazione gioiosa da un altro punto di vista, introducendo la dimensione del perturbante nella dimensione quotidiana.

Sequenza verso la parte conclusiva del film

L’attrice di Inland Empire si confonde in modo misterioso e incomprensibile con il personaggio della prostituta polacca che interpreta il film nel film, e si sottopone ad una sorta di seduta psicoanalitica con uno psicanalista Kafkiano che non pronuncia mai una parola. La lingua parlata dal personaggio cambia completamente; prima il suo linguaggio era di una persona colta, educata, utilizza un linguaggio forbito e elegante; qui invece utilizza un linguaggio sboccato della prostituta di strada, con molte più espressioni gergali e volgari. In questa seduta psicanalitica, il personaggio si lascerà andare a situazioni di aggressività subita e di desiderio di un’aggressività nei confronti degli altri che riguardano due sfere della propria esperienza: La sfera sessuale, e dall’altro vengono ricordati dei momenti di violenza. Spesso sessualità e violenza vanno di pari passo l’una con l’altra in questa sorta di seduta psicoanalitica. Il corpo stesso del personaggio è ora diverso; non è più truccato e composto, ma spettinato, senza trucco, con addirittura una ferita, violenza subita in cui porta le tracce sotto il labbro. Noi non sappiamo se quello che vediamo sono le possibili immagini del film nel film a cui l’attrice sta dando vita, o se sono delle immagini che appartengono a un’eventuale storia vera a cui il film che l’attrice sta interpretando si sarebbe ispirato, o se sono immagini puramente immaginate o dal personaggio che l’attrice sta interpretando, o dall’attrice stessa. E’ un myse in abyme in cui non sappiamo in quale livello ci troviamo. Il primo piano come espressione di un’emozione che non comprendiamo, non sappiamo contestualizzare ad una catena logica di azioni. Il telefono è un’ elemento che ricorre più volte all’interno del film, anche nella sit – com all’inizio.  La telefonata di questa conversazione misteriosa di questo psicanalista può dare sensazioni di minaccia alla donna, e lo capiamo dal fatto che la donna uscirà da questa situazione e di mettersi in salvo. Quello che manca è il nesso causale tra momenti di apparente lucidità narrativa tra quelli che precedono e seguono. Un nuovo attraversamento dello spazio, una strada, che conduce la donna in quello che sembra essere più un altro livello narrativo che uno spazio contiguo con quello in precedenza.

Qui Linch gioca con la storia del cinema rifacendo a modo suo il finale di a boute du souffle di Godard in cui il protagonista colpito da un colpo di pistola fugge tenendosi il ventre allo stesso modo in cui fugge la protagonista. Siamo nella Hall of fame di Hollywood, uno dei luoghi più famosi di Hollywood. E’ come se il regista vuole rinnovare il cinema così come lo fu una volta con la corrente della Nouvelle Vague tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60: Strizzata d’occhio cinefila e di autorialità d’innovatore attraverso il digitale.  Effetto ritardante dovuto a questa conversazione che nel momento più drammatico di quella che sembra una ritrovata linea narrativa del film, viene interrotto con una conversazione che non ha niente a che vedere con quello che sta succedendo, con un effetto di rottura del pathos, di blocco di ogni possibile empatia da parte dello spettatore. Il film sembra ritrovare apparentemente una sua logica, siamo dentro il film nel film, con l’attrice che interpreta il ruolo della prostituta che viene uccisa, ma in realtà solo l’ultima inquadratura ci suggerisce questa interpretazione, mentre la sequenza è lunghissima, e il montaggio è articolato. Solo uno spettatore ingenuo potrebbe attribuire tutte le inquadrature precedenti che noi abbiamo visto alle inquadrature del film. Inoltre il punto di vista della carrellata indietro a retrocedere non corrisponde col punto di vista della mdp; inoltre è una mdp che sta filmando in pellicola, dentro un sistema visivo e visuale, completamente diverso da come invece viene girato questo film; viene quindi risolto apparentemente uno dei tanti enigmi di questo film, ma lo scioglie solo parzialmente, anche perché nel proseguo di questa sequenza l’attrice resta all’interno del personaggio e continuerà anche ad avere delle visioni e a vivere attraverso un universo mentale; questo percorso continua anche oltre il film che lei interpreta, negando allo spettatore di fare ordine.

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