Le soulier de satin (1985): Un film di 410 minuti impregnato di teatro

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Le soulier de satin Locandina film

Le soulier de satin

Titolo originaleLe Soulier de satin

Anno: 1985

Paese: PortogalloFrancia, Svizzera, Germania Ovest

Genere: drammatico

Produzione: Les Films du Passage

Durata: 410 minuti

Regia: Manoel de Oliveira

Sceneggiatura: Manoel de Oliveira

Fotografia: Elso Roque

Montaggio: Janine Martin

Musiche: João Paes

Attori: Luís Miguel Cintra, Patricia Barzyk, Anne Consigny, Anne Gautier 

Le Souler de Satin è un particolare lungometraggio del 1985 del regista portoghese Manoel de Oliveira che va a creare un lungometraggio mastodontico che parla delle origini del cinema stessa e che incarna le tematiche e lo stile visionario più puro del cineasta. Tratta da una piece teatrale degli anni 20,  Le Soulier de satin (La scarpina di raso) di Paul Claudel, è stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia dove vinse un Leone D’oro speciale.

Trama di Le Soulier de satin

All’epoca della colonizzazione spagnola del Latino America, si narra la storia d’amore del giovane Don Rodrigue per Donna Prouhèze, la quale è già sposata, benchè l’uomo e lei siano innamorati da tutta la vita. Il titolo si riferisce al fatto che Donna Prouhèze dona alla statua della Vergine la sua scarpetta di raso.

Recensione di Le Soulier de Satin

La messa in scena integrale di una piece teatrale, già di per se lunghissima, occupa più di 300 pagine ed è stata messa in scena soltanto due volte nella storia, proprio per la lunghezza estrema di questo testo. Il cineasta mette in scena il testo rispettando tutti i dialoghi, non è un adattamento teatrale così come noi lo intendiamo tradizionalmente, prende la trama di Romeo e Giulietta di Shakespeare facendo qualcosa di diverso, ma prende la piece e la filma; è uno degli esempi più estremi di quello che si chiama il Teatro Filmato, che ci riporta indietro alla nascita stessa della narrazione cinematografica; l’origine della narrativa cinematografica sia inscritta nella modalità di racconto e di ripresa  che rimandano all’aderenza tra la prossimità del medium cinematografico nei primi anni di vita e il medium teatrale. Questo è un film che ibrida il dispositivo teatrale e quello cinematografico.

Nell’inquadratura della prima sequenza del film, abbiamo un presentatore che si rivolge direttamente al pubblico parlando di fianco a uno schermo cinematografico, ripresentando la presentazione delle immagini cinematografiche che era tipico del cinema delle origini, delle attrazioni, quando le proiezioni erano sempre accompagnate dalla presenza di un imbonitore o di un presentatore. Olivera è ossessionato dalle origini, vuole come un po’ tutto il cinema portoghese, trovare le origini delle cose, ed è come se questo film vuole avere il modo delle origini del cinema, del modo di vedere la realtà da cui trae origine tra la fine del 8 e l’inizio del 9, lo sguardo cinematografico.

La prima caratteristica di questo film, caratteristica di tutto il cinema moderno, è la riflessività: Le Soulier de Satin non nasconde mai il suo essere film, denunciando che quello che lo spettatore sta vedendo è qualcosa di costruito artificialmente, ed è la condizione primaria di quel distacco, di quello sguardo disincarnato. E’ uno dei più programmatici da questo punto di vista di lui, perché il film inizia dentro questo teatro in cui è proiettato la pellicola stessa che noi stiamo vedendo; vediamo gli spettatori seduti nella platea del teatro e il proiettore alle loro spalle che proietta il film; quello che noi vediamo sullo schermo altro non è che il lungometraggio che noi stiamo vedendo. E’ un esempio chiaro ed evidente di myse in abyme, che intende denunciare l’artificialità del film che viene presentato allo spettatore. Nell’ultima inquadratura della pellicola, una carrellata in retromarcia passa dall’immagine stessa del film fino a inquadrare le luci, il set cinematografico, i tecnici e i macchinisti che lavorano dentro il set filmico/teatrale.

All’inizio la storia si mostra come un film proiettato agli spettatori, mentre alla fine si dimostra come un artificio costruiti nel luogo fisico del set cinematografico. Dentro questa parentesi spettatoriale e realizzativa, troviamo una pellicola che da un lato vuole mettere in scena una piece teatrale nella sua integrità, e dall’altro nel risalire all’origine stessa del medium visuale cinematografico. Le Soulier de Satin presenta tutta una serie di forme visuali che ci rimandano al cinema delle origini e al cinema delle attrazioni. Sono le due forme visuali come le due matrici, le due origini a partire dalle quali si sviluppa tutto il cinema di Olivera: La Veduta, e il travelogue del cinema delle origini, che presentavano semplicemente una sequenza di luoghi l’uno dopo l’altro, senza nessun collegamento sintattico l’uno rispetto all’altro e che diventano una sorta di sostituzione simbolica del turismo; il fatto che gli spettatori del cinema delle origini non potevano viaggiare, avevano una conoscenza limitata del mondo, il travelogue diventava una forma di esperienza attraverso cui uno spettatore poteva conoscere che non aveva mai visto e visitato dal vivo, attraverso il film di viaggio che simulava l’esperienza del viaggio. Un film parlato è un film, in cui tutta la prima parte del film sono vedute cinematografiche che ripropone anche dal punto di vista sintattico l’esperienza del film di viaggio del cinema delle origini.

In questo film troviamo la persistenza di questo modo di rappresentazione primitivo, come se volesse risalire alle origini del cinema, e metter in scena una piece teatrale della durata di oltre sei ore attraverso questa modalità elementare e primigenia della rappresentazione cinematografica. 

Un’altra modalità di costruire l’artificio è di mettere un personaggio in una scenografia finta e di farlo parlare direttamente allo spettatore, in macchina da presa rompendo quel patto di trasparenza della diegesi del linguaggio che si regge il cinema classico. Il personaggio preso dalla piacé di origine che si chiama l’irreprensibile, pronuncia un breve monologo che ci riporta sul carattere artificiale del film che stiamo vedendo, e la capacità che ha il cinema come il teatro di manipolare il tempo. A teatro noi manipoliamo il tempo in modo artificiale, i giorni passano in un attimo e il tempo diventa un qualcosa di malleabile; cominciamo a vedere i vantaggio che un artificio rende possibile, se io denuncio il carattere artificiale, posso anche manipolare il tempo stesso che mi permette di compiere anche un lavoro di discorso sul tempo e la temporalità, uno dei temi importanti del cinema di Olivera; il tempo è un fenomeno complesso che non può essere ridotto alla cronologia o alla fabula. La scansione cronologica di azioni e di eventi che hanno una loro mono dimensione, ma il tempo in Olivera è sempre in conflitto, il tempo presente è la somma di tante temporalità diverse che scorrono con una loro velocità diversa, e si trovano quasi a convivere casualmente dentro un medesimo presente. E’ come se il presente none esistesse, ma tanti tempi differenti che per caso abitano nello stesso tempo, luogo e presente. Questa dimensione anacronistica del tempo è fondamentale nel suo cinema. Un altro esempio di artificialità lo vediamo nella sequenza in cui il fondale/dipinto comincia a mostrare i pianeti del sistema solare, nel momento in cui i personaggi iniziano a parlare della messa in crisi del sistema tomistico, con l’inizio dell’affermazione del sistema copernicano. Il film è ambientato a cavallo tra la fine del cinquecento e l’inizio del 600, con questo fondale palesemente artificiale diventa la visualizzazione che stanno avendo i due personaggi. La raffigurazione del sistema dei pianeti ci riporta al viaggio nella luna di Melies

Nelle soulier di satin richiama la colorazione artificiale dei cieli rossi, che rimandano alle colorazioni artificiali dei film degli anni 10, o in altri momenti troviamo degli effetti di luce per rappresentare la notte e il chiaro di luna richiamando le prime forme di colorazione del cinema dell’origine. Accanto agli effetti di luce, abbiamo anche gli effetti di ombra, che sono la vera archeologia del cinema, nella misura in cui noi sullo schermo non vediamo che delle ombre proiettate, superficiali, bidimensionali, proiettate sullo schermo, che si muovono dandoci l’impressione di essere dei corpi materiali. Tutto il suo cinema gioca sulla consistenza e sulla dialettica tra la consistenza corporea del personaggio e la sua consistenza immateriale, come se all’interno del film ci fosse una lotta fra il corpo del personaggio che cerca di uscire dalla sua bidimensionalità costitutiva, e il ritorno di polo che attrae il personaggio verso la sua natura bidimensionale, la sua natura fisica di ombra, che gli deriva dall’essere sempre e comunque un’immagine cinematografica. Tra la dialettica del corpo e la bidimensionalità dell’ombra, nascono molti degli effetti in cui lavora il suo cinema.

Questo desiderio steso di fissità che sta dentro le origini stesse del cinema rimanesse ancora nel cinema dopo cento anni di storia, come se questa fascinazione per l’immobilità di cui le stesse origini del cinema sono parte. Il regista ci riporta al meccanismo percettivo che era tipico dei giochi e delle macchine ottiche del diciannovesimo secolo, come il fenachistoscopio, questo disco rotante che si può vedere ancora nei musei di cinema in cui di solito venivano dipinte sedici fasi di una stessa azione ripetitiva; facendo ruotare questo disco davanti a uno specchio e osservando l’immagine attraverso una fessura, si aveva l’impressione di un movimento, ma ancora meccanico, che allo stesso tempo porta dentro di se il ricordo della coscienza della fissità, e questo stesso effetto vuole evocarlo, o attraverso un dispositivo simile, un movimento che richiama la meccanicità del movimento, il fatto che sia una successione di pose fisse, oppure nei film successivi, in maniera meno esplicita, la fissità diventa una sorta di calamita che attrae i personaggi e li rende sempre sul confine tra fissità e movimento, e il film di Olivera, in cui i dipinti e le fotografie sembrano animarsi, guardare i personaggi, sembrano prendere vita, e al contrario i personaggi sembrano pietrificati, diventare delle statue, come una sorta di racconto mitologico sembrano essere delle statue, e condannate all’immobilità.

Il primo esempio in cui la meccanicità del movimento rimanda al movimento come sequenza di pose fisse, e quindi anche ai trucchi del cinema delle origini, è in questa sequenza marittima, in cui troviamo il movimento del mare e quello delle balene, che è evocato da una serie di movimenti circolari e ripetitivi. Siamo in presenza di un movimento che ci parla della fissità, tutti noi siamo in grado d’immaginare che ci sia un motore che aziona il movimento. Un altro meccanismo in cui Olivera evoca la dialettica tra un movimento ripetitivo dato da una serie d’immagini fisse è attraverso delle citazioni di lastre di lanterna magica, un altro dispositivo ottico molto in voga nel diciannovesimo secolo, prima dell’invenzione del cinema; una serie di lastre di lanterna magica che attraverso una manovella permettevano di generare questo movimento ripetitivo e circolare. Anche qui c’è un’evocazione riflessiva sul dispositivo stesso cinematografico, perché le pale di mulino poste davanti a questa fonte luminosa di luce artificiale richiamano il movimento della croce di malta, della pala meccanica che oscura l’immagine nel momento in cui si cambia il fotogramma. I personaggi sono immobilizzati, come se si trovassero dentro una lastra di lanterna magica, in uno spettacolo completamente artificiali, come se venissero azionati da una manovella.

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