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Piazza
Titolo originale: Piazza
Anno: 2021
Paese: Italia
Genere: Documentario
Produzione: Sacher Film, Rai Cinema
Durata: 60 min
Regia: Karen Di Porto
Montaggio: Fabrizio Franzini, Karen Di Porto
Fotografia: Maura Morales Bergmann
Il film, prodotto da Nanni Moretti il quale ha già reclutato la Di Porto come attrice nel suo Tre Piani, ha partecipato recentemente al Salina Film Festival dove ha ricevuto il premio dagli studenti dell’Università Roma Tre ed esce sugli schermi il 4 luglio, un’occasione per approfondire la conoscenza della cultura ebraica e di un pezzo di Roma.
Trama di Piazza
Piazza è il cuore dell’ebraismo romano. Una piccola zona nel centro di una grande città con una storia dura e antica. In un racconto che procede per interviste ai protagonisti di Piazza, si ricostruisce un presente vivace e un passato di dolore e orgoglio, attraverso lo sguardo della figlia di uno di loro. Una realtà ebraica particolare si fa simbolo della diaspora mondiale in un viaggio alla scoperta di un mondo che, visto dal suo interno, ci appare più vicino.

Recensione di Piazza
Karen di Porto, al suo primo documentario, dopo il successo di Maria per Roma del 2017, conferma la sua bravura nel raccontare storie apparentemente piccole e quotidiane che in realtà sottendono tutta una serie di considerazioni e riflessioni che riguardano noi stessi e il nostro approccio a determinate tematiche.
Piazza parte da un luogo, un punto di ritrovo un po’ particolare poiché è allo stesso tempo un luogo simbolo della comunità ebraica di Roma situato in quello che fino a cento cinquant’anni fa era il ghetto di Roma. Come ben evidenziato nel film tale accezione è rimasta incollata a quel luogo che identifica la comunità che ci vive, un’accezione spesso usata con superficialità, ma che è giustamente contestata dagli abitanti. Attraverso le loro voci emerge il rapporto spesso difficoltoso tra la comunità e il fuori, ma anche all’interno della stessa ci sono differenze tra nuove e vecchie generazioni.
D’altra parte, il rapporto tra il popolo ebreo con i non ebrei è sempre molto complicato per ragioni storiche, tanto che la regista si pone espressamente il dubbio di quanto la chiusura della comunità verso l’esterno sia conseguenza dei pregiudizi radicati nei suoi confronti o quanto oppure è l’atteggiamento di chiusura e isolamento che genera i pregiudizi. È un problema questo sentito maggiormente dalle nuove generazioni, quelle che hanno avuto la fortuna di nascere in periodo in cui la comunità ebrea non è vessata come in periodi passati della storia.

Karen Di Porto parte appunto da un luogo, piccolo, da cui la Storia si espande attraverso il ricordo dei personaggi che la vivono e la frequentano, ma è anche un’occasione per la regista di intraprendere un viaggio personale nella sua famiglia e soprattutto nel rapporto con il padre, analizzato attraverso una maturità acquisita e una conoscenza ricostruita degli anni della sua infanzia. Così anche la conoscenza dello spettatore viene accresciuta da altri tasselli: se ormai fortunatamente tutti sono a conoscenza degli orrori della Shoah, delle leggi razziali, di deportazioni e uccisioni di massa che ha subito il popolo ebraico, forse pochi conoscono la realtà di una comunità, nello specifico quella romana, che ha dovuto confrontarsi con la creazione dello Stato d’Israele, il suo rapporto con questo, la vita quotidiana negli anni di piombo in cui la lotta politica ha rinfocolato l’antisemitismo, o ancora il revisionismo strisciante degli anni novanta che ha riproposto quelle che sembravano vecchie paure ormai accantonate.

Il quadro che ne emerge è, per forza di cose, controverso e difficilmente etichettabile, come d’altra parte sono tutte le attività umane, ma è allo stesso tempo un ulteriore indicatore della pericolosità e dannosità dei pregiudizi, da qualunque parte essi provengano. Un invito all’impegno nella conoscenza e al confronto mai superfluo e sempre più necessario per superare contrapposizioni e strappi. Oltre all’analisi prettamente sociale la regista offre anche un interessante e divertente documento antropologico, e allora veniamo a conoscenza dell’origine e dell’importanza dei soprannomi nella comunità ebraica romana, la lingua/dialetto giudaico-romanesco: la storpiatura di parole ebraiche in dialetto romanesco utilizzata soprattutto per non farsi capire dagli enghesavve (i non ebrei).
