Becoming Human (2025). Lo spirito custode del vecchio cinema – Venezia 82

Recensione, trama e cast del film Chiet Chea Manusa - Becoming human (2025). Opera prima di Polen Ly tra spiritualità cambogiana, memoria e resistenza.

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Locandina di Chiet Chea Manusa (Becoming Human)
Locandina di Chiet Chea Manusa (Becoming Human)

Becoming Human

Titolo originale: Becoming Human

Anno: 2025

Nazione: Cambogia

Genere: drammatico

Casa di produzione: Anti-Archive

Distribuzione italiana:

Durata: 99 minuti

Regia: Polen Ly

Sceneggiatura: Polen Ly

Fotografia: Son Doan

Montaggio: Kavich Neang

Musiche: Jean-Charles Bastion, Pierre Édouard Dumora

Attori: Savorn Serak, Piseth Chhun, Sreybor Pin, Preab Pouch, Sovankiry Thon, Sinak Sem, Sovann Tho, Dy Rin, Sreynoch Khun, Rothnuka Rain

Trailer di “Becoming Human”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Chiet Chea Manusa, noto a livello internazionale come Becoming Human, è l’opera prima del cineasta cambogiano Polen Ly, già autore dei cortometraggi Further and Further Away (2022) e Until the Orchid Blooms (2024). Con questo piccolo film a basso budget dai toni drammatici – fantastici, Ly si cimenta in un racconto intimo e potente, capace di riflettere sulla condizione sociale della Cambogia contemporanea.

Il lungometraggio, scritto dallo stesso regista e interpretato da Savorn Serak e Piseth Chhun, è stato sviluppato nell’ambito del programma Biennale College – Cinema 2024/25, con il supporto di una borsa di studio della Biennale di Venezia del valore di 200.000 euro. Becoming Human è uno dei quattro progetti selezionati per questo finanziamento dedicato ai film a microbudget, insieme a Agnus Dei (Italia), 1 Woman, 1 Bra (Kenya/Nigeria) e Secret of a Mountain Serpent (India).

La prima del film si è tenuta il 29 agosto 2025 sulla piattaforma streaming MyMoviesOne, all’interno del canale Biennale Cinema Channel. La proiezione sul grande schermo è avvenuta il giorno seguente, il 30 agosto alle ore 9:00, presso la Sala Astra I di Venezia.

Trama di “Becoming Human”

Cambogia, 2025. In un vecchio cinema fatiscente, prossimo alla demolizione, vive Thilda, uno spirito custode che da cinquant’anni veglia su quel luogo e sulle anime che lo hanno attraversato. Legata all’edificio da un vincolo sacro, Thilda non può uscire: la sua esistenza è confinata tra le mura di un “tempio” ormai dimenticato, dove il tempo ha smesso di scorrere. Difatti, il cinema, abbandonato e in rovina, è stato condannato dal governo alla distruzione, insieme alle abitazioni adiacenti. Per Thilda, questo significa la fine del suo incarico e l’inizio di una nuova fase: la rinascita, secondo tradizione buddista, quella che aveva rifiutato mezzo secolo prima scegliendo di diventare spirito custode. Ma la rinascita, per lei, coincide anche con la dissoluzione della sua identità attuale.

Nei giorni che precedono la demolizione, mentre gli operai sigillano l’edificio per impedirne l’accesso, un giovane giornalista e fotografo, Hai, riesce a entrare per fotografare il luogo prossimo alla demolizione. Prima di iniziare a scattare, si ferma a pregare e a offrire doni allo spirito del cinema, seguendo una tradizione locale. Quando si accorge di essere rimasto intrappolato, con tutte le uscite sbarrate, Thilda gli appare e lo guida verso un passaggio segreto. Da quel momento nasce un legame profondo tra i due: Hai torna spesso al cinema, dialogando con Thilda, ascoltando le sue storie, condividendo il presente e il passato. In questo spazio sospeso, tra rovine e ricordi, si intrecciano due solitudini, due mondi, due forme di esistenza. E mentre il tempo si avvicina alla fine, entrambi scoprono cosa significa davvero diventare umani.

Recensione di “Becoming Human”

Secret of a Mountain Serpent è una pellicola d’autore che privilegia la messa in scena rispetto alla narrazione, sacrificando quest’ultima in favore di un meticoloso lavoro estetico. La cura del sonoro, la composizione visiva e l’uso evocativo dell’immagine concorrono a creare un’esperienza sensoriale immersiva, capace di trasmettere allo spettatore sensazioni di angoscia, inquietudine e sospensione. La narrazione, volutamente sfumata e complessa, si dissolve nella percezione, vivendo più nell’atmosfera che nel dialogo, risultando talvolta poco chiara e ampiamente interpretativa. Al contrario, Chiet Chea Manusa (Becoming Human) di Polen Ly adotta un approccio opposto: al centro dell’opera vi è una drammaturgia lineare e accessibile, che non rinuncia alla profondità emotiva e alla tridimensionalità dei personaggi. Ly costruisce il racconto attraverso dialoghi intensi, mai banali né didascalici, capaci di delineare con precisione le due figure centrali: Thilda, lo spirito custode del cinema, e Hai, il giovane giornalista orfano. Due anime erranti, due volti della stessa medaglia, accomunate dalla perdita di una casa, reale e simbolica.

Pur ponendo la narrazione al centro, Ly non sacrifica l’estetica: al contrario, la utilizza per amplificare il senso del racconto. La fotografia, raffinata e attenta, gioca con luci e ombre per trasformare il vecchio cinema in un vero e proprio personaggio, un’entità viva e morente, specchio della memoria e della decadenza culturale. Le inquadrature, mai ripetitive né convenzionali, esplorano ogni angolo dell’edificio, restituendone la sacralità e il peso storico, dando un respiro proprio a quel luogo fisico.

Il ritmo lento e il montaggio privo di musicalità, capace di usare i silenzi in modo congeniale, contribuiscono a conferire al luogo un’anima propria, rendendolo il fulcro emotivo e simbolico del film. Attraverso movimenti di macchina fissa, panoramiche silenziose e un uso intelligente della luce, Ly dimostra una notevole maturità registica, riuscendo a bilanciare la dimensione dialogica con quella più onirica e autoriale. Il risultato è un’opera equilibrata, coinvolgente e accessibile, che evita le derive autoreferenziali e mantiene saldo il filo conduttore narrativo. Contriamente a quanto avviene in Secret of a Mountain Serpent, pellicola facente parte sempre della Biennale College 2025.

Il sottotesto sociale e la metafora della casa perduta

Accanto a una scrittura solida e a una regia visivamente consapevole, Becoming Human trova la sua forza espressiva nel mondo che ci viene raccontato attraverso il pellegrinare di Thilda e Hai. Il dialogo, unito a scelte scenografiche azzeccate e funzionali, arricchisce il film di un sottotesto profondo, capace di rivelare non solo la psicologia dei personaggi, ma anche la condizione sociale della Cambogia contemporanea. Thilda e Hai diventano figure metaforiche: anime nomadi, appartenenti a due generazioni diverse ma accomunate dalla perdita di un luogo da chiamare casa. In una Cambogia che distrugge il passato culturale per favorire il nuovo e il profitto, i più umili vengono schiacciati, esclusi dal futuro. Il film racconta questa tensione senza didascalismi, attraverso lo sguardo malinconico di Thilda, che osserva un mondo in mutamento, dove ciò che esisteva cinquant’anni fa è stato cancellato da palazzi e villette per ricchi.

Emblematica è la scena finale, in cui Thilda, ormai spirito errante, ritrova l’albero in cui giocava da bambina: un simbolo profondo di appartenenza, di radici, di memoria. Privata del suo cinema, Thilda diventa un fantasma senza luogo, senza identità. Lo stesso vale per Hai, orfano cresciuto in una pagoda, costretto ad abbandonare la sua casa a causa dello scavo di un monte che minaccia di franare.

Ma non sono soli: il film mostra altri volti della marginalità, tutti appartenenti alla classe più povera. La donna e il giovane che vivono accanto al cinema, i monaci della pagoda, gli abitanti del villaggio sul lago: tutti costretti a lasciare le loro case, pieni di ricordi e di vita stessa (come l’albero nella casa attaccata al cinema) per far spazio a costruzioni destinate ai ricchi. Becoming Human diventa così un racconto corale, una denuncia silenziosa ma potente delle disparità sociali che attraversano la Cambogia, e una riflessione universale sul concetto di casa, di appartenenza, di memoria.

Spiritualità, memoria e denuncia sociale

Con Chiet Chea Manusa (Becoming Human), Polen Ly firma un’opera che, pur nella sua apparente semplicità narrativa, si rivela profondamente critica e stratificata. Il regista mette in scena una Cambogia contemporanea segnata da disuguaglianze, dove il progresso urbanistico e il potere economico schiacciano i più deboli e sacrificano i luoghi sacri in nome del profitto. L’abbandono della pagoda – cuore spirituale e sociale di ogni villaggio – diventa simbolo di un distacco doloroso dalle radici culturali del Paese. Difatti, in Cambogia, le pagode (wat) non sono solo templi buddhisti: sono centri di vita comunitaria, luoghi di meditazione, insegnamento, cerimonia e accoglienza. La loro architettura, ricca di simbolismi, custodisce la memoria collettiva. La loro distruzione è una ferita che parla di una Cambogia che dimentica, che cancella, che si allontana da sé stessa.

Contrariamente alla direzione intrapresa dalla Cambogia contemporanea, sempre più orientata alla cancellazione del passato in nome del progresso economico e urbanistico, Polen Ly sceglie consapevolmente di restare ancorato alle radici spirituali e culturali del suo Paese. Becoming Human è un film intriso di religiosità e spiritualità cambogiana, dove il confine tra visibile e invisibile non è rigido, ma permeabile, vivo, quotidiano. La presenza degli spiriti custodi — neak ta o lok ta — è centrale: essi abitano alberi secolari, crocevia, case, templi e persino edifici abbandonati. I loro altari votivi, spesso simili a piccole casette ornate di fiori, incenso e offerte, non sono semplici decorazioni, ma veri e propri punti di contatto tra il mondo umano e quello spirituale. Luoghi di dialogo, di coesistenza, di rispetto reciproco.

Ly non si limita a citare questa tradizione: la incarna nella figura di Thida, lo spirito guardiano del cinema, e la rende motore narrativo e simbolico dell’intera pellicola. In un contesto in cui la spiritualità rischia di essere spazzata via insieme ai luoghi che la custodiscono, il film diventa atto di resistenza, di memoria, di riconnessione. Un invito a non dimenticare che ogni spazio ha un’anima, e che il dialogo con ciò che non si vede può essere la chiave per comprendere ciò che si vive. In quest’ottica il gesto rituale di Hai, diventa un atto di riconnessione con il passato, con la memoria e con la spiritualità di un luogo minacciato dalla cancellazione. In quel gesto si racchiude l’essenza della credenza cambogiana: ogni spazio ha un’anima, ogni memoria merita ascolto, e il dialogo con gli spiriti non è fuga dalla realtà, ma immersione profonda in essa.

Becoming Human è dunque molto più di un racconto di fantasmi: è una riflessione poetica e politica sulla perdita, sull’identità, sulla possibilità di rinascere attraverso la memoria. Un film che ci invita a vedere ciò che non si vede, a riconoscere ciò che rischia di essere dimenticato, e a vivere il presente con la consapevolezza che anche l’invisibile ha voce, presenza e significato.

Thida e la memoria del genocidio cambogiano

Attraverso il personaggio di Thida, Becoming Human affronta con delicatezza e intensità una delle ferite più profonde della storia mondiale: il genocidio cambogiano perpetrato dal regime dei Khmer Rossi tra il 1975 e il 1979. Guidati da Pol Pot, i Khmer instaurarono la Kampuchea Democratica, una distopia agraria ispirata al comunismo radicale e alla Rivoluzione Culturale cinese. Per realizzare questa visione, il regime mise in atto una brutale epurazione sociale: città svuotate, moneta abolita, milioni di persone deportate nei campi di lavoro forzato. Ogni forma di modernità, istruzione, religione e cultura fu considerata nemica. Intellettuali, religiosi, artisti e persino chi portava gli occhiali veniva identificato come “nemico del popolo” e condannato alla morte. Il genocidio, fondato su una logica ideologica e non etnica, sterminò circa un quarto della popolazione cambogiana: tra 1,5 e 3 milioni di vittime. Le esecuzioni avvenivano nei Killing Fields, spesso con strumenti agricoli per risparmiare proiettili, e i corpi venivano sepolti in fosse comuni. Il centro di tortura di Tuol Sleng (S-21), su oltre 20.000 detenuti, vide sopravvivere solo sette adulti. Questo trauma ha segnato profondamente la memoria collettiva del Paese, influenzando l’identità nazionale, la spiritualità e l’arte.

In questo contesto, Thida non è solo uno spirito custode: è una metafora vivente della memoria che resiste all’oblio. Morta in un campo minato mentre fuggiva dalla Cambogia, in quegli anni, Thida incarna l’anima di chi ha perso tutto (la sua famiglia era stato sterminata) e continua a vegliare su ciò che è stato distrutto. Il cinema abbandonato, luogo della sua esistenza, diventa spazio simbolico di riconciliazione tra passato e presente, tra dolore e speranza.

In Cambogia, ricordare non è solo un atto storico: è un gesto spirituale, una necessità esistenziale. Becoming Human ci invita a riconoscere che ogni spazio ha un’anima, che ogni trauma merita ascolto, e che la coesistenza tra umano e spirituale può essere una via per la guarigione. Thida non fugge dalla realtà: la abita, la custodisce, la trasmette. E nel suo sguardo, il passato non muore, ma continua a parlare.

La paura di rinascere e il destino degli umili

Nel presente narrativo di Becoming Human, la figura di Thida incarna una paura profonda: quella di rinascere, di tornare a vivere e di dover affrontare nuovamente il dolore. La sua domanda — “Perché dovrei rinascere e rivivere una vita di sofferenza?” — risuona come un grido silenzioso contro un mondo che non garantisce equità. Il film lo dichiara con forza: nascere poveri significa affrontare difficoltà costanti, mentre la ricchezza spalanca le porte a una vita più semplice, più protetta. Per Thida, la rinascita non è una promessa, ma una minaccia. Meglio forse restare spirito errante, senza dimora né scopo, che rischiare di soffrire ancora. La sua esitazione non è solo spirituale, ma profondamente politica: in un Paese come la Cambogia, dove il trauma del genocidio ha lasciato ferite ancora aperte e dove lo sviluppo moderno spesso coincide con ingiustizie sociali, la prospettiva di rinascere in un corpo vulnerabile, in una società che non protegge i suoi più fragili, diventa una condanna. Thida è il riflesso di un’anima che ha visto troppo, che ha assorbito il dolore collettivo e che ora teme di doverlo rivivere senza garanzie di redenzione.

Accanto a lei, Hai racconta le fatiche del vivere, le prove che un giovane uomo non abbietto deve affrontare per sopravvivere. La sua esistenza è segnata da tristezza e infelicità, e il suo racconto diventa specchio di una generazione che lotta per trovare un posto nel mondo. Hai è un personaggio che porta sulle spalle il peso di una società in transizione, dove il passato non è mai del tutto passato e il futuro appare incerto. Il suo dialogo con Thida non è solo uno scambio tra vivo e spirito, ma tra due forme di resistenza: quella che si manifesta nel rifiuto della rinascita e quella che si consuma nel tentativo di vivere nonostante tutto.

Tuttavia, se il personaggio di Thida è trattato con grande coerenza e profondità, quello di Hai presenta alcune problematiche di scrittura, non tanto sul piano emotivo — dove resta credibile e tridimensionale — quanto su quello concreto. All’inizio del film lo vediamo come un giovane in forze, con un lavoro e una macchina fotografica in mano. Alla fine, appare trasformato: un uomo dimesso, quasi un senzatetto. Ma cosa gli è accaduto? Dove è finita la macchina fotografica? Perché questo cambiamento così radicale non viene esplicitato? Il film suggerisce una discesa, una perdita, forse una crisi interiore, ma non la articola con chiarezza. È come se Hai fosse stato risucchiato da un vuoto narrativo, lasciando lo spettatore a colmare le lacune con supposizioni. Questo scarto tra l’inizio e la fine del suo arco narrativo può essere letto come una metafora della fragilità giovanile in un contesto post-traumatico, dove anche chi sembra avere strumenti — un lavoro, una vocazione, una macchina fotografica — può perdere tutto senza che il mondo se ne accorga. Ma l’assenza di una spiegazione concreta rischia di indebolire la sua funzione drammatica. Il film, così attento alla costruzione di Thida, sembra lasciare Hai in una zona d’ombra, dove il suo arco narrativo si interrompe o si dissolve senza una vera spiegazione. Eppure, proprio questa dissolvenza potrebbe essere il segno di una condizione più ampia: quella di una generazione che non ha voce, che non trova spazio, che si consuma nel silenzio.

Scrivere Becoming Human è stato come intraprendere un viaggio meditativo. Mi ha permesso di riflettere su cosa significhi essere umani in un paesaggio segnato da traumi e trasformazioni, dal passato fino ai giorni nostri. Ho immaginato un universo fantastico per esplorare la realtà che mi circonda. La generazione dei miei genitori ha vissuto un genocidio che ha inghiottito completamente la vita, la libertà e i sogni di molte persone. La mia generazione oggi si dice viva in pace, ma nel mio percorso cinematografico ho assistito alla perdita di case, sogni, voci e paesaggi naturali, causata da forme ingiuste di sviluppo e cambiamento. La continua ripetizione di distruzione e ricostruzione è diventata un ciclo vizioso. Mi sento come intrappolato in una bolla, dove le persone restano perseguitate dai traumi del passato e del presente, con una paura persistente che ha messo a tacere le nostre voci e lasciato le nostre ferite aperte. Tuttavia, come regista contemporaneo, voglio usare la mia voce non solo per concentrarmi sul trauma passato o sulla nostalgia, ma per chiedere e sottolineare cosa significhi essere umani, portando sempre dentro di sé il passato, il presente e il futuro. In Becoming Human, sviluppo l’interconnessione tra i protagonisti di due generazioni diverse. Condividono una fragilità simile e imparano l’uno dall’altro. Ogni personaggio si trova di fronte alla scelta di avanzare verso la prossima fase della vita. La speranza e la cura che condividono danno loro la forza per andare avanti. In questo paesaggio traumatico, dove gli echi del passato si ripetono incessantemente, trovare la capacità di prosperare insieme, con compassione, è probabilmente ciò che significa essere umani.

Dichiarazione del regista

In conclusione

Chiet Chea Manusa (Becoming Human) è un’opera prima sorprendente, che riesce a coniugare drammaturgia lineare e profondità spirituale, costruendo un racconto che parla di memoria, di casa, di perdita e di rinascita. Polen Ly firma un film che non si limita a raccontare una storia, ma la scolpisce nel paesaggio cambogiano, nella spiritualità del luogo, nella lotta quotidiana di chi non ha voce. Attraverso Thilda e Hai, il regista ci invita a riflettere su cosa significhi appartenere, su cosa resta quando tutto viene demolito, e su come anche gli spiriti erranti possano trovare un senso. Un film che commuove, denuncia e resiste, pur con qualche sbavatura narrativa, ma con una forza poetica che lo rende indimenticabile.

Note positive

  • Regia equilibrata tra estetica e narrazione
  • Dialoghi intensi e mai didascalici
  • Sottotesto politico e sociale ben integrato

Note negative

  • Scrittura del personaggio di Hai incoerente nel finale
  • Le interpretazioni non sempre sono efficaci

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.7
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.