Dal 9 marzo 2023 arriva nei cinema il film thriller “L’ultima notte di Amore” di Andrea di Stefano, un lungometraggio che ci catapulta dentro una notte, dove un uomo onesto commette una scelta errata che gli cambierà per sempre l’esistenza.
Come è nata l’idea di questo film?
La genesi è stata piuttosto semplice, parafrasando Vasco Rossi “i film, a volte, vengono già con le parole” e questo è arrivato piuttosto naturalmente, mentre frequentavo le famiglie di poliziotti e carabinieri per altri miei progetti. Gli agenti di polizia tendono ad andare in pensione molto presto e a ritrovarsi spesso a fine carriera con l’amaro in bocca, sentono di aver fatto sacrifici per lo Stato senza essere stati ripagati pienamente e questa cosa mi commuoveva profondamente. In Italia troppo spesso nel cinema e nelle fiction carabinieri e poliziotti vengono descritti come dei sempliciotti di paese, li si mostra quasi sempre impegnati in operazioni un po’ ridicole, ma la realtà è molto diversa. Ci vuole una certa dose di coraggio e sangue freddo per mettere la pistola nella fondina e cominciare il turno. Tutto questo ripagato con 1.800 Euro al mese. Questo film è stato scritto con l’aiuto di persone che hanno fatto quella vita e vuole raccontare, con il massimo rispetto, le loro debolezze, traumi, sogni e storie d’amore.
Che cosa succede in scena?
Una vicenda ambientata nella Milano di oggi, quella di un tenente della polizia, Franco Amore (Pierfrancesco Favino), che nella sera che precede il suo pensionamento si ritrova a indagare su un omicidio. La vittima è il suo amico Dino, suo partner da diversi anni, rimasto ucciso in una rapina di diamanti. È così che l’ultima notte di Amore si rivelerà essere la più lunga di tutti i suoi anni di servizio. Di Franco Amore si dice che è tale di nome e di fatto. Di sé stesso lui racconta che per tutta la vita ha sempre cercato di essere una persona onesta, un poliziotto che in 35 anni di onorata carriera non ha mai sparato a un uomo. Queste sono infatti le parole che Franco ha scritto nel discorso che si accinge a leggere ai colleghi all’indomani della sua ultima di notte in servizio. Ma quella notte sarà più lunga e difficile di quanto avrebbe mai potuto immaginare e metterà in pericolo tutto ciò che conta per lui: il lavoro da servitore dello Stato, il grande amore per la moglie Viviana, la sua stessa vita. In quella notte tutto si annoda freneticamente fra le strade di una Milano in cui sembra non arrivare mai la luce
Che cosa le stava a cuore raccontare?
La discesa agli inferi di un uomo semplice e onesto. Discesa agli inferi che coinvolge anche sua moglie. Il film è un omaggio anche alla loro grande storia d’amore. L’arena del film è una rapina di diamanti in cui gli “attori” principali sono persone con il distintivo, quelli che meno ti aspetti. Volevo ribaltare tutti gli stereotipi presentati all’ inizio del film dove anche un imprenditore cinese – e le persone a lui vicine che all’inizio potrebbero esser viste legate alla malavita – in realtà fa il suo lavoro normalmente e si difende ingaggiando una security. Volevo girare un film in 35mm e realizzarlo su una vera autostrada, con le auto che sfrecciavano, evitando di ricostruire tutto al computer, con persone pensanti che mi aiutassero a realizzare una visione che non fosse solo la mia ma anche quella di produttori, scenografi, costumisti e assistenti. È stato un vero kolossal, tutto quello che si vede sullo schermo non è niente rispetto a quello che c’è stato dietro: dovevamo riportare le auto in posizione dopo ogni ciak, mentre altre auto sfrecciavano veloci, c’è stato uno sforzo produttivo piuttosto importante e forse unico. Io ho avuto esperienze anche in America (dove ha diretto “Escobar” con Benicio Del Toro e “The Informer” con Clive Owen ndr) e posso affermare con convinzione che anche lì questo film oggi sarebbe difficile da girare per questioni di costi, assicurazioni e location, se si pensa che Favino correva in autostrada accanto alle auto che andavano a cento all’ora mentre la macchina da presa filmava a 360 gradi.

Le riprese sono state precedute da un lungo periodo di documentazione scrupolosa per sapere cosa raccontare e come nei vari ambienti di Milano.
Le riprese sono state precedute da un lungo periodSì, quelle che racconto sono tutte situazioni che ho potuto osservare dal vero, è stato importante parlare con vari agenti della Dia e ascoltare il loro punto di vista sul mondo criminale milanese di oggi. È stato molto interessante esplorare l’ambiente della comunità cinese che lavora onestamente in Italia e come spesso sia ostaggio di una criminalità che ha dinamiche completamente diverse dalla nostra. Siamo riusciti a entrare in quella comunità mettendo annunci casting sulle riviste cinesi nella loro lingua e sono arrivate tante personeo di documentazione scrupolosa per sapere cosa raccontare e come nei vari ambienti di Milano. Da tutta Italia per sottoporsi ai provini. C’è stato da parte dei cinesi un entusiasmo che mi ha toccato molto, erano desiderosi di raccontare dei loro personaggi in un film italiano, hanno voglia che si parli di loro realisticamente, anche se nel nostro caso si trattava di una porzione minuscola della loro comunità
Perchè ha scelto Pierfrancesco Favino come protagonista del suo film?
Ho pensato da subito a lui e ho scritto il copione immaginando Franco Amore con il suo volto: ci conosciamo da tanto tempo, ma non ci siamo mai frequentati da vicino. L’ho sempre osservato a distanza, ho coltivato nel tempo una profonda ammirazione per quello che faceva e per come lo faceva, per la sua crescita costante e la sua umiltà: per costruire una carriera come la sua, prestigiosa e importante in campo nazionale e internazionale, devi essere una persona intelligente e umile. Favino rappresenta un valore assoluto, è un grandissimo attore che ha la grazia di un James Stewart e l’intensità di un Benicio Del Toro
Quali sono secondo lei le sue qualità principali?
Certe cose ti arrivano dal Cielo, da bambino. È difficile individuare una fonte specifica. Ha lavorato duramente fin da ragazzo, ha compiuto un’importante gavetta, ha imparato varie lingue e ha studiato i dialetti di tutta Italia, credo che per precisione e talento artistico sia un esemplare unico al mondo. A volte durante il montaggio mi sono sentito in colpa perchè magari sul set gli avevo chiesto di girare una certa sequenza in vari modi differenti, ma ogni ciak da visionare mostrava Favino dar vita a tante varianti diverse, tutte ineccepibili, di grande qualità e facilmente utilizzabili. Anche lui vuole provare e riprovare, andare fino in fondo, credo che sul set fossimo entrambi in uno stato di trance agonistica. Il suo personaggio aveva tante sfaccettature e tante qualità e mi piace pensare che chi andrà a vedere questo film possa entrare in contatto con qualcuno che gli sembra di conoscere, perchè tutto quello che Pierfrancesco fa e dice in scena è sottile e preciso. Credo che un “eroe” di questo tipo in un film di genere rappresenti un unicum narrativo, se dovessi immaginare me stesso giovane e vedere soltanto da spettatore tutto quello che lui riesce a fare in questo film sarei incantato, rappresenta una lezione di recitazione per tante generazioni di giovani attori.
Come è arrivato a scegliere Linda Caridi come interprete femminile?
Ho fatto una serie di provini per il ruolo di Viviana e Linda mi ha colpito subito, ha già molta esperienza e un talento incredibile, quando recita ha un’abilità grandiosa nell’improvvisare, prendere la scena e farne altro, sembra Anna Magnani, Silvana Mangano o Monica Vitti. L’ho trovata davvero unica e credo che meriti già un palcoscenico internazionale. Ha una gamma espressiva molto ampia, trasversale, secondo me è l’esempio tangibile di come gli attori italiani vadano presi sul serio. Prima di iniziare a girare abbiamo fatto molte prove piuttosto lunghe, abbiamo preparato il film con tutti gli attori insieme e tutti mi hanno dato la loro massima disponibilità. Siamo arrivati sul set con una certa padronanza della sceneggiatura. Linda ha mostrato una gamma di recitazione molto ampia, ma sappiamo tutti che la recitazione non è una forma di ginnastica, l’attore è una forza di gravità: nel suo caso si restava tutti a guardare rapiti quello che faceva ma era tutto coerente secondo il personaggio e la scena, vederla all’opera per il lavoro fatto era davvero qualcosa di magico.
Come entra in scena invece il personaggio di Cosimo interpretato da Antonio Gerardi?
Cosimo rappresenta la Milano degli ultimi anni, con le distanze tra i ricchi e i poveri, gli immigrati e i milanesi doc che si sono molto ravvicinate. È una sorta di businessman arrivato a Milano che ha iniziato la sua scalata sociale verso una ricchezza da self made man, dedicandosi ad affari più e meno onesti. È un cugino calabrese di Vivana, e per Franco Amore avere un parente acquisito collegato ad ambienti malavitosi importanti rappresenta un onere, un peso che prima o poi nella vita dovrà affrontare. A proposito di Antonio Gerardi vorrei sottolineare che si tratta di un vero animale da cinema, ha un carisma alla Joe Pesci, riesce sempre a improvvisare sul momento restando ancorato al personaggio e alla sceneggiatura.
Si tratta secondo lei di una storia che si poteva ambientare solo a Milano o anche altrove?
La vicenda che raccontiamo parla di dinamiche classiche, di un uomo con una debolezza che forse compie un errore che poi si rivela un grande errore. È una storia che in teoria può essere ambientata ovunque, ma mi piaceva l’idea di scegliere Milano, perchè dopo essere stata raccontata benissimo in tanti film nei decenni scorsi, ultimamente mi era sembrata un po’ abbandonata dal nostro cinema. Per quello che mi riguarda, dopo due film diretti all’estero, mi interessava tornare in Italia per raccontare qualcosa che fosse bene “a fuoco”. Brecht diceva: “racconta il tuo giardino di casa e avrai scritto una storia universale” e io volevo dare la giusta importanza ai dialoghi e all’azione e girare un film che non sembrasse recitato, ma improvvisato. Avevo voglia di portare in scena una storia di persone che conoscevo, un po’ per origine un po’ per certe dinamiche che ammiravo profondamente attraverso un tipo di cinema amato fin da quando ero un ragazzo. Parlo dei film della commedia all’italiana e di quelli di Vittorio De Sica dove gli interpreti avevano una loro grande forza narrativa. Ho sempre ammirato il modo di dirigere gli attori di De Sica – ma anche di Petri, Risi, Monicelli, Comencini – nei loro film che erano un mélange di buona scrittura e di fiducia nell’abilità degli attori, che raccontavano una scena in modo realistico creando sempre una particolare magia
Come mai è voluto tornare a utilizzare la pellicola in 35mm.?
Fin dall’inizio di questo progetto abbiamo discusso con i produttori Marco Cohen e Francesco Melzi dando vita a una dialettica costruttiva. I produttori vanno convinti della qualità delle proprie scelte, una decisione sbagliata può rovinare un film e così siamo arrivati insieme, in sintonia come dei veri alleati, alla convinzione che fosse meglio girare in pellicola: sono convinto che sia meglio del digitale, anche nelle scelte di regia se usi la pellicola devi essere sempre più sicuro di quello che fai sul set”.
Le sue esperienze passate sui set italiani e su quelli americani in questa occasione si sono fuse positivamente?
Il lavoro del regista è il frutto non solo dei mesi della gestazione di un film, ma anche di tutti gli anni della sua vita passata e vissuta: certamente in questa occasione si sono rivelate utili tutte le mie esperienze, ma l’ambizione di fare un film che fosse curato nei dettagli anche minimi non è qualcosa che si impara in un certo paese, io l’ho sempre avuta. La vera differenza che ho trovato questa volta in Italia, dove sappiamo fare cinema di altissimo livello, è la passione che tutta la squadra che ha lavorato con me ha profuso nel film: erano tutti innamorati del progetto e si sono messi al servizio del film con una passione e una dedizione sorprendenti.