Kufid (2020): una profonda riflessione autoironica

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I contenuti dell'articolo:

Kufid

Titolo originale: Kufid

Anno: 2020

Paese: Italia

Genere: documentario

Produzione: 5e6 S.r.l.

Distribuzione: Cineclub Internazionale Distribuzione

Durata: 57 min.

Regia: Elia Moutamid

Sceneggiatura: Elia Moutamid

Fotografia: Elia Moutamid

Montaggio: Elia Moutamid

Musiche: Piernicola Di Muro

Attori: Elia Moutamid

Trailer di Kufid

Presentato in anteprima alla 38a edizione del Torino Film Festival 2020, Kufid, al cinema dal 17 giugno, è un documentario diretto da Elia Moutamid. Il cineasta, già conosciuto per Talien (2017), ha partecipato proprio con la sua opera prima anche al 35o Torino Film Festival ottenendo il premio speciale della giuria (italia doc) e il premio collaterale “Gli occhiali di Gandi”. Sempre per Talien, Moutamid ha vinto il premio del pubblico come miglior film alla 11o Film Festival del Garda. Kufid ha invece ottenuto la menzione speciale al concorso Extr’A del 30° FESCAAAL (2021).

Trama di Kufid

Rientrato a Brescia dopo alcuni sopralluoghi in Marocco, in previsione del suo nuovo film, Elia Moutamid si ritrova bloccato in una quarantena dovuta alla drammatica situazione pandemica. Tra le mura della propria abitazione, preoccupato per ciò che sta avvenendo, Elia avverte la necessità di realizzare un diario visivo in cui appuntare domande, riflessioni, utopie capaci di descrivere, anche in modo ironico, contraddizioni e miraggi della società moderna.  

Recensione di Kufid

Accostato, per il particolare percorso, a Molecole (2020) di Andrea Segre, Kufid sembra (apparentemente) un’opera priva di programmazione, esito ed espressione del dinamico flusso di pensieri, preoccupazioni, dubbi di Elia Moutamid. Lo stesso che identifica proprio in Kufid, entità immateriale non collegata alla pandemia, un protagonista capace di condurre all’analisi di una commistione di reali tematiche, promuovendo un “diario” raccontato dall’interno verso l’esterno. Un interno che è l’abitazione durante il lockdown, ma anche – e soprattutto – le riflessioni del regista, particolarmente apprezzabili per quell’intreccio (delicato) tra società, urbanistica, processi storici che stabiliscono un fil rouge tra la pianura padana e la medina di Fès, in Marocco. Il concetto sociologico di gentrificazione (gentrification), spesso sottolineato da Moutamid attraverso la propria voce fuoricampo, definisce una relazione tra i due Paesi, prima “saccheggiati” e poi lasciati a se stessi, alla più triste – e paurosa – desolazione che caratterizza alcuni territori.

La tanto celebrata “lotta al degrado”, delle volte viene quindi tramutata in una subdola espulsione di chi abita quei luoghi, devastando il genius loci appellandosi ad un falso richiamo alla cultura. Così i residenti, la popolazione che rappresenta – o addirittura è – quel quartiere, svende le proprie case medioevali per trasferirsi fuori città, assecondando un movimento, un processo che appare inarrestabile, rendendo utopisti persone come Moutamid, decise a pensare diversamente, ritenendo che (forse) qualcosa si potrebbe comunque fare. Magari riflettendo su quel contrasto che irrompe tra luoghi chiusi e aperti; quest’ultimi scenografia del lavoro di numerosi contadini bresciani, lì dove il silenzio (primo dono di Kufid) regna e le cascine abbandonate, se viste da vicino, spaventano per il loro degrado, richiamando un capolavoro di Ermanno Olmi: L’albero degli zoccoli (1978).

Un clima, un paesaggio, una madre terra coltivata, in netto contrasto con i freddi resti di un capitalismo ormai disgregato, composto da elementi in calcestruzzo prefabbricato e metallo abbandonato alla corrosione. Quasi un déjà-vu che rimanda ancora a Fès; laddove una famosa conceria, inavvicinabile per il fetore emanato fino agli anni Ottanta, ora rappresenta una grande attrazione turistica, con abitazioni storiche trasformate in hotel e foto di terrazze che spopolano su Instagram. Quanto è lontano il passato, sembra sostenere con tono nostalgico Moutamid. Frastornato da un’attualità basata sul slogan, hashtag, e poi cartelli che promuovono vendite di lotti da 19.000 mq, così distanti da quelle giornate trascorse nella medina (che ora non ti riconosce più), oppure a quell’estate a Iesolo, o ancora a quella copioso nevicata nel 1985. Temi e rimandi che definiscono la profondità umana di Kufid, documentario che parla (anche) di pandemia e integrazione, ma che sottolinea, più di tutto, il significato e le problematiche di una società che non ha bandiera, delle volte persa in un’ambizione che tradisce i più tradizionali – e autentici – principi.

Note positive

  • La profondità espressa da Elia Moutamid
  • La fotografia

Note negative

  • Nessuna da segnalare
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