
I contenuti dell'articolo:
Le due sorelle
Titolo originale: Sisters
Anno: 1973
Paese: Stati Uniti d’America
Genere:Thriller
Durata: 92minuti
Regia:Brian De Palma
Sceneggiatura:Brian De Palma, Luisa Rose
Fotografia:Gregory Sandor
Montaggio:Paul Hirsch
Musiche:Bernard Herrmann
Attori:Margot Kidder, Jennifer Salt, Charles Durning, William Finley, Lisle Wilson, Barnard Hughes, Mary Davenport, Dolph Sweet
Trama de Le Due Sorelle
Danielle Brèton, una giovane modella che partecipa a uno spettacolo televisivo basato su una candid camera esce con Philip, una delle malcapitate vittime dello scherzo in cui le stessa ha partecipato. I due trascorrono la notte a casa di lei e il giorno dopo è il compleanno della ragazza e di sua sorella, che abita nello stesso appartamento. L’uomo esce di casa per comprarle una torta e quando rientra la sorella di Danielle lo massacra a colpi di coltello.
Recensione de Le Due Sorelle
Il 1973 è un anno fondamentale per la carriera di Brian De Palma. Parlare di svolte, di punti rottura, di cambiamenti improvvisi nel percorso di un autore, è un esercizio spesso sterile, eppure è evidente come con Le due sorelle, horror/thriller divenuto ormai da tempo uno dei tanti cult che recano la sua firma, il regista di Newark compia una sorta di operazione dal sapore arcaico, “sacrificando” cioè alcuni miti in luogo di altri. Si direbbe che egli cominci dunque a definire il proprio cinema, eppure il film con Margot Kidder, a livello di stilemi, sembra non il primo vagito bensì la Summa del De Palma più amato da una certa critica e da un certo pubblico. Ma cosa accade nello specifico?
La risposta sintetica sarebbe che Sisters segni il passaggio dal Manierismo “politico” a quello “meta–cinematografico”, ovvero dalle pulsioni godardiane e sperimentali di Ciao America e Dioniso nel 69 a una fase in cui il Nume tutelare Hitchcock è la “balia” di un genuino (Post)Modernismo che però, grazie alla competenza e all’amore per l’arte filmica di gente come il padre – anzi lo zio – della satanica Carrie, si fa sempre più restio alla catalogazione nel reparto della “Pura Forma”.
Per capire il sentimento che ispira Le due sorelle, esempio di quanta meravigliosa serietà ci sia nel Gioco, basterebbe leggere ciò che disse Michael Powell a proposito del suo capolavoro L’occhio che uccide (titolo inglese Peeping Tom, come il telequiz che apre il film di De Palma…):
Io non sono un regista con uno stile personale…. Io sono il cinema. Sono cresciuto con e attraverso il cinema; tutto quello che ho imparato l’ho imparato dal cinema; se mi sono interessato alla pittura, alla letteratura, alla musica, è stato grazie al cinema. Così, quando faccio un film come Peeping Tom, io sono il cinema. E solo qualcuno come me può fare Peeping Tom, perché è necessario identificarsi di più con il cinema che con un mondo personale.
Emanuela Martini, Michael Powell, Il Castoro, Milano, 1988.
Chiariamo subito: De Palma ci mette comunque “del suo” (si pensi allo split screen), ma è innegabile come le parole di Powell risultino più che adeguate a descrivere l’anima dell’opera. Il film è infatti godibile per chiunque, però il cinefilo non ride per l’umorismo del regista, bensì per quello di un Ente sovra–individuale che si chiama appunto Cinema; non comincia a insospettirsi per una generica scaltrezza propria del Secolo a cui appartiene, ma perché ha visto e rivisto Psyco. E non finisce mica qui.
Il telequiz che ci presenta Danielle e Philip non è l’unico rimando a Powell: da L’occhio che uccide De Palma ricava anche il tema della “scopofilia”, ovvero un voyeurismo meno amatoriale e più patologico.
William Finley, Margot Kidder, e Jennifer Salt in Le due sorelle Margot Kidder in Le due sorelle Jennifer Salt in Sisters
La protagonista è arruolata da un programma televisivo il quale, mentre le sue attrici si denudano in uno spogliatoio davanti a uomini che le credono cieche, indaga grossolanamente il livello voyeuristico della società. La chiave del film è tutta in questo prologo: cosa significa vedere? Lo spettatore medio e lo spettatore “colto” vedono alla stessa maniera? E ancor di più: cosa cerchiamo dal Cinema?
Philip non guarda il corpo di Danielle quando in teoria non ci sarebbe nessun rischio ad approfittarne e ne riceve in cambio il premio di poterla guardare – e non solo – mentre è guardato guardare. Lo scioglilingua gratuito è per introdurre la fine del ragazzo, che la prima volta ne esce quasi da eroe e la seconda muore. Nel frattempo è successo altro, a cominciare dal dialogo fuori campo di Danielle con la sua gemella Dominique, un intermezzo in francese che è un riferimento fin troppo esplicito ai deliri di Norman Bates. Si aggiunge dunque un ulteriore interrogativo: cosa significa non vedere?
Sisters è dopotutto una sinfonia polisemica: bisogna solo decidere se scendere o meno a qualche compromesso con chi ne è l’organizzatore. L’importante è che però ciò avvenga entro l’assassinio di Philip, perché poi il resto della trama è una co–costruzione totalmente imperniata sulle scelte, o sulle non scelte, avvenute nello spazio che va dal telequiz all’entrata in campo della giornalista. Gli indizi di una logica non logica sono due: la torta e la certezza di Grace Collier che l’omicida sia una donna.
Grace è la versione al femminile di James Stewart, la ficcanaso che dalla sua finestra vede e vuol far vedere, si interroga sull’esattezza dei propri sensi e cerca di convincerne gli altri.
A questo punto il quotidiano per cui lavora, allo scopo di disciplinare la sua non geometrica maniera di procedere, le affianca un detective che, oltre a costituire la quintessenza del MacGuffin, è anche il prototipo dello spettatore medio immerso nel film. Quando infatti alla fine si dipana l’intreccio, e la natura multipla di Danielle viene fuori tramite uno spiegone sempre di hitchcockiana memoria, noi assistiamo a un veridico flashback tra i cui attori c’è Grace stessa. De Palma lo racconta così:
Il pubblico si trasforma in questa ragazza [Grace], che spia attraverso un buco psicologico. Dal momento che, in un certo qual modo, io sono la ragazza, anche coloro che stanno là fuori possono impersonarla
Douglas Keesey, Brian De Palma’s Split-Screen: A Life in Film, University Press of Mississippi, 2015.
Il “possono” è relativo appunto alle scelte sulle quali discutevamo in precedenza, perché chi si è oramai immedesimato nel detective rimane letteralmente appeso a un palo (il finale è splendido), alla ricerca di una fredda coerenza che non è umana e di una complicità gerarchizzata fra la vita reale e l’Arte che non dovrebbe avere alcun motivo di esistere.
Abbiamo scritto in apertura che Le due sorelle è una Summa dei thriller/horror alla De Palma che, dal 1973, vanno per lo meno fino a Omicidio a luci rosse del 1984. Elenco dunque alcuni degli elementi destinati a ritornare:
- Lo split screen (memorabile in Carrie);
- Il doppio “hitchcockiano” (vedi soprattutto Obsession e Vestito per uccidere);
- –Il tema illustre del Vedere (la sua celebre articolazione “antonionana” in Blow Out);
- La nudità e l’occhio strizzato allo Slasher (il tutto in una versione un po’ pudica, retaggio forse dell’influenza calvinista di Godard);
- Le rotazioni “larghe” e i movimenti fluenti della macchina; i rallentamenti improvvisi etc…
Spesso è stato proposto il paragone fra De Palma e Dario Argento, vuoi per la condivisione di vari idoli – Hitchcock e Antonioni su tutti – vuoi per la maniera in cui entrambi hanno scolpito la storia di un genere. C’è da aggiungere che uno ha imparato dall’altro e viceversa (l’americano deve all’italiano la “visuale dell’assassino”, ad esempio, mentre proprio ne Le due sorelle si notano piccoli dettagli che anticipano Profondo Rosso), ma quel che sorprende è proprio la disomogeneità fra i percorsi: Argento ha affinato un po’ alla volta il suo cinema; De Palma, nell’ambito che lo avvicina al coetaneo, è invece partito subito da un programma generale da cui poi di volta in volta ha estratto qualcosa…