Bogdan George Apetri è un regista rumeno, nato il 2 febbraio 1976 a Piatra Neamt. Nel 2010 ha diretto Periferic (Outbound). Il film è stato proiettato e vinto premi in prestigiosi festival (Locarno, Toronto, Varsavia, Rotterdam, New Directors/New Films, Salonicco, Viennale). Nel 2019 ha diretto Neidentificat (Unidentified), che ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Warsaw International Film Festival. Miracle – Storia di destini incrociati è il suo terzo lungometraggio. In qualità di produttore che opera negli Stati Uniti, Bogdan ha prodotto molti film che hanno vinto premi al Sundance Film Festival, sono stati selezionati a Cannes e in altri importanti festival e sono stati distribuiti in tutto il mondo. Insegna regia alla Columbia University di New York. Nel 2021 ha diretto Miracle – Storia di destini incrociati, distribuito in Italia dal 27/10/2022.
Intervista
Dichiarazioni tratte dal materiale stampa del film. Intervista non realizzata da L’occhio del cineasta.
Miracle dura quasi due ore, ma è composto solo da quarantadue sequenze, inclusa una straordinaria inquadratura di 16 minuti verso la fine del film. Come hai impostato la struttura di questo film e come hai affrontato la narrazione in un linguaggio cinematografico?
La decisione di girare ogni singola scena di MIRACLE come una lunga sequenza di riprese non è venuta dall’esterno del film, anzi, è nata proprio dal suo cuore, dal suo nucleo più intimo. Molto raramente, se non mai, immagino inquadrature e movimenti della camera quando scrivo la sceneggiatura, ma in questo caso particolare sapevo fin dall’inizio che il film avrebbe richiesto queste sequenze ininterrotte in cui il tempo scorre senza ostacoli e non è mai manipolato da tagli. Non voglio rivelare troppo dalla storia, ma gli spettatori capiranno alla fine del film perché il flusso naturale del tempo è così incredibilmente importante in questo film. E lo stile arriva quasi come uno shock. Non riesco a immaginare questa storia girata in nessun altro modo, infatti credo che semplicemente non funzionerebbe se fosse girata in modo diverso. In ogni caso, l’approccio cinematografico che adotto non deriva mai da un formalismo preconcetto, o da qualche teoria cinematografica, o dal desiderio di seguire le orme dell’ormai iconico stile del “neorealismo” rumeno – anzi, almeno per me, credo che ne decreti la fine, con dei tratti chiaramente personali. Mentre in superficie il film prende in prestito alcuni dei modelli cinematografici caratteristici della New Wave rumena, in realtà te li fa esplodere in faccia proprio alla fine, mettendo il pubblico faccia a faccia con una verità filmica ed emotiva molto più profonda. Il mio film non parla di stile, nemmeno per un secondo: la sua forma è racchiusa nel suo stesso significato. L’uno non può fare a meno dell’altro.

I tuoi film sono noti per le ottime interpretazioni, spesso di attori esordienti. Come hai scelto questo particolare progetto e quali sono state alcune delle sfide incontrate con lunghi dialoghi e soprattutto con sequenze dalla messa in scena molto complicata?
Il processo di casting è stato estremamente lungo e difficile, a causa delle circostanze insolite che circondano questo particolare progetto. MIRACLE è in realtà parte di una trilogia più ampia ambientata nella mia piccola città nel nord della Romania. Le storie sono autonome e completamente indipendenti: puoi comprendere e apprezzare appieno ogni film senza vedere nessuno degli altri. Tuttavia, il mondo delle tre storie è lo stesso; i luoghi e i personaggi sono gli stessi: proprio come nei romanzi di Balzac, i personaggi principali di un film possono diventare personaggi secondari in quello successivo e le piccole storie si collegano e trovano punti di connessione tra diversi film. I primi due film – UNIDENTIFIED e MIRACLE – sono stati effettivamente girati contemporaneamente, e con un casting contemporaneo. La scelta degli attori per due film mi ha richiesto sei mesi ed è stato davvero un processo estenuante. Il bonus inaspettato è che per il terzo film – che verrà girato dopo – il casting è praticamente già pronto. Anche le sfide sul set sono state parecchie, perché abbiamo girato i due film contemporaneamente (abbiamo girato un film per quattro giorni, poi abbiamo girato il film successivo per due giorni, poi siamo tornati al primo film per tre giorni e così via fino al fine). In effetti, alcuni giorni abbiamo girato scene di un film fino a pranzo e scene del secondo film dopo pranzo. Non è stato difficile fisicamente ma creativamente è stato estenuante, perché le due diverse pellicole hanno approcci cinematografici completamente diversi, come dettato dalle loro storie separate. La mia mente passava costantemente da una storia all’altra, giorno dopo giorno, ed era difficile tenere traccia di così tanti fili. In termini di sequenze di messe in scena lunghe e intricate – in particolare per MIRACLE – il processo è simile a trovare la forma giusta per una coreografia elaborata. Per prima cosa devi trovare l’essenza e la verità di ogni momento importante, indipendentemente dalla camera o dagli attori coinvolti. E poi continui ad aggiungere gli altri livelli: il passo, il ritmo, le inquadrature, lo scarto tra di loro, il movimento, la messa in scena. Lo provi con gli attori, lo rifinisci, trovi nuove idee, lo cambi, lo fai evolvere. È un duro lavoro, soprattutto per le riprese che durano diversi minuti e finiscono per essere appunto una coreografia elaborata, ma consente una scoperta ad ogni passo ed è sempre stato progettato insieme al mio fantastico direttore della fotografia Oleg Mutu. Questo lavoro elaborato e questo scrupoloso approccio cinematografico non sono stati messi a punto per raggiungere un certo “realismo”, ma per elevare ogni singolo momento drammatico al suo reale potenziale emotivo e filmico. E in questo caso, i piani sequenza sono fondamentali per l’intera costruzione del film, il suo tema centrale, che porta fino alla devastante conclusione finale – che capovolge il mondo, quasi letteralmente.
A cosa si riferisce il titolo? Che cos’è per te un “miracolo”?
In questo film lo intendevo in senso stretto, e in assoluto non metaforicamente. Senza entrare troppo nel dettaglio di certe definizioni – da Spinoza e Voltaire a Hume e oltre – voglio invitare letteralmente un miracolo nel mio film. Gli spettatori possono accettarlo o meno, ovviamente dipende da loro. Ma è una violazione delle leggi della natura come le intendiamo noi, nel vero senso della parola. E per estensione, è una trasgressione delle leggi fondamentali che fanno funzionare il cinema. Paradossalmente, il mezzo cinematografico stesso, quando utilizzato in un modo particolare, è la vera ragione per cui un miracolo può essere articolato e trasmesso agli spettatori.
Vivi a New York, dove produci film americani che vengono premiati al Sundance, ma dirigi film nella tua nativa Romania. Come riesci a dividere la tua carriera di regista in due continenti e come questo influisce sul tuo stile?
In realtà è molto facile. Vent’anni fa, quando ho lasciato la Romania per studiare regia negli Stati Uniti, ho sentito di essere andato dall’altra parte del mondo. Ora, il mondo sembra molto più piccolo. Salto su un aereo e sento di prendere l’autobus: posso volare da Bucarest la mattina e raggiungere New York nel pomeriggio. La distanza non è mai un problema. Per quanto riguarda la mia carriera di regista, non mi sento un regista americano e non mi sento un regista rumeno. Sento di essere semplicemente me stesso e sto lavorando per raccontare le mie storie personali nei miei modi personali. Certo, le tue esperienze ti rendono quello che sei, senza dubbio lasciano un segno nel tuo processo creativo. Ma queste sono cose che è meglio non interpretare e non analizzare. Quando si è creativi, la cosa migliore è trovare un flusso e lasciarsi trasportare dall’onda. I registi realizzano inconsciamente film che loro stessi vogliono vedere sullo schermo, quindi finché il mio istinto mi dice che sto andando nella giusta direzione, mi concentro sulla scena, sul film, sulla verità interiore di un momento. È un film di genere? È un film rumeno? È un film americano frenetico? Cerco di non pensare mai in questi termini. Dagli Stati Uniti, però, penso di aver guadagnato un enorme rispetto per la narrazione stessa: le capacità necessarie per raccontare una storia in modo veritiero ma anche interessante, l’arte del cinema in tutte le sue minuzie, il desiderio di coinvolgere il pubblico in ogni momento (indipendentemente dalle dimensioni del film) – cercando di stare lontano dai sentieri battuti e cercando sempre di trovare modi per raccontare storie in modi nuovi e inaspettati. Sono molto interessato non solo alle storie, ma anche ai modi in cui si può raccontare una storia. A volte, questo si perde negli Stati Uniti.
Hai optato per una scena cruciale piuttosto controversa a metà del film. Qual è stato il tuo approccio con questo particolare snodo della storia?
Capisco perfettamente che si possa trovare controversa quella particolare sequenza. In primo luogo, però, vorrei sottolineare che la scena è alla base dell’intera struttura drammatica: senza quella scena, non c’è film, non c’è premessa su cui costruire qualcosa. Taglia quella scena e il film non esiste. Quindi è un’unità indispensabile – MIRACLE sarebbe un film completamente diverso senza di essa. E in secondo luogo, la scena non è girata in modo scioccante, anzi. Non c’è mai stato alcun desiderio di farne una scena “controversa” che avrebbe fatto parlare la gente del film. Chiedo a chiunque sia stato profondamente toccato da quella scena di rivedere il film e di prestare molta attenzione al modo in cui è stato girato, al rapporto diretto con la fine del film, ai collegamenti visivi e cinematografici con le altre unità della storia . È una scena realizzata con maestria e rispetto per il cinema e il pubblico nel suo insieme, e non una scena progettata per scioccare gli spettatori al fine di attirare l’attenzione sul film per le ragioni sbagliate.
Circa dieci anni fa, il tuo primo film (PERIFERIC / OUTBOUND) è stato presentato in anteprima a Locarno. Poi sei uscito praticamente con due film contemporaneamente. Qual è il prossimo? Continuerai a dirigere film rumeni?
Non necessariamente. È difficile pianificare la tua vita come regista perché cose nuove emergono molto spesso e dirottano la tua vita. Pensi che farai questo film, ma arriva un’offerta per un altro film e se le stelle si allineano, decidi di farlo prima. Quindi, tutto il resto cambia dopo, quasi come pezzi di domino. In ogni caso, devo finire il terzo film della mia trilogia rumena, quindi sì, dirigerò almeno un altro film nel mio paese natale. Ma vivo e lavoro a New York City, dove insegno regia cinematografica alla Columbia. Quindi, inizierò a dirigere anche negli Stati Uniti.