
I contenuti dell'articolo:
Good American Family
Titolo originale: Good American Family
Anno: 2025
Paese: Stati Uniti d’America
Genere: Drammatico
Casa di Produzione: 20th Television, Babka Pictures, Calamity Jane, Andrew Stearn Productions, Naptown Productions, Industry Entertainment Partners
Distribuzione italiana: Disney+
Ideatore: Katie Robbins, Sarah Sutherland
Stagione: 1
Puntate: 8
Regia: Liz Garbus, Stacie Passon, Seith Mann, Eva Vives
Sceneggiatura: Katie Robbins, Sarah Sutherland, Eoghan O’Donnell, Jaquen Tee Castellanos, Samantha Levenshus
Musica: Marcelo Zarvos
Attori: Ellen Pompeo, Mark Duplass, Imogen Faith Reid, Sarayu Blue, Dulé Hill, Jenny O’Hara, Kim Shaw, Christina Hendricks
Trailer di “Good American Family”
Informazioni sulla stagione e dove vederla in streaming
Good American Family è una miniserie originale Hulu basata su un fatto di cronaca realmente accaduto, incentrato sulla storia di Natalia Grace, una bambina ucraina affetta da nanismo, adottata nel 2010 da una famiglia americana, i Barnett. Dopo appena un anno, la famiglia decise di abbandonarla, sostenendo che Natalia non fosse affatto una bambina, bensì una donna di 22 anni. Nel 2012, i Barnett presentarono una petizione al tribunale della contea di Marion, in Indiana, ottenendo la modifica del certificato di nascita di Natalia: la sua data di nascita venne retroattivamente cambiata al 1989, facendola risultare legalmente adulta, di 22 anni, invece degli otto che dichiarava. Quando Natalia iniziò a vivere con Antwon e Cynthia Mans, e i Barnett si trasferirono in Canada, la vicenda non era ancora finita. Nel 2019, Kristine e Michael Barnett furono accusati di negligenza nei confronti di una persona a loro carico, ma all’epoca non furono ritenuti colpevoli.
La svolta è arrivata nell’agosto del 2023, quando la società di analisi sanitarie TruDiagnostic ha condotto un test del DNA su Natalia Grace. I risultati hanno stimato che al momento dell’abbandono, nel 2011, Natalia avesse effettivamente circa otto anni. Grazie a queste nuove evidenze, la sua data di nascita è stata ufficialmente corretta al 2003. Le accuse contro Kristine Barnett sono state archiviate nel 2023, mentre Michael era stato assolto già nel 2022.
La miniserie Hulu, liberamente ispirata alla vicenda di Natalia Grace e costruita anche sulla base delle testimonianze rilasciate da chi ha vissuto da vicino i fatti, vede protagonisti Ellen Pompeo (Grey’s Anatomy, Moonlight Mile – Voglia di ricominciare), Mark Duplass (Creep, The Lazarus Effect) e Imogen Reid. Tra le guest star ricorrenti figurano Dulé Hill, Christina Hendricks, Sarayu Blue e Jenny O’Hara.
Creata da Katie Robbins, che firma anche come showrunner e produttrice esecutiva, la serie è prodotta da 20th Television. Ellen Pompeo è coinvolta anche nella produzione esecutiva attraverso la sua casa di produzione Calamity Jane, insieme a Laura Holstein. Completano il team dei produttori esecutivi Andrew Stearn, Dan Spilo, Niles Kirchner e Mike Epps. L’episodio pilota è diretto da Liz Garbus, anch’essa impegnata nel progetto come produttrice esecutiva.
Good American Family è disponibile in esclusiva su Disney+, dove ha debuttato in Italia il 9 aprile 2025 con i primi cinque episodi rilasciati al lancio, seguiti da un nuovo episodio ogni settimana.
Il fatto di cronaca riferito a Natalie Grace, tutt’ora in evoluzione, è stato trattato anche nella miniserie documentaristica The Curious Case Of Natalia Grace (2023).
Trama di “Good American Family”
Kristine e Michael Barnett, una coppia del Midwest alle prese con tensioni familiari e coniugali, decidono di adottare Natalia, una bambina ucraina affetta da una rara forma di nanismo, convinti che il suo arrivo possa rappresentare una nuova opportunità per ricucire i legami e restituire vitalità a una quotidianità ormai spenta. Inizialmente accolta con entusiasmo da tutta la famiglia – compresi i tre figli biologici della coppia – la presenza di Natalia in casa Barnett si rivela ben presto tutt’altro che pacifica.
Kristine comincia a nutrire dubbi sempre più inquietanti sull’identità della bambina: certi suoi comportamenti, a tratti disturbanti, la spingono a interrogarsi sulla sua reale età, sulle sue origini e sulle vere intenzioni dietro il suo silenzio e i suoi atteggiamenti. Quella che sembrava una scelta d’amore si trasforma gradualmente in un incubo, coinvolgendo non solo la famiglia ma anche Natalia stessa, che da figlia adottiva diventa bersaglio di sospetti e accuse, vista come un’adulta che si finge bambina per ingannare chi la circonda.
Recensione di “Good American Family”
Assenza di coraggio: è questa la frase che meglio sintetizza Good American Family, la miniserie Hulu distribuita in Italia su Disney+. Un prodotto certamente intrigante per l’argomento trattato e per la struttura drammaturgica adottata, che nei primi cinque episodi pone Kristine al centro della narrazione, salvo poi ribaltare la prospettiva mostrando — in modo più o meno edulcorato — il punto di vista di Natalia Grace e del marito Michael.
Pur mantenendo un buon ritmo narrativo e una costruzione che sa tenere vivo l’interesse dello spettatore, la serie mostra fin da subito la volontà dei suoi autori di non affondare davvero il coltello nella materia incandescente della vicenda reale. In otto episodi, infatti, non viene mai davvero esplorata l’oscurità autentica di questa storia. La brutalità, le tensioni più cupe e disturbanti emergono solo a tratti, sempre diluite all’interno di una narrazione che preferisce non sporcarsi, scegliendo invece una forma levigata e accessibile.
Ne risulta un racconto confezionato in modo da non turbare eccessivamente, pensato per un pubblico generalista, dove il potenziale dirompente della vicenda viene neutralizzato da uno stile registico e atmosferico privo di reale identità. Nessuna scena effettivamente scioccante, nessun momento visivamente o emotivamente destabilizzante. La scelta è chiara: smussare ogni spigolo, evitare l’abisso. In particolare, la figura di Kristine, che nelle dichiarazioni di Natalia e del marito viene descritta come una donna violenta e manipolatrice, viene restituita in forma attenuata, quasi addomesticata, privando la narrazione di quella verità scomoda e cruda che avrebbe potuto trasformare la miniserie in qualcosa di davvero memorabile.
Un altro elemento rilevante è la scelta della miniserie di non prendere mai una posizione chiara rispetto agli eventi legati a questo controverso caso di adozione americano (nonostante un finale che sembra schierarsi con Natalia). Good American Family opta invece per una narrazione multiprospettica, che alterna i punti di vista dei tre protagonisti della vicenda: Kristine, Michael e Natalia. Nei primi cinque episodi, l’attenzione è rivolta quasi esclusivamente alla figura di Kristine, ritratta come una sorta di eroina moderna, una madre devota e appassionata che ha dedicato la propria vita alla cura dei bambini affetti da autismo.
Attraverso il suo sguardo, lo spettatore viene introdotto nella storia di Natalia: una bambina che ci viene presentata sin da subito con tratti inquietanti, al limite del disturbante, una presenza ambigua e per certi versi spaventosa. Eppure, nonostante le suggestioni visive e drammaturgiche, la serie evita accuratamente di abbracciare toni e codici del genere horror, mantenendo un approccio più trattenuto, quasi psicologico, che però — proprio per questa indecisione di fondo — finisce per risultare parzialmente inefficace nel restituire la reale tensione emotiva e morale della vicenda.
La prospettiva di Kristine ci racconta di una bambina–o forse un’adulta–affetta da un disturbo della sfera sociale, delineata attraverso comportamenti inusuali e inquietanti, talvolta perfino violenti. È attraverso il suo sguardo che assistiamo a episodi disturbanti, come lo sgozzamento di un peluche con un coltello o il presunto tentativo di omicidio nei confronti di uno dei figli biologici della coppia. Tuttavia, a partire dal sesto episodio, la narrazione opera un repentino cambio di prospettiva: Natalia Grace si pone ora al centro della scena, e lo spettatore viene spinto a osservare la realtà dalla sua angolazione, quella di una ragazza affetta da nanismo, costretta a confrontarsi con una quotidianità brutale e spesso insostenibile, soprattutto considerando la sua condizione fisica e mentale.
Questo spostamento del punto di vista è lo stratagemma narrativo che consente finalmente di empatizzare con Natalia, mostrando la durezza del mondo che la circonda e la brutalità – più psicologica che fisica – dei Barnett, con Kristine in primo piano. Tuttavia, proprio in questa inversione drammaturgica, la serie rivela un grave limite: non ci viene mai offerto uno sguardo interno sulla vita familiare vissuta da Natalia all’interno della casa dei suoi genitori adottivi. Il racconto resta filtrato unicamente attraverso le parole di Kristine, mentre l’esperienza diretta della bambina rimane relegata a qualche flashback frammentario e privo di reale impatto. Il risultato è una narrazione che suggerisce la violenza più che mostrarla, e che finisce per edulcorare il lato più crudo e inquietante della storia. La violenza di Kristine, che secondo la testimonianza di Natalia e di Michael sarebbe stata fisica, folle e reiterata, non viene mai visualizzata in modo diretto, lasciando lo spettatore con una sensazione di incompiutezza e di mancata immersione nel lato più oscuro e disturbante dell’intera vicenda.
La miniserie indaga, dunque, i vari personaggi della storia, senza ridursi a un semplice racconto binario di vittime e carnefici. Oltre ai punti di vista di Kristine e Natalia, lo spettatore è invitato a osservare la vicenda attraverso gli occhi di Michael, una figura maschile tratteggiata con grande ambiguità e complessità. Apparentemente fragile e insicuro, Michael sembra essersi progressivamente smarrito in un’esistenza dominata da una presenza femminile fortemente condizionante. La narrazione suggerisce — senza mai affermarlo in maniera didascalica — che Michael abbia subito nel corso degli anni una sorta di gaslighting da parte della moglie, donna che emerge con sempre maggiore inquietudine nelle ultime puntate come un personaggio manipolativo, capace di riscrivere la realtà a proprio vantaggio. La sua non è solo una manipolazione nei confronti del coniuge: il meccanismo si estende, lentamente ma inesorabilmente, anche ai figli. A loro la madre racconta versioni distorte degli eventi familiari, finendo per instillare convinzioni che si cristallizzano nel tempo come verità assolute, dando forma a una memoria collettiva viziata, fondata su falsi ricordi.
In questo contesto, risalta in maniera significativa l’interpretazione di Ellen Pompeo, che dà volto e corpo a Kristine. L’attrice evita con intelligenza ogni forma di macchiettismo o semplificazione emotiva: la sua è una performance asciutta, calibrata, interiorizzata, che restituisce allo spettatore una donna spaccata tra la necessità di credere alla propria versione dei fatti e il sospetto di essere anch’ella stata, in parte, vittima delle stesse manipolazioni e traumi psichici del passato.
In conclusione
Good American Family emerge come un prodotto narrativamente interessante ma limitato nella sua capacità di indagare a fondo le sfumature più inquietanti della vicenda trattata. La decisione degli autori di mantenere una narrazione accessibile e levigata, senza mai affondare completamente nel cuore oscuro della storia, lascia la sensazione di un racconto incompiuto, incapace di provocare una vera e intensa riflessione emotiva e morale.
Note positive
- Tema intrigante
- Performance calibrata di Ellen Pompeo, che dona spessore al personaggio di Kristine.
- Approccio drammaturgico ben ritmato, che tiene vivo l’interesse dello spettatore.
Note negative
- Rinuncia ad esplorare l’oscurità autentica della vicenda, rendendo la serie più edulcorata che provocatoria.
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3.3
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