Marco Chiappetta parla del film da lui diretto Santa Lucia (2022)

Sinossi

Dopo molti anni trascorsi in Argentina, Roberto, scrittore ormai cieco, torna a Napoli per la morte della madre. Insieme con il fratello Lorenzo, musicista mancato, intraprenderà un viaggio della memoria nella città della sua giovinezza, che non può più vedere ma solo percepire attraverso i sensi che gli restano, i ricordi e l’immaginazione, alla ricerca del tragico motivo del suo addio.

Intervista

Com’è avvenuto, nel tuo percorso, il passaggio dal cortometraggio autoprodotto al lungometraggio professionale?

Ho iniziato a fare cortometraggi già dal liceo, a 17 anni, e ho continuato durante gli anni universitari tra Napoli e Parigi, con lo scopo di esercitarmi in ogni reparto tecnico e sviluppare una mia voce. Anche se girati con piccoli mezzi, i cortometraggi sono stati presentati e proiettati in diversi festival internazionali e, sin da subito, hanno attirato l’attenzione di quello che sarebbe stato il mio futuro produttore Angelo Curti, di Teatri Uniti, il quale, dopo aver seguito i miei lavori per anni, mi invitò a dedicarmi alla scrittura di un lungometraggio e accantonare il formato corto.

La lavorazione sul set ha risentito delle limitazioni imposte dalla pandemia? La totale mancanza di comparse e della “folla” vuole essere anche un riferimento alla contemporaneità?

Con un tempismo davvero perfetto, le riprese del film sarebbero dovute iniziare a marzo 2020, per poi essere rinviate nell’autunno-inverno 2020-2021. Meglio così: dal punto di vista ambientale e metereologico la stagione si è rivelata ideale per la rappresentazione della Napoli cupa e livida che avevo in mente dall’inizio. Credo che le limitazioni e le restrizioni, anche in situazioni straordinarie come questa, possano aiutare la creatività, ma nel mio caso l’idea di una città deserta e quasi apocalittica, popolata dai soli protagonisti e dai ricordi del passato, era presente sin dalla prima versione della sceneggiatura. Il periodo storico in cui ci siamo trovati poi a girare, con la gente chiusa in casa e un silenzio di morte, ha solo favorito questa visione di una Napoli atipica, senza sole, senza caos, senza gente e senza tempo. Il vero problema della situazione pandemica è stato piuttosto dover affrontare ogni giorno la lotteria dei tamponi e pregare Santa Lucia di non far chiudere il set per qualche contagio (cosa che invece ovviamente è avvenuta col solito tempismo dopo appena 4 giorni di riprese, fortunatamente senza danni, a parte quelli alla mia psiche).

Com’è stato per un giovane regista esordiente lavorare con due attori di grande esperienza come Carpentieri e Renzi?

Dirigere due grandi attori come Renato e Andrea è un privilegio che non capita a tutti i registi, esordienti ancor meno. Grazie al loro talento, alla loro esperienza, alla loro intelligenza, abbiamo costruito insieme i personaggi, incollandoli alla loro pelle e alla loro indole, nel corso di diverse letture del copione, per poi arrivare sul set con le idee chiare. Mi ha emozionato vedere quanta verità hanno dato a questi personaggi che esistevano solo sulla carta e nella mia testa, creando tra loro un’alchimia spontanea e realistica, come se fossero davvero due fratelli uniti da un comune vissuto. Lavorare con loro è stata una sfida quotidiana per me, dovevo dimostrare a questi due leoni di essere un buon capitano e di essere alla loro altezza, pur avendo solo 29 anni all’epoca delle riprese.

Marco Chiappetta
Marco Chiappetta

“Santa Lucia” può essere considerato l’ultimo rappresentante, in ordine di tempo, della tradizione del recente cinema napoletano di matrice teatrale, a partire dalla produzione di Teatri Uniti che tutti ricorderanno per aver dato – tra le altre cose – i natali al cinema di Martone e Sorrentino. C’è qualcosa di teatrale anche in questo film?

Alcuni elementi del film, come il dialogo costante tra i due protagonisti e la claustrofobia degli ambienti (tanto interni quanto esterni), rilevano sicuramente una reminiscenza teatrale, oltre che letteraria, ma ho sempre immaginato il film soprattutto come un’esperienza visiva e sensoriale, trattandosi di una storia vista e vissuta attraverso il “punto di vista” di un cieco. La prima versione della sceneggiatura era molto più lunga, più parlata e appunto più teatrale, ma nel corso del tempo, grazie anche alla collaborazione degli attori, si è affinata e asciugata fino a raggiungere un valido compromesso.

Quella che vediamo è una Napoli atipica: uggiosa e quieta, quasi de-saturata nei colori della fotografia, sicuramente lontana dalle immagini da cartolina di molti film…

Più che una città, la Napoli del film è uno stato d’animo. Io e lo scenografo Lino Fiorito abbiamo volutamente scelto location inedite al cinema, lontano da Vesuvio, panni stesi e vicoletti, per raccontare una città altra, universale, poetica e senza tempo, che rappresentasse le sensazioni e le emozioni del protagonista, un cieco che non può vedere la città, ma solo immaginarla, ricordarla, ricrearla. Da autore nato e cresciuto a Napoli, ma evoluto in Francia, mi interessava trasfigurare la realtà e raccontare la città nel suo lato più cupo, malinconico e misterioso, così come la sento io. Sentivo soprattutto l’esigenza di sprovincializzare l’immagine ormai trita di una città troppo spesso ridotta a caricatura.

Roberto è andato all’estero ed è diventato famoso, al contrario Lorenzo non si è mai allontanato dalla sua regione di nascita. Roberto pare rimproverare il fratello Lorenzo per una certa mancanza di ambizione. È dunque ravvisabile nel film un tuo personale messaggio sulla necessità di staccarsi dal proprio nido familiare per realizzarsi a livello personale e professionale, anche se questo può comportare una sofferenza interiore?

Il nido familiare è al tempo stesso un rifugio e una prigione. Non sono radici, ma catene. A partire dalla mia stessa esperienza all’estero, credo che il dilemma della fuga dal nido, la smania di affermarsi e di raggiungere i propri obiettivi, per quanto lontani geograficamente e nel tempo, siano esigenze inevitabili, specie oggi per la mia generazione, ma comportano altresì dei costi esistenziali drammatici. Nel film, questo tema, a me caro, è raccontato simbolicamente attraverso la metafora del labirinto.

Hai un aneddoto sulla lavorazione a cui tieni particolarmente e che vorresti condividere con chi vedrà il film? E un consiglio per i giovani registi italiani pronti a esordire nel lungometraggio?

La casa del film coincide con la sua descrizione precisa nella sceneggiatura. Quando il mio scenografo l’ha trovata non credevamo ai nostri occhi: la casa si era materializzata, così come l’avevo immaginata. Il suo proprietario, un anziano corniciaio, viveva da solo, in una casa troppo grande per lui e scalfita dalle cicatrici del tempo, dove tutto era rimasto uguale da più di 40 anni. Era una casa fantasmagorica, ferma nel tempo, la protagonista ideale di questa storia. Le ho dato giusto un tocco più personale aggiungendo oggetti e feticci della mia infanzia. A un regista esordiente consiglierei di restare coerente alla propria visione, ma anche di assecondare i giochi del destino: ogni cambiamento, seppur improvviso e indesiderato, può giovare al film. Come diceva Renoir, bisogna sempre lasciare aperta una porta sul set: non si sa mai, qualcuno d’inatteso potrebbe entrare, è la realtà che ti fa un regalo!

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