Marko Polo (2024). L’autoanalisi di Elisa Fuksas, tra fede e fallimento 

Recensione, trama e cast del film Marko Polo (2024), il viaggio sperimentale di Elisa Fuksas tra fede, fallimento e identità.

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Marko Polo (2024) – Regia di Elisa Fuksas – © Fandango – Immagine concessa per uso editoriale.
Marko Polo (2024) – Regia di Elisa Fuksas – © Fandango – Immagine concessa per uso editoriale.

Trailer di “Marko Polo”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Elisa Fuksas è una voce poliedrica del panorama culturale italiano, divisa tra cinema e letteratura. Regista e scrittrice, debutta sul grande schermo nel 2013 con il film “Nina”, interpretato da Diane Fleri e Luca Marinelli, presentato al Tokyo International Film Festival. Sei anni dopo dirige “The App”, prodotto da Netflix, confermando il suo interesse per linguaggi visivi contemporanei e ibridi. Nel 2020 firma il documentario autobiografico “iSola”, presentato alle Giornate degli Autori durante la Mostra del Cinema di Venezia. Torna nello stesso spazio l’anno successivo con “Senza Fine”, un ritratto intimo e poetico di Ornella Vanoni, di cui cura sia la regia sia la struttura narrativa.

Parallelamente alla carriera cinematografica, Fuksas si distingue anche nel mondo editoriale. Il suo esordio come romanziera avviene nel 2014 con “La figlia di” (Rizzoli), a cui fanno seguito “Michele Anna e la termodinamica” (Elliot, 2017), “Ama e fai quello che vuoi” (Marsilio, 2020) e “Non fiori ma opere di bene” (Marsilio, 2022).

Nel 2024 realizza la pellicola “Marko Polo”, una rivisitazione cinematografica, atipica e poco fedele, del suo romanzo “Ama e fai quello che vuoi”. Il film, presentato in anteprima internazionale il 17 ottobre 2025 alle ore 18:00 all’interno della Festa del Cinema di Roma, con una proiezione al cinema Giulio Cesare, vede nel ruolo di sceneggiatori Elisa Fuksas ed Elisa Casseri, che firmano anche il soggetto. Tra gli interpreti troviamo: Iaia Forte, Flavio Furno, Letizia Cesarini, alias Maria Antonietta, Lavinia Fuksas, Elisa Casseri, oltre alla stessa regista, che interpreta sé stessa all’interno del lungometraggio. Il film, che vede inoltre la partecipazione di Barbara Alberti, arriva nei cinema italiani come evento speciale dal 26 al 28 maggio 2025 grazie a Fandango.

Trama di “Marko Polo”

Elisa Fuksas, regista e protagonista, si trova ad affrontare un momento cruciale della propria vita quando il progetto cinematografico a cui ha dedicato anni di lavoro si arena improvvisamente. Questo fallimento non è solo professionale: apre una frattura profonda che coinvolge la sua identità, la sua fiducia nel mondo, nelle persone e persino in Dio. “Quando ti succede di fallire, ti ritrovi a chiederti in che modo successo e fallimento possano essere la stessa cosa”, riflette la sua voce fuori campo. Ma quel pensiero viene interrotto bruscamente da un’apparizione inaspettata: la Madonna, spazientita, le risponde con fermezza, “sei pesante e piena di dubbi è questo il problema. Non puoi combattere per qualcosa in cui non credi più”. È una voce che scuote, che desacralizza la crisi interiore, trasformandola in impulso d’azione. Forse frutto della sua immaginazione, forse rivelazione mistica, quella figura – sacra e profana al tempo stesso – la sprona a intraprendere qualcosa di diverso: un pellegrinaggio. 

Sostenuta da Indiana Production, che ha accompagnato il progetto nelle sue molteplici evoluzioni, Elisa sceglie di seguire quell’istinto e si imbarca in un viaggio che fin dall’inizio ha il sapore dell’imperfezione. Doveva salire sulla nave Marko Polo, e invece è un’altra imbarcazione ad accoglierla. Con lei ci sono la sorella Lavinia Fuksas, la sceneggiatrice Elisa Casseri e l’attore Flavio Furno, protagonista del film naufragato. Destinazione: Međugorje, luogo misterioso e poco conosciuto, suggerito proprio dalla Madonna. Ma il senso del viaggio non è nella meta. Il pellegrinaggio autentico si compie nel percorso stesso, tra tentennamenti, piccole rivelazioni e domande senza risposta. Ognuno dei compagni di viaggio porta con sé un’inquietudine da affrontare, un fallimento da rielaborare, un bisogno di riscoprire senso. E sarà proprio in mezzo a quelle incertezze che, forse, troveranno qualcosa che non stavano cercando.

Recensione di “Marko Polo”

Una pellicola decisamente atipica per il cinema italiano mainstream, “Marko Polo” rinnega in modo evidente qualsiasi classificazione di genere, sfuggendo a ogni etichetta e incasellamento. Il film si configura come un lungometraggio dal forte carattere sperimentale, con un linguaggio che si avvicina maggiormente al mondo della videoarte, sia per il tipo di montaggio che per l’uso del sonoro, oltre che per l’assenza di una linearità drammaturgica tradizionale. Tuttavia, definire “Marko Polo” una semplice opera di videoarte sarebbe riduttivo. Elisa Fuksas, all’interno della pellicola, gioca con gli elementi del cinema, destrutturando le sue regole con grande attenzione, mischiando generi e linguaggi, fondendo realtà e finzione, documentario e fiction, componendo così una drammaturgia che si muove su un equilibrio instabile e volutamente ambiguo.

Per immergersi nel viaggio raccontato da “Marko Polo”, dall’Italia a Međugorje, lo spettatore deve abbandonare qualsiasi logica di realtà e rinunciare a una comprensione lineare dell’opera, lasciandosi trasportare in un’esperienza profondamente onirica e surreale. La narrazione si arricchisce di stravaganze visive e sequenze allucinatorie, dove passato, presente, realtà e finzione si intrecciano, generando una struttura complessa che affronta tematiche profonde e difficili: il fallimento personale, la ricerca di fede, e il bisogno di un Dio a cui affidarsi per sfuggire all’oscurità della vita e alla paura paralizzante della morte.

“Credere in qualcosa è cercare di stare, rimanere, provare anche quando tutto sembra dirti di lasciare perdere. Ma perché crediamo… in una scelta, in una fede politica, nel nostro lavoro, in Dio? È un mistero. E il mistero prende il volto delle cose che possono parlarci anche se non sempre dicono quello che vorremmo sentire. Per anni ho cercato di raccontare come si diventa cristiani, poi come si resta cristiani. Volevo che fosse una commedia, un dramma, un dramma comico. Volevo fare un film sulla fede, sulla mia.”

Cit. Marko Polo

Se volessimo attribuire un’etichetta a questa pellicola, per individuare un termine che riassuma, almeno in parte, le intenzioni della cineasta, la parola chiave sarebbe senza dubbio autoanalisi. Con “Marko Polo”, Elisa Fuksas compie un’indagine profonda su sé stessa—ma non solo. Il film esplora anche le difficoltà di essere attori e sceneggiatori, mettendo in scena una riflessione cruda e sincera sulla realtà cinematografica e sulla sua condizione, tra finzione e realtà. La regista si espone senza filtri davanti alla macchina da presa, mostrando un animo carico di dubbi e contraddizioni e raccontando, in una forma metacinematografica decisamente non convenzionale, i suoi insuccessi, il fallimento personale—sia nella sfera privata che in quella lavorativa—e il suo rapporto con la religione. Attraverso il film, Fuksas esplora il suo percorso di fede e la sua rinascita spirituale, avvenuta a trentasette anni, quando ha deciso di battezzarsi e diventare credente.

Uno degli elementi più rilevanti di “Marko Polo”, ambientato prevalentemente all’interno di un traghetto, è la sua drammaturgia incentrata sulla fede, un tema che, nel cinema italiano contemporaneo, appare ancora come un tabù. Spesso il cinema evita di affrontare la questione spirituale in modo autentico, ma “Marko Polo” tenta di offrire una riflessione su cosa significhi essere credenti nella società odierna, raccontando—attraverso l’esperienza della cineasta—i dubbi stessi di chi crede, tra paure e certezze. Affascinante e singolare è la rappresentazione visiva della Madonna, che assume il ruolo di voce narrante, così come le scene incentrate sulla figura del prete nella barca e sulla confessione, una sequenza che spoglia completamente la protagonista/regista, mettendola a nudo davanti agli occhi del pubblico.

Come si rappresenta l’irrappresentabile? La fede, il Mistero, Dio, ma vale anche per l’amore, la radicalità di certe idee, una convinzione politica. E che tono dare a una storia in cui al posto della trama si mette un periodo della vita? Marko Polo è una riflessione sul successo e sul fallimento, e ha a che fare con Dio ma soprattutto con la vita, e il suo racconto. È stata un’impresa imprevedibile, a tratti spontanea, a tratti chirurgica, scritta e non scritta. È un film che si è costruito nel tempo, per accumulo di questioni e vita, che nasce dalla realtà e però se ne libera chiedendo alla sua rappresentazione di dare dignità ed “eternità” a un momento che verrebbe altrimenti dimenticato, anzi rimosso: quello, appunto, del fallimento. Che poi fallire non è il contrario di succedere, mentre fallimento e successo li usiamo sempre come contrari…

Dichiarazioni della regista

In “Marko Polo”, realtà e finzione si intrecciano in modo fluido e stratificato, dando vita a un racconto che gioca consapevolmente con i linguaggi e i registri del cinema. Il film attraversa e mescola generi—dalla finzione al documentario, dal dramma alla commedia e di nuovo al dramma e al metacinema—per raccontare e rispecchiare la natura instabile e mutevole della fede. Non si tratta di una fede dogmatica, ma di una tensione interiore che si trasforma a contatto con le esperienze della vita, del sé e dell’altro. Il viaggio spirituale della protagonista—della cineasta stessa—prende forma attraverso un mosaico di incontri e apparizioni che sfidano la distinzione tra reale e immaginario.

I genitori, qui rappresentati come figure archetipiche, incarnano una memoria affettiva e identitaria. A essi si affiancano presenze sospese tra sogno e simbolo: Barbara Alberti interpreta una nonna defunta, amatissima e lontana da ogni stereotipo, capace di guidare e disorientare allo stesso tempo. Maria Antonietta, invece, esprime la propria spiritualità attraverso la musica, dimostrando che la fede può trovare voce anche nell’arte e nella sensibilità contemporanea. A questo universo si aggiunge Vincenzo Nemolato, nei panni di un giovane prete che rompe gli schemi, figura viva e autentica di un sacerdozio libero e distante dagli stereotipi ecclesiastici. Accanto a lui, amici e uomini di Chiesa prestano la propria testimonianza reale, partecipando al film non come attori, ma come persone che riflettono, dubitano e si mettono in discussione.

I personaggi che popolano “Marko Polo” non sono semplici figure di supporto né mere presenze narrative: sono voci critiche, contrappunti, coscienze esterne che fungono da grilli parlanti, ampliando la narrazione e tratteggiando le varie sfumature drammaturgiche legate alla fede. Non si limitano a essere testimoni passivi, ma offrono riflessioni, pongono domande, mettono in luce la complessità della ricerca interiore, senza mai scivolare nella predica o nella rassicurazione.

Il film si configura così come un esperimento meta-narrativo sul potere del racconto: “Marko Polo” è, prima di tutto, un’indagine sul raccontare come atto di fede. Qui, la narrazione stessa diventa un atto di fiducia—fiducia in ciò che potrebbe essere, nella possibilità che dal caos possa emergere un senso. A sostenere questa idea è la struttura frammentata del film: un collage caleidoscopico di materiali eterogenei, in cui scene tratte da copioni abbandonati, modificati, mai realizzati riemergono come fantasie, visioni, spettri di opere possibili. Il risultato è un’opera sospesa tra il personale e l’universale, tra il sacro e il quotidiano, che esplora i territori incerti dell’identità, del dubbio e della rinascita.

Marko Polo ha due linee narrative, il presente – un viaggio notturno in nave – costretto in una prepotente unità di luogo, e poi c’è il passato, ampio e vago. Un tempo che è venuto prima, o che forse non è mai venuto, fatto di ipotesi e schizzi di film via via scartati, corrispondenti a modi di credere, e vivere, via via superati. La difficoltà è stata adattare un genere letterario, l’autofiction, al racconto per immagini, cercando di restare universali ma sempre legati a una certa sincerità; e quindi anche essere dentro e fuori il film, recitando un personaggio simile a me, ma che non sono io. Il risultato è un viaggio reale e psichico nel processo di costruzione e distruzione e ricostruzione (continui) di una storia, che pare sempre sul punto di evaporare.

Dichiarazione della regista

La pellicola è, per sua stessa natura, estremamente complessa, un’opera che si muove tra strati narrativi fluidi e sovrapposti. Tuttavia, questa complessità tende a sfumare nel trattamento di alcuni personaggi, in particolare la sorella della regista e la sceneggiatrice “muta”. Queste due figure, pur presenti nel lungometraggio, risultano prive di un’effettiva funzione narrativa e di un’integrazione significativa con le tematiche predominanti del film. La sorella della regista, che potrebbe potenzialmente rappresentare un contrappunto affettivo o un legame familiare chiave, rimane in secondo piano, senza un approfondimento tale da conferirle uno spessore drammatico incisivo. Analogamente, la sceneggiatrice “muta” appare come un elemento narrativo enigmatico, ma la sua presenza non si traduce in un contributo concreto alla struttura tematica dell’opera. La loro mancata espansione drammaturgica crea un vuoto che contrasta con la ricchezza concettuale del film, lasciando irrisolto il loro ruolo all’interno del discorso cinematografico.

“Marko Polo” opera su una dimensione di riflessione e destrutturazione, e proprio per questo la presenza di personaggi non pienamente sviluppati potrebbe essere letta come una scelta deliberata, un’indicazione di un racconto che si muove attraverso frammenti e suggestioni più che su archi narrativi convenzionali. Tuttavia, tale scelta lascia aperta la possibilità di un maggiore equilibrio tra sperimentazione e costruzione drammaturgica, per evitare che alcune figure risultino più simboliche che incisive.

In questo senso, il film sembra oscillare tra il desiderio di una narrazione aperta e la necessità di conferire una maggiore organicità ai suoi personaggi secondari, il che solleva interrogativi sulla funzione e sulla coerenza interna di alcune presenze nella storia. La loro vaghezza può essere interpretata come parte di un linguaggio poetico e frammentario, ma allo stesso tempo rischia di limitare la profondità del racconto e il coinvolgimento emotivo dello spettatore.

In conclusione

Marko Polo è una pellicola che sfida le convenzioni narrative, spingendosi oltre i confini del cinema tradizionale per esplorare un territorio fluido tra finzione e realtà, documentario e autofiction. Elisa Fuksas costruisce un’opera intima e stratificata, mettendo a nudo le proprie esperienze, dubbi e riflessioni attraverso una narrazione che destruttura ogni logica lineare. Il film interroga profondamente il concetto di fede, raccontando una spiritualità che si evolve e si mette in discussione, lontana dai dogmi e vicina alla fragilità umana. Marko Polo non cerca risposte definitive, ma propone una riflessione aperta e instabile, che affida allo spettatore il compito di decifrare il proprio significato.

Note positive

  • Approccio sperimentale che destruttura le regole della narrazione cinematografica
  • orte impatto visivo e sonoro, che amplifica la dimensione surreale del film

Note negative

  • Alcuni personaggi poco sviluppati, creando vuoti drammaturgici
  • Atmosfera sospesa che può lasciare la sensazione di un racconto incompleto

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.8
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.