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Kate
Anno: 2021
Paese: USA
Produzione: Bryan Unkeless, Kelly McCormick, Patrick Newall
Distribuzione: Netflix
Durata: 1h 46m
Regia: Cedric Nicolas-Troyan
Sceneggiatura: Umair Aleem
Fotografia: Lyle Vincent
Montaggio: Sandra Montiel, Elisabet Ronaldsdóir
Musiche: Nathan Barr
Attori: Mary Elizabeth Winstead, Tadanobu Asano, Miyavi, Michiel Huisman, Miku Martineau, Jun Kunimura, Woody Harrelson
Trama di Kate
Meticolosa e abile, Kate è l’archetipo dell’assassina perfetta all’apice della carriera. Dopo aver fallito clamorosamente un incarico per eliminare un membro della yakuza a Tokyo, scopre però di essere stata avvelenata, ritrovandosi con meno di 24 ore per vendicarsi di chi l’ha condannata a una morte crudelmente lenta. Mentre il suo corpo perde rapidamente colpi, Kate crea un legame inaspettato con la figlia di una delle sue precedenti vittime. La killer però deve portare a compimento un’ultima missione che ha affidato a se stessa.
Recensione di Kate
Partiamo con una premessa, non c’è niente di particolarmente innovativo in Kate. Netflix aggiunge al suo catalogo l’ennesimo thriller d’azione destinato a ogni action junkie che passa sulla piattaforma in cerca di adrenalina. E lo fa sfruttando la scarsa rappresentazione di assassine femminili nel genere revenge. Un film travestito da girl power che viene distrutto dai titoli di coda, quando scopriamo senza tante sorprese che anche lo sceneggiatore è un uomo (o un robot? ho ancora dei dubbi). Il regista Cedric Nicolas-Troyan ha preferito l’estetica alla forma in un modo così plateale, che durante la visione può sembrare di essere incappati nel nuovo video di Travis Scott. Per carità, non c’è nulla di particolarmente atroce nell’esecuzione, ma il flusso di contenuti d’azione è spesso diretto in modo piatto e riesce ad intrattenere solo occasionalmente. Ma torniamo alla trama.
Siamo ad Osaka e killer Kate (Mary Elizabeth Winstead) si sta preparando per un lavoro accompagnata dal suo capo, mentore e figura paterna Varrick (Woody Harrelson). Mentre sta sparando a vista al suo obiettivo, quest’ultima vede che sua figlia è lì vicino. L’assassina a sangue freddo ha solo una regola: “niente bambini” e non riesce a fare un tiro pulito. Preme comunque il grilletto uccidendo l’uomo, tuttavia dieci mesi dopo, si ritrova ancora silenziosamente perseguitata da ciò che ha fatto. Decide di smettere, ma durante il suo ultimo lavoro viene avvelenata con una dose fatale di polonio e ha solo 24 ore per capire chi la vuole morta e perché. Questo in teoria sarebbe uno spoiler, ma nella realtà viene tutto gestito malamente nei primi 15 minuti del film.

La retorica dell’istinto materno e razzismo occidentale
La ricerca la riunisce con la ragazza che ha reso orfana e questo dettaglio aggiunge al film uno stereotipo visto da decenni, dell’assassino che si ricorda di avere una coscienza solo di fronte ai bambini. Ancora più frustrante, quando usato dagli sceneggiatori per umanizzare le assassine, visto di recente anche in Gunpowder Milkshake, come a volerci ricordare che le donne risolute hanno comunque bisogno del loro istinto materno. Il risultato è che Kate è un personaggio anonimo. Caratterizzato solo superficialmente con degli escamotage tipo l’ossessione per la soda al limone o il fatto che ogni tanto fissa i bambini (quando l’istinto materno è troppo forte da controllare), ed è ironico visto che già dal titolo si presuppone un certo individualismo cinematografico. Ci prova a ricordare il meglio del genere come Kill Bill o La Femme Nikita, ma quest’ultimi non sono radicati nell’adrenalina ma in protagoniste che hanno una vita interiore, non importa quanto estrema.
Il film si svolge in Giappone e il regista cerca di utilizzare l’ambientazione per iniettare un tocco di stile nella storia in gran parte del film. Ci sono automobili al neon, spettacoli teatrali Kabuki e tanti omicidi con spade e katane da samurai. Il film vorrebbe presentare una critica all’occidente, ma i suoi protagonisti sono occidentali e quando ne hanno bisogno, si relazionano solo con occidentali (l’unica scena in cui Kate fa sesso è con un occidentale). Il risultato è una Tokyo filtrata dallo sguardo di un turista poco informato, con tutti gli stereotipi del caso, che finiscono inevitabilmente nel problematico.

Conclusioni
Se ancora non è chiaro, la storia è piena di tutti i cliché tipici dei film d’azione con criminalità organizzate, immersa in una scrittura flebile e derivativa. I personaggi sono terribilmente scarni ed è tutto prevedibile. La nuova arrivata Miku Martineau ce la mette tutta nei panni di Ani ed è da tenere d’occhio per il futuro. Attori del calibro di Mary Elizabeth Winstead e Woody Harrelson risultano sprecati in dialoghi del tutto privi di emozione. L’unica cosa che funziona è il lavoro del direttore della fotografia Lyle Vincent (che collabora spesso con Cory Finley e Ana Lily Amirpour), le cui inquadrature e movimenti di macchina combinano bene il lato pop e i colori naturali di Tokyo con le scene più violente.
Note positive
- La fotografia di Lyle Vincent
Note negative
- Sceneggiatura problematica e intrisa di cliché
- Regia superficiale
- Critica all’occidente trattata in maniera semplice e di parte