Bruised – Lottare per vivere (2020): restare in piedi nonostante tutto

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Bruised - Lottare per vivere

Bruised – Lottare per vivere

Titolo originale: Bruised

Anno: 2020

Paese: Stati Uniti d’America, Gran Bretagna

Genere: drammatico, sportivo

Produzione: Entertainment 360, Thunder Road Pictures, Romulus Entertainment

Distribuzione: Netflix

Durata: 138 min.

Regia: Halle Berry

Sceneggiatura: Michelle Rosenfarb

Fotografia: Frank G. DeMarco, Joshua Reis (nel ruolo di additional photography)

Montaggio: Jacob Craycroft, Terilyn Shropshire

Musiche: Aska Matsumiya (ASKA)

Attori: Halle Berry, Shamier Anderson, Adan Canto, Sheila Atim, Stephen McKinley Henderson, Valentina Shevchenko, Lela Loren, Danny Boyd Jr.

Trailer italiano di Bruised – Lottare per vivere

Disponibile su Netflix a partire dal 24 novembre, Bruised – Lottare per vivere è stato presentato il 12 settembre 2020 al Toronto International Film Festival dove ha conquistato, grazie all’interpretazione di Sheila Atim, il Rising Stars Award. Diretto dal premio Oscar Halle Berry (per Monster’s Ball, M. Forster, 2001), al suo esordio in un duplice ruolo da registra/attrice, il film è sceneggiato da Michelle Rosenfarb, conosciuta per il cortometraggio Sweet Surrender (B. Chatterjee, 2011), ma già ingaggiata dalla New Line Cinema per scrivere lo script del futuro Life in Motion, the Misty Copeland, lungometraggio biografico che sarà diretto da Nzingha Stewart. A curare la fotografia è invece Frank G. DeMarco, tre volte nominato ai Film Independent Spirit Awards con Habit (L. Fessenden, 1995), Hedwig – La diva con qualcosa in più (J. C. Mitchell, 2001) e All Is Lost (J. C. Chandor, 2013), mentre il duo composto da Jacob Craycroft (Città di carta, J. Schreier, 2015) e la candidata al Primetime Emmy Awards Terilyn Shropshire (When They See Us, A. DuVernaysi, 2019; The Old Guard, G. Prince-Bythewood, 2020) si è dedicato al montaggio. Musicato da ASKA (Betty, 2020-2021), nel cast, oltre ad Halle Berry e Sheila Atim, figurano anche Stephen McKinley Henderson (Barriere, D. Washington, 2016) e Shamier Anderson (Race – Il colore della vittoria, S. Hopkins, 2016).

Trama di Bruised – Lottare per vivere

Jackie Justice (Halle Berry) è una ex combattente di arti marziali miste che ha abbandonato da quattro anni la UFC. I tempi in cui combatteva nella lega sono ormai lontani, e ora sembra accontentarsi di condurre una vita ai margini della società, sopravvivendo economicamente grazie al suo lavoro da domestica e frequentando di tanto in tanto circoli MMA illegali spinta dal compagno Desi (Adan Canto). Inaspettatamente la sua vita svolta quando il piccolo Manny (Danny Boyd Jr.), il figlio che ha abbandonato anni prima, si presenta alla sua porta. Jackie si trova così costretta ad accettare le proprie responsabilità, iniziando un percorso di redenzione che però la conduce di nuovo sull’Octagon

Recensione di Bruised – Lottare per vivere

Ci vuole certamente coraggio, oltra ad ambizione, nel voler esordire dietro alla macchina da presa con un film come Bruised – Lottare per vivere. Halle Berry comincia infatti la sua carriera da regista con un genere, quello sportivo e legato al combattimento, che rimanda chiaramente a dei cult assoluti come Rocky (J. G. Avildsen, 1976) e Toro scatenato (M. Scorsese, 1980). Il lungometraggio in cui figura Sylvester Stallone, in particolare, rappresenta il modello (iconico) a cui indubbiamente ogni film di genere affine viene accostato, svelando potenzialità ma anche riproposizione di cliché che possono ridurre l’originalità dell’opera. Negli anni, del resto, si sono susseguite pellicole più o meno riuscite, con una notevole approvazione, da parte di pubblico e critica, per quelle in grado di rinnovare il genere, magari approfondendo caratteri o tematiche sempre rimaste in secondo piano. Million Dollar Baby (C. Eastwood, 2005) e The Fighter (D. O. Russell, 2010) ne sono un esempio, come, per altri aspetti, il Creed (2015) di Ryan Coogler, capace di rimettere in gioco proprio il personaggio di Rocky Balboa. E non c’è dubbio che anche Halle Berry si sia riferita a quelle produzioni, impostando il suo Bruised con un’intensità che la rende comunque già vincitrice. Perché è chiaro che l’attrice nata a Cleveland nel 1966 ci abbia messo tutta l’energia possibile per interpretare Jackie Justice, non solo dal punto di vista dell’impegno fisico (notevole la sua preparazione, perfezionata con lezioni di Jiu Jitsu), ma anche – e soprattutto – per le sfumature capace di conferire al suo personaggio. Che è originale non perché ha combattuto nella UFC; al contrario Jackie colpisce per la sua dolorosa umanità, per quella sopravvivenza che tenta di mantenere, per quella vita da cui ha preso le distanze. In tal senso, Halle Berry interpreta sullo schermo una donna ai margini, molto diversa da altri caratteri apparsi nei film di combattimento, sottolineando in questo modo il vero obiettivo del film, di certo più vicino a quelle storie di vita che rendono interessante il genere. L’ultimo match perso malamente (distanziandosi così dalla classica figura dell’eroe), i problemi di alcolismo e il disperato sforzo per nasconderli, il figlio abbandonato e poi ritrovato, le responsabilità da assumere, e poi quel vento incessante che sembra spirarti sempre contro, sono il mondo che Jackie è costretta ad affrontare, alludendo al concetto che la vera battaglia è fuori dall’Octagon. Un’esistenza tormentata che la Berry regista riesce a rendere con altrettanta efficacia, inquadrando le sequenze dalla giusta prospettiva (l’inquadratura su Manny durante il litigio ne è un esempio) ed elaborando una dinamica (e apprezzabile) profondità di campo in grado di trasmettere lo stato d’animo di Jackie allo spettatore, ma anche la sua concentrazione e quel senso di oppressione che la ostacola costringendola ai più duri KO.

Ed è forse questa, ovvero la rappresentazione di un personaggio complicato e tormentato per certi aspetti simile al Randy Robinson di The Wrester (D. Aronofsky, 2008), che rende così coinvolgente Bruised: un film incentrato sulla (lenta) risalita di una donna, o ancora più appropriato, su una grande che impara a vivere solo quando scaccia le sue paure. Ma poi il film diretto da Halle Berry è anche molto altro. Un’opera dura e diretta che trasmette la condizione di una donna che cerca di rialzarsi in una realtà che sembra sforzarsi di trattenerla giù, sottometterla con un perfetto stile di grappling. Il personaggio di Desi, ad esempio, interpretato ottimamente da Adan Canto, che invece di proteggere Jackie in quanto manager e soprattutto compagno, sottolinea le sue debolezze, stabilendo un lavoro non di squadra che è poi il motivo della sua uscita dalla UFC. Un uomo che non tollera il nuovo arrivato Manny, infuocando il clima familiare con quella traccia di violenza pura e insensata che differenzia le liti domestiche da quelle sull’Octagon. Oppure la madre di Jackie, da un lato (ben nascosto) protettiva, ma dall’altro ostinata a ricordare le colpe della figlia, dimenticando il drammatico passato che ha contraddistinto la sua infanzia. O ancora l’allenatrice Bobbi Buddhakan Berroa (una brava Sheila Atim), dirompente per la sua intensità negli allenamenti ma anche una ragazza fragile e a sua volta bisognosa di aiuto. Storie di vita (appunto), capaci di rappresentare con aderenza alla realtà uno spaccato della società: quello più nascosto, intimo, triste e vero. Lo stesso in cui una madre non può permettersi di spendere più di 20 dollari al supermercato. Lo stesso in cui deve lottare per conquistare la fiducia del figlio. Lo stesso in cui deve ritrovare la forza per salire su quell’Octagon e dimostrare che sì, ce la può fare, e che nonostante tutto e tutti, lei è ancora lì. In piedi. E pronta per combattere.

Note positive

  • L’interpretazione di Halle Berry (un plauso anche per la notevole preparazione fisica)
  • La regia di Halle Berry, al suo esordio dietro la macchina da presa
  • La sceneggiatura di Michelle Rosenfarb, capace di rinnovare il classico ritmo dei film sul combattimento
  • La fotografia di Frank G. DeMarco

Note negative

  • Nonostante il film sia decisamente consigliato, alcuni passaggi non mantengono lo stesso livello (alto) di originalità della maggior parte dello script
  • La limitata parte di Stephen McKinley Henderson (Barriere, D. Washington, 2016)
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