Ben – Rabbia Animale (2025). Quando il domestico diventa predatorio

Recensione, trama e cast del film Ben – Rabbia animale (2025). Un horror domestico tra virus, fiducia e tensione crescente.

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Johnny Sequoyah as “Lucy" in Primate from Paramount Pictures - Photo Credit: Gareth Gatrell;
Johnny Sequoyah as “Lucy” in Primate from Paramount Pictures – Photo Credit: Gareth Gatrell;

Trailer di “Ben – Rabbia Animale”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Presentato in anteprima mondiale il 18 settembre 2025 al Fantastic Fest, e successivamente distribuito al Beyond Fest, al Rio de Janeiro International Film Festival e al Denver Film Festival, fino alla prima italiana tenutasi il 31 ottobre 2025 alle ore 18 al Cinema Centrale, durante la manifestazione del Lucca Comics & Games 2025, Ben – Rabbia animale, noto con il titolo internazionale di Primate, è un lungometraggio horror diretto da Johannes Roberts, già noto per aver firmato The Other Side of the Door (2016), Resident Evil: Welcome to Raccoon City (2021) e, soprattutto, la saga cinematografica 47 metri, incentrata sulla lotta per la sopravvivenza contro un terribile squalo assassino. Tale saga ha avuto inizio nel 2017 con il primo capitolo, seguito nel 2019 da 47 metri – Uncaged, e proseguirà con un terzo film già confermato, intitolato 47 Meters Down: The Wreck. In Ben – Rabbia animale, il cineasta — che firma la sceneggiatura insieme al suo storico collaboratore Ernest Riera — abbandona le profondità marine per esplorare un nuovo predatore: uno scimpanzé, questa volta pronto a diventare carnefice.

Il film uscirà nelle sale statunitensi l’8 gennaio 2026, mentre in Italia sarà distribuito a partire dal 29 gennaio 2026 da Eagle Pictures.

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Trama di “Ben – Rabbia Animale”

Lucy, dopo la morte della madre, ha scelto di allontanarsi dalla propria famiglia — dalla sorella minore Erin e dal padre Adam — per prendersi del tempo per sé stessa. Una decisione dolorosa, che ha profondamente ferito sia il padre sia Erin, la quale ha dovuto affrontare non solo il lutto per la perdita della madre, ma anche la solitudine causata dall’assenza della sorella maggiore.

Con l’arrivo dell’estate, Lucy decide di far ritorno a casa, alle Hawaii. Prende un volo per ricongiungersi con la famiglia, accompagnata dalla sua storica amica Kate (Victoria Wyant) e dall’amica di quest’ultima, Hannah (Jessica Alexander). Una volta giunte all’aeroporto delle Hawaii, le tre ragazze vengono accolte da Nick, fratello maggiore di Kate, di cui Lucy è segretamente innamorata. I quattro decidono di organizzare una festa in piscina nella casa di Lucy, approfittando dell’assenza di Adam, impegnato per qualche giorno in un importante firmacopie legato al lancio del suo nuovo libro. Il ritorno di Lucy è anche l’occasione per riabbracciare la sorella e il padre, e per rivedere Ben, il loro animale domestico: uno scimpanzé intelligente, addestrato dalla madre, che era una scienziata di fama. Ma nessuno sa che Ben è stato morso da un animale infetto da rabbia. Così, mentre Adam è lontano e il gruppo di ragazzi si gode la spensieratezza della festa, lo scimpanzé si trasforma in una creatura feroce, assetata di sangue. Ora, i giovani dovranno lottare per sopravvivere, intrappolati in una casa che da rifugio si è fatta teatro di un incubo tropicale.

Recensione di “Ben – Rabbia Animale”

Senza ombra di dubbio, niente di nuovo sotto il sole. Ben – Rabbia animale, infatti, non si dimostra un film innovativo né sul piano narrativo né nello sviluppo drammaturgico degli eventi. La pellicola riprende gli elementi canonici dell’“horror animale”, strettamente connessi al sottogenere del survival horror, raccontando una delle più classiche storie del cinema dell’orrore: un gruppo di giovani spensierati si ritrova improvvisamente costretto a combattere, con astuzia e forza fisica, contro un predatore proveniente dal mondo naturale. Le sequenze di lotta, morte e sangue si susseguono in un crescendo di tensione, dove lo spettatore assiste a scontri primordiali per la sopravvivenza, in un confronto diretto con una minaccia che affonda le radici nella natura stessa. L’unica evidente divergenza rispetto a pellicole come Lo Squalo di Steven Spielberg o alla stessa saga di Johannes Roberts, ovvero 47 metri, dove il killer era un branco di squali bianchi — predatori noti e temuti — è che in Ben – Rabbia animale il nemico non è un animale selvatico, bensì un animale domestico: uno scimpanzé che vive all’interno dell’abitazione e con cui tutti i membri della famiglia hanno un rapporto affettuoso e consolidato.

In questo senso, il disturbo non nasce dall’indole predatoria dell’animale, ma da un agente esterno: un virus, la rabbia, che penetra nel corpo dello scimpanzé alterandone radicalmente il comportamento e le funzioni cognitive. Il buon Ben, addestrato e amato, si trasforma così in un mostro assetato di sangue, spinto da impulsi incontrollabili. Il vero antagonista della pellicola, dunque, non è l’animale in sé, ma il virus che ne ha corrotto la mente: è la rabbia a distruggere la sua psicologia, rendendolo un predatore folle, interessato a uccidere non per fame o difesa, ma per un impulso cieco e incontrollabile.

L’idea di un animale domestico che si trasforma in “mostro” non è certo nuova nel panorama della settima arte. Ben – Rabbia animale condivide infatti molte affinità con diversi lungometraggi di genere, come Monkey Shines – Esperimento nel terrore (1988), Link (1986) e Cujo (1983), con i quali condivide una struttura narrativa fondata sulla metamorfosi improvvisa di un animale domestico — o comunque familiare — in una presenza ostile e pericolosa. In queste storie, la tensione non nasce da forze soprannaturali o da creature abitualmente predatorie, ma da esseri reali, inizialmente percepiti come parte integrante della quotidianità umana. Questo slittamento — da compagno fidato a predatore — alimenta un senso di inquietudine profonda, poiché mina la fiducia nei confronti di ciò che è vicino, controllabile, apparentemente innocuo. Si delinea così un sottogenere dell’horror che potremmo definire “della prossimità animale”, in cui l’orrore si annida nella rottura di un equilibrio affettivo o funzionale tra uomo e animale. La minaccia non proviene da un altrove esotico o ignoto, ma si sviluppa all’interno dello spazio domestico o relazionale, rendendo l’esperienza del terrore ancora più disturbante e, soprattutto, plausibile.

In Ben – Rabbia animale, lo scimpanzé protagonista incarna una rabbia repressa che esplode in un contesto domestico, dove le emozioni positive — la bontà che prova verso i suoi padroni — si trasformano gradualmente in ostilità. Dove prima, attraverso il suo strumento di comunicazione, esprimeva affetto con un “vi voglio bene”, ora pronuncia un agghiacciante “muori”. Questo ribaltamento emotivo, che sovverte il legame affettivo, è il cuore disturbante del film. Un meccanismo simile è centrale in Monkey Shines – Esperimento nel terrore, dove una scimmia addestrata per assistere un uomo paralizzato sviluppa un legame morboso e distruttivo, diventando il riflesso delle tensioni psicologiche del suo padrone. In Link, la dinamica prende una piega più thriller: lo scimpanzé domestico, inizialmente docile, rivela una natura predatoria che si manifesta in modo freddo e calcolato. Come in Ben, la violenza non è cieca, ma quasi razionale, disturbante proprio perché emerge da un essere che dovrebbe essere controllabile. Cujo e The Pack (1977), invece, spostano la minaccia in ambienti più aperti, fuoriuscendo dall’unica ambientazione domestica, ma conservano la stessa tensione: animali che, per effetto di malattie — come la rabbia in Cujo — o per abbandono — come in The Pack — si rivoltano contro l’uomo. In Cujo, il cane, simbolo di fedeltà, si trasforma in un incubo per una madre e suo figlio, intrappolati in un’auto sotto il sole cocente. In The Pack, che possiede una maggiore connotazione tematica rispetto a Ben – Rabbia animale, il branco di cani abbandonati rappresenta una natura che si ribella all’indifferenza umana, trasformando un’isola turistica in un territorio ostile.

Tutti questi film condividono alcuni elementi di tensione: la casa o il luogo sicuro si trasforma in trappola; il legame affettivo diventa minaccia. L’orrore nasce dalla rottura dell’ordine domestico e relazionale, e dalla consapevolezza che ciò che è vicino — ciò che amiamo o crediamo di controllare — può diventare il nostro peggior nemico. Per trasmettere allo spettatore un senso costante di minaccia e tensione, il cineasta gioca abilmente con la macchina da presa, ricercando angolazioni sempre nuove e divergenti per raccontare gli stessi spazi in cui si svolge la vicenda — la casa e la piscina — evitando così di ricorrere a punti di vista ripetitivi che avrebbero potuto appiattire la narrazione visiva. Efficace risulta anche il gioco con lo spettatore, fondato sul principio del setup and payoff, ovvero del “semina e raccolto”: ci vengono mostrati elementi apparentemente marginali che acquisiscono importanza in seguito, come il frammento di vetro sul pavimento, inizialmente inquadrato e poi, circa dieci minuti dopo, causa di una ferita al piede della protagonista. Questo tipo di costruzione visiva contribuisce a mantenere alta l’attenzione e a creare un senso di progressione narrativa.

Nonostante Ben – Rabbia animale presenti una confezione visiva curata e un ritmo narrativo efficace, la sua principale debolezza risiede nella scrittura dei personaggi, in particolare quelli principali. Il regista e sceneggiatore sembra aver privilegiato la tensione e la progressione degli eventi, trascurando però un elemento essenziale per la riuscita di qualsiasi racconto cinematografico: la costruzione psicologica e relazionale dei protagonisti. I personaggi secondari, come gli amici di Lucy, appaiono privi di spessore e funzionali solo alla dinamica degli eventi, senza alcun approfondimento che ne giustifichi le azioni o ne arricchisca la presenza scenica. Lucy, che inizialmente sembra promettere una dimensione più complessa — grazie a qualche accenno alla sua interiorità e al rapporto con la famiglia — viene progressivamente svuotata di significato. La narrazione, infatti, si concentra quasi esclusivamente sulla sequenza degli omicidi, lasciando in secondo piano le potenzialità tematiche legate al suo vissuto, al rapporto con la sorella e con il padre.

Questi legami familiari, che avrebbero potuto offrire una chiave di lettura più profonda e universale, vengono appena abbozzati e poi abbandonati, rendendo il messaggio del film frammentario e poco incisivo. Il risultato è un’opera che si rifugia nel genere horror senza tentare di superarne i confini, rinunciando a quella stratificazione narrativa che avrebbe potuto renderla più memorabile. Ben si configura così come un prodotto pensato per gli appassionati del genere, ma privo di un’anima drammaturgica capace di coinvolgere lo spettatore al di là della tensione superficiale.

In conclusione

Ben – Rabbia animale si inserisce nel filone dell’horror di prossimità, dove la minaccia non è esterna o esotica, ma domestica e affettiva. Il film, pur non innovando sul piano narrativo, riesce a costruire una tensione efficace attraverso una regia attenta agli spazi e una gestione visiva coerente con il tono disturbante della storia. La trasformazione dello scimpanzé Ben da compagno fidato a predatore incontrollabile rappresenta il cuore emotivo e simbolico della pellicola, che riflette sul fragile equilibrio tra fiducia e paura, tra amore e violenza. Il virus diventa metafora di una rottura psicologica e relazionale, e il film, pur con i suoi limiti, riesce a trasmettere un senso di inquietudine profonda, radicata nella quotidianità.

Note positive

  • Regia visiva efficace e dinamica
  • Buona gestione del setup and payoff narrativo

Note negative

  • Narrazione poco originale e prevedibile
  • Sviluppo drammaturgico convenzionale
  • Personaggi secondari poco approfonditi
  • Mancanza di un tema convincente

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.2
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.