Lukas Dhont su Close “É l’inizio del viaggio verso l’adolescenza”

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Sinossi film: Léo e Rémy, 13 anni, sono sempre stati amici, fino a quando un evento impensabile li separa. Léo allora si avvicina a Sophie, la madre di Rémi, per cercare di capire.

Dopo l’ottima accoglienza del tuo film d’esordio Girl, prima a Cannes a maggio 2018 e poi a livello globale, quando hai avuto la possibilità d’iniziare a pensare di realizzare il tuo film successivo?

Lukas Dhont: Dopo Cannes, ho fatto il tour di promozione del film per circa 18 mesi. L’abbiamo proiettato ovunque – a Toronto, Telluride, Tokyo. Il film è stato anche selezionato come candidato all’Oscar come migliore film straniero del Belgio, quindi ho trascorso molto tempo negli Stati Uniti. Come prima esperienza è stata estremamente emozionante, ma anche travolgente. Ho attraversato alti e bassi durante quel periodo. Quando è arrivato il momento di passare ad altro, ho dovuto dimenticare il film, lasciandolo nel passato, come una parte di me. Quando finalmente sono tornato a casa e mi sono seduto davanti alla pagina bianca, è stato uno shock. Dovevo pensare a un argomento di cui parlare con altrettanta passione e in un certo senso riprendere ciò che avevo iniziato con Girl. Ho scoperto il cinema attraverso mia madre, che adorava il film Titanic, e poi attraverso i miei studi cinematografici. Non mi ci è voluto molto per capire che volevo fare film intimi e personali. Volevo esplorare quelle cose che mi destabilizzavano durante la mia infanzia e la prima adolescenza. In Girl, desideravo discutere dell’identità e della difficoltà di essere sé stessi in una società che si basa su norme sociali, etichette, caselle. Girl era anche un film fisico, incentrato su una lotta esterna e interna, e volevo continuare a esplorare la questione dell’identità e il conflitto derivante dal modo in cui vieni percepito dagli altri, dal gruppo. Principalmente, volevo parlare di un argomento profondamente personale.

Come è nata l’idea di raccontare questa storia di amicizia?

Ho esplorato diverse idee, ma ero confuso. Poi un giorno sono andato a visitare la mia vecchia scuola elementare nel paesino dove sono cresciuto. Ho ripensato a quando andavo a scuola a quei tempi, quando era davvero difficile essere il mio vero io, senza filtri. I ragazzi si comportavano in un modo, le ragazze in un altro, e mi sono sempre sentito come se non appartenessi a nessun gruppo. Ero molto inquieto per via delle mie amicizie, specialmente con i ragazzi, perché ero effeminato e mi prendevano molto in giro. Avere un rapporto stretto con un altro ragazzo sembrava confermare le supposizioni che gli altri avevano sulla mia identità sessuale. Una delle mie ex insegnanti, che ora è la preside, è scoppiata in lacrime quando mi ha rivisto. La reunion scolastica è stata particolarmente emozionante, i ricordi di cui abbiamo parlato non erano tutti allegri. Ancora oggi sto facendo i conti con gli anni dolorosi della scuola primaria e secondaria, ma non voglio sembrare troppo drammatico… Quindi ho cercato di descrivere questi sentimenti e di esprimere qualcosa su quel mondo dal mio punto di vista. Ho scritto alcune parole su quella pagina bianca: amicizia, intimità, paura, mascolinità… e da lì è emerso Close. La sceneggiatura ha poi cominciato a prendere forma in seguito alle conversazioni con Angelo Tijssens (il co – sceneggiatore di Girl)

Avevi in mente una tragedia fin dall’inizio?

No, questa cosa è venuta dopo. Tuttavia, era mia intenzione realizzare un film che rendesse omaggio agli amici con cui avevo perso i contatti, per colpa mia perché mi sono tenuto a distanza; sentivo di averli traditi. È stato un periodo di confusione e ho pensato che fosse la cosa migliore da fare. Inoltre, volevo parlare della perdita di una persona cara e dell’importanza del tempo che trascorriamo con coloro che amiamo. La storia si basa essenzialmente sulla fine di un rapporto intimo e sul conseguente senso di responsabilità e di colpa. Per certi versi è l’inizio del viaggio verso l’adolescenza. Volevo davvero parlare di quel pesante fardello che portiamo quando ci sentiamo responsabili di qualcosa ma non siamo in grado di parlarne. Léo, il protagonista, sta affrontando questo sentimento provocato dalla perdita di un’amicizia molto stretta che definisce la sua identità; Volevo mostrare sullo schermo cosa gli spezza il cuore.

Come hai sviluppato i personaggi di Léo e Rémi, i due ragazzi protagonisti di Close?

In un certo senso mi sento sia Léo che Rémi. C’è un pezzo di me in entrambi i personaggi. Innanzitutto abbiamo determinato l’età degli attori, un momento ben preciso tra l’infanzia e l’adolescenza: l’inizio della scuola secondaria, l’inizio delle domande sulla sessualità, i cambiamenti fisici, il proprio rapporto con il mondo e come queste cose si evolvono. Il libro Deep Secrets della psicologa Niobe Way, in cui analizza 100 ragazzi dai 13 ai 18 anni, è stato per me una delle principali fonti d’ispirazione. All’età di 13 anni, i ragazzi parlano dei loro amici come se fossero le persone che amano di più al mondo, alle quali possono aprire il cuore. L’autrice racconta di come ogni anno incontrava ciascun ragazzo e osservava come, con il passare degli anni, i ragazzi faticassero sempre più a far emergere l’idea d’intimità con i loro amici maschi. Questo libro mi ha aiutato a capire che non ero l’unico ragazzo gay cresciuto lottando con l’aspetto intimo dell’amicizia. Per quanto riguarda il personaggio principale, Léo, volevo che avesse paura che gli altri potessero percepire la loro amicizia come qualcosa di sessuale. Il suo amico Rémi ha a che fare con gli stessi giudizi, ma a lui non importa e non fa nulla per cambiare il suo comportamento. Léo è estremamente importante per lui; lo ama profondamente e non comprende perché cambi atteggiamento. C’è qualcosa di me in entrambi i personaggi, anche se il modo in cui tendo a vedere le cose è più prominente in Léo. Rémi, invece, rappresenta quelle persone che hanno cercato di rimanere fedeli a sé stesse.

I protagonisti di Close (2022)
Close (2022)

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C’è un senso di continuità tra Girl e Close in termini di messa in scena ed estetica, nel modo in cui i tuoi film sembrano sempre coreografati. Il corpo e il movimento sono centrali nel tuo lavoro?

Penso di sì. L’ho capito durante i miei studi di cinema. Mentre tutti gli altri studenti facevano tirocini nelle produzioni cinematografiche, io facevo stage con dei coreografi. Se devo essere sincero, non volevo diventare un regista, la mia ambizione era quella di diventare un ballerino. Ma ho rinunciato a quel sogno quando avevo 13 anni perché mi vergognavo. Quando ballavo mi sentivo giudicato e non avevo la forza di fregarmene di quello che pensavano gli altri. Però, quando ballavo avevo modo di esprimermi, di essere veramente me stesso. Quell’esperienza mi ha lasciato quasi una ferita fisica, ma nonostante tutto sono sempre rimasto vicino a coreografi e ballerini. La scrittura mi ha dato un altro modo per incanalare questo desiderio. Mi sono reso conto che trovo più difficile esprimermi attraverso le parole che attraverso il movimento e la danza. Questo è solo il mio secondo film, quindi mi sto interrogando di più e credo che i miei film incorporino il movimento come mezzo di comunicazione. Quando scrivo, le parole spesso si traducono in intenzioni corporee. In Close, volevo che i ragazzi fossero il più vicino possibile nel letto. Queste sono immagini che raramente riusciamo a vedere. Questa vicinanza tra due ragazzi ci è quasi estranea. C’è anche una scena di combattimento, una lotta corpo a corpo che è iconica nel linguaggio omosessuale. Il senso di colpa centrale nel film è anche qualcosa di estremamente fisico, come un fardello interno. Mi attraeva l’hockey su ghiaccio per ciò che rappresenta in termini di mascolinità e brutalità. Nella seconda metà del film, vediamo che l’hockey dà a Léo un motivo per indossare un elmetto, una gabbia metallica che gli copre il viso. Questo costume era interessante perché racchiude, maschera, appesantisce il movimento di una persona. Il movimento è sempre presente quando inizio a scrivere. Nei miei film amo comunicare attraverso i movimenti visivi e anche attraverso il suono.

È stato difficile trovare i due giovani attori?

Chiamalo destino o fortuna, ma subito dopo aver scritto la prima scena del film ho conosciuto Eden (che interpreta Léo) sul treno che andava da Anversa a Gand. Stava chiacchierando con i suoi amici, e aveva qualcosa d’incredibile, una grande espressività. Gli ho parlato e l’ho invitato al provino per la parte. Mi ha riconosciuto perché ha frequentato la stessa scuola di danza di Victor Polster (che interpreta il ruolo principale in Girl). Abbiamo visto molti ragazzi durante il casting. Ne abbiamo selezionati 40 e poi questi hanno fatto un’audizione a coppie. C’erano delle combinazioni sorprendenti, ma quando abbiamo visto Eden e Gustave (che interpreta Rémi) recitare l’uno di fronte all’altro, abbiamo capito che avevano un legame speciale. Sono riusciti a immergersi nell’emozione delle scene e subito dopo ne sono usciti rapidamente. Erano infantili eppure si avvicinavano ai loro ruoli con maturità. È stato un abbinamento fantastico.

Come hai formato queste due famiglie, e perché hai scelto l’ambientazione della campagna e dei campi fioriti?

Vengo da un paesino in mezzo alla campagna, a venti minuti da Gand. Questo è il mondo in cui sono cresciuto. La fattoria in cui si pratica la floricultura è basata su quella che c’era nel mio paese. Per me era importante che i campi di fiori trasmettessero una fragilità che contrasta con il mondo dell’hockey su ghiaccio. La famiglia di Léo lavora in questo ambiente colorato che proietta una particolare nozione di infanzia, ed è un paesaggio che cambia con le stagioni. Quando arriva l’autunno, i fiori vengono recisi, il che è un atto piuttosto violento, e i colori scompaiono. Il cambio di stagione crea anche una netta rottura tra i colori dell’infanzia e i toni terrosi del marrone e del nero. Volevo enfatizzare questi contrasti per trasmettere il processo di lutto di un bambino. Dopo l’inverno, i fiori vengono ripiantati e i colori ritornano, annunciando la speranza e la promessa di una vita che continua. Abbiamo scritto la scena finale molto presto perché fin dall’inizio volevamo usare il colore come espediente estetico. Per quanto riguarda la creazione delle famiglie, tutto è nato da un’unica immagine che avevo in mente sin dall’inizio: una madre e un bambino in macchina, il bambino incapace di esprimere ciò che prova. La scena era ancora piuttosto confusa nella mia mente, ma sapevo che doveva esserci un certo grado di tensione. Ricordo che quando ero giovane guardavo il film horror L’Innocenza del Diavolo, con Macaulay Culkin nei panni di un ragazzo con tendenze psicopatiche. Questo film mi ha ispirato e mi ha dato lo spunto per il personaggio di Sophie, la madre di Rémi, e anche per la madre di Léo, partendo dal presupposto che una delle due è al corrente della loro amicizia, visto che è a casa sua che i due ragazzi si frequentano, mentre c’è più distanza con l’altro ragazzo. Il personaggio del fratello maggiore è davvero significativo per me, in particolare nella seconda parte del film.

Le due madri sono entrambe descritte come personaggi piuttosto riservati. Émilie Dequenne e Léa Drucker interpretano donne forti che rimangono stoiche, mentre il padre cade a pezzi quando la tragedia colpisce. Come hai sviluppato questi personaggi, specialmente con le due attrici?

La scena della cena è fondamentale, e abbiamo pensato che sarebbe stato interessante per uno dei padri perdere il controllo emotivo. Ho visto Léa Drucker in L’Affido-Una Storia di Violenza. È un’attrice autentica che trovo incredibilmente toccante. L’ho incontrata nel 2019 ai César Awards. Si è rivelata così gentile, così dolce, e poi è salita sul palco e ha pronunciato quel potente discorso sull’accettazione! Desideravo tanto lavorare con lei. Quando abbiamo scelto Eden per il ruolo di Léo, ho subito notato la somiglianza e l’eleganza naturale tra loro. Era il momento ideale per fare squadra. Trovo Émilie Dequenne tremendamente commovente in ogni sua interpretazione. Irradia una grande umanità e si immerge completamente nei ruoli che interpreta. La scena della cena è fondamentale, e abbiamo pensato che sarebbe stato interessante per uno dei padri perdere il controllo emotivo. Ho visto Léa Drucker in L’Affido-Una Storia di Violenza. È un’attrice autentica che trovo incredibilmente toccante. L’ho incontrata nel 2019 ai César Awards. Si è rivelata così gentile, così dolce, e poi è salita sul palco e ha pronunciato quel potente discorso sull’accettazione! Desideravo tanto lavorare con lei. Quando abbiamo scelto Eden per il ruolo di Léo, ho subito notato la somiglianza e l’eleganza naturale tra loro. Era il momento ideale per fare squadra. Trovo Émilie Dequenne tremendamente commovente in ogni sua interpretazione. Irradia una grande umanità e si immerge completamente nei ruoli che interpreta. Nei tre anni che ci sono voluti per scrivere la sceneggiatura, ho incontrato molte madri che avevano perso un figlio. Una di loro – con la quale andavo spesso a passeggiare e che con me si confidava molto – ha scritto una lettera straordinariamente sincera su come si sentiva dopo la morte del figlio. Questa lettera descriveva come si sentiva imprigionata dal suo senso di colpa e dalla sua incapacità di elaborare il lutto. Era molto simile alla storia di Léo; c’è un chiaro parallelo. Nei film siamo abituati a vedere le donne piangere e urlare dal dolore, ma qui tutto è stato interiorizzato. Ho sentito una connessione con il racconto personale di quella madre, e questa è stata la chiave per sbloccare il personaggio interpretato da Émilie, che è abile nell’esprimere forti emozioni. Però durante le riprese le ho chiesto di non mostrare nulla, di tenere tutto dentro. Sono estremamente orgoglioso della sua interpretazione perché ho l’impressione che trasmetta così tanto sotto la superficie senza però cadere mai nel pathos. Mi ha insegnato molto sulla regia degli attori, ha capito ogni minima sfumatura, è fantastica! E poiché ha iniziato giovanissima nel film Rosetta, sa come ci si sente ad essere un’adolescente sul set di un film, quindi è stata brillante nel guidare i nostri giovani attori. Mi ha aiutato molto a dirigere Eden nelle scene che hanno condiviso, e le sono davvero grato per questo.

Il titolo del film, Close, implica sia l’idea d’intimità che di reclusione?

La mia decisione di chiamare il primo film Girl è stata una dichiarazione che sentivo di dover fare. Quanto a Close, era una parola che ricorreva spesso nel libro Deep Secrets: “close friendship1 “. È una parola inevitabile quando si descrive l’intima relazione tra questi due ragazzi. È questa intimità così iper-scrutata il catalizzatore dei tragici eventi del film. Quando perdiamo qualcuno, cerchiamo l’intimità con la persona che se n’è andata. Veniamo gettati in una sorta di lotta filosofica. La parola evoca altrettanto facilmente l’idea di essere confinati, di indossare una maschera, l’incapacità di essere noi stessi. La prima proposta per il titolo del film – We Two Boys Together Clinging – è il titolo di un dipinto di David Hockney ispirato a una poesia di Walt Whitman, e rappresenta la fratellanza tra due uomini. ‘Clinging’ (‘Aggrapparsi’) è una parola particolarmente espressiva, per via del desiderio di aggrapparsi saldamente a qualcuno.

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