Intervista con la regista Lili Horvat su Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo

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Lili Horvat (1982) cresce a Budapest. Ha studiato arti audiovisive all’Università La Sorbonne Nouvelle di Parigi e regia all’Accademia di Cinema e Teatro di Budapest. La sua opera prima The Wednesday’s Child ha vinto nella sezione East of the West del festival Karlovy Vary nel 2015 ed è stata premiata in molti festival. Nel 2016 Lili ha co-fondato la casa di produzione Poste Restante con cui ha prodotto il suo secondo film, “Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo”.

Da dove nasce l’idea del film?

Una donna, travolta dall’amore, si trasferisce lontano per iniziare una nuova vita. Al suo arrivo, l’uomo reagisce inaspettatamente, “Non ti conosco. Questa è la prima volta nella mia vita che ti vedo”. È un momento da brividi: non sappiamo se a dire la verità sia lui o lei. Quando ho pensato a questa scena, non sapevo ancora chi fossero i miei personaggi, ma da qui è iniziata a costruirsi l’idea del film. Ho custodito con me questo germoglio di scena a lungo temo, quando un giorno, improvvisamente – ero su un bus a Berlino – l’idea ha iniziato a costruirsi. Due medici sulla quarantina, la donna viene da un altro continente e ha sacrificato tutto per l’uomo che ama. Da lì ho capito: nel mio film volevo raccontare il ruolo decisivo che ha la nostra immaginazione quando ci innamoriamo di qualcuno. Anche proseguendo nella preparazione del film, quella prima scena è sempre rimasta il cuore di tutto. E anche con i due attori principali, era su quella scena che continuavo a concentrarmi. Dovevano riuscire a fare qualcosa di estremamente complesso ma che risultasse sincero e onesto, non solo quando lo spettatore guarda quella scena, ma fino alla fine del film. Durante la fase di montaggio ho capito che il vero inizio del film rimane quella scena del primo incontro. È lì che volevo catturare l’attenzione dello spettatore, e perciò doveva essere uno dei primi momenti del film; per questo abbiamo deciso di non iniziare il film in modo classico, con le belle scene d’amore abituali che vediamo nei film d’amore.

Come hai costruito il personaggio di Marta?

Marta ha una determinazione quasi cieca – anche nei momenti di più forte dubbio, rimane in lei la forza della sua intuizione originaria. Anche quando sembra sull’orlo della follia, volevo che lo spettatore capisse quella sensazione: quella che si prova quando si aspetta invano un appuntamento, o quando si proietta qualcosa di grande nella propria storia d’amore. Marta è forte e intrepida e allo stesso tempo fragile e vulnerabile. È una outsider per varie ragioni: lo era nel paese che si è lasciata alle spalle, lo è per le decisioni apparentemente incomprensibili che prende, lo è anche professionalmente, visto l’eccezionale talento che ha in campo medico, che la differenzia da tutti gli altri. Marta vive una vita solitaria, ma in qualche modo ci si è adattata e le piace questa esistenza. Conosce delle persone (ha qualche amico e qualche incontro amoroso) ma fondamentalmente non lascia nessuno avvicinarsi davvero a lei. La solitudine non è un peso, ma il risultato di una vita interiore piena e profonda.

Un giorno, durante una conferenza medica in New Jersey, l’incontro inaspettato con un medico ungherese, accende in lei qualcosa di nuovo e potente. Per la prima volta nella sua vita, sente che esiste al mondo una persona che potrebbe far entrare nella sua sfera più intima, nella sua dimensione più segreta. Da questo momento quasi rivelatorio, tutto il resto (la sua carriera, la sua vita negli Stati Uniti) perde improvvisamente di importanza. Così, senza logica e senza seguire la razionalità, lascia tutto e parte per raggiungere quest’uomo, l’unica cosa che conta. Nello sviluppo di questo personaggio così complesso e affascinante, mi sono ispirata a personaggi di donne guidate da grandi ossessioni: la protagonista del dramma Käthchen di Heinrich von Kleist, Madeleine di La donna che visse due volte di Hitchcock, Adèle H. di Truffaut, le protagoniste femminili dei film di Kieslowski.

Natasa Stork in Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo
Natasa Stork in Preparativi per stare insieme per un periodo indefinito di tempo

Perché il film è ambientato in un contesto medico?

Per antonomasia, l’ambiente medico e ospedaliero è in contrasto con la follia. Vediamo una donna che ha perso la testa e poi scopriamo che si tratta di una neurochirurga di fama mondiale in un ospedale statunitense. Quando durante la fase di scrittura ho iniziato a indagare sull’ambiente medico, mi sono aperte davanti varie possibilità narrative: il camice e la mascherina come elementi di camuffamento e di svelamento sotto i quali far apparire un elemento di identità del personaggio o l’atto quasi rituale di togliere e mettere il camice, erano in linea con le grandi domande del film: chi sono io? Chi è l’altro? La prima scena “d’amore” tra i due personaggi avviene durante un’operazione chirurgica difficile, durante la quale i due operano in grande sintonia: mi piaceva il romanticismo della scena, discreto e quasi sotto-tono. Mentre ero in fase di scrittura, ho deciso che Marta sarebbe stata una neurochirurga. In questa specializzazione convivono un aspetto di grande concretezza (la carne, le ossa, il sangue) ma anche un elemento misterioso e affascinante, quasi poetico, dato dal fatto che il chirurgo tiene tra le sue mani i pensieri e i sentimenti di una persona. E la dimensione del “pensare” e del “sentire” è così enigmatica che risuonava bene con il tema del film. Come il personaggio di Janos Drexler dice in una scena “Il Big Bang e l’universo sono cose che accettiamo come parte del vasto mistero che ci circonda. In realtà siamo tutti parte di questo inestricabile mistero, dalla prospettiva del microcosmo della nostra coscienza”.

Come avete concepito la parte visiva del film?

Io e il direttore della fotografia, Robert Maly, lavoriamo insieme fin dall’inizio dell’università. Di solito quando siamo in fase di scrittura, iniziamo a visualizzare insieme le referenze visive del film. In Preparations l’elemento chiave è quello della fragilità, dell’insicurezza, della precarietà della realtà, del mistero dell’identità. Nelle nostre ricerche, abbiamo scoperto il lavoro di Saul Leiter, un fotografo americano. Il mistero profondo celato nelle sue fotografie è diventato il nostro punto di riferimento visivo e abbiamo capito che per rendere nel film quella dimensione dovevamo girare in pellicola. Da un punto di vista puramente tecnico, la pellicola è un materiale grezzo, imperfetto, con un aspetto quasi sgranato e una gamma di colori più limitata rispetto al digitale, ha meno proprietà e possibilità. Proprio per questa imperfezione estetica della materia, i film in pellicola hanno bisogno per essere colti che lo spettatore si metta in gioco personalmente, attivando i suoi ricordi, le sue sensazioni e i suoi pensieri. Coinvolgendo l’immaginazione dello spettatore, volevamo coinvolgerlo al cuore del film: il confine sottile tra realtà e immaginazione. Per questo motivo la scelta della pellicola non è un vezzo estetico, ma un gesto che associa l’immaginazione dello spettatore all’immaginazione di Marta, per poter sviluppare le domande che stanno al cuore del film. “Con le immagini, volevamo catturare l’inesplicabile: l’intuizione profonda e misteriosa dietro le nostre irrazionali scelte d’amore”

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