Non stare a guardare (2025). La decostruzione del mito dell’amore da K-drama

Recensione della serie coreana Non stare a guardare (2025). Un thriller sociale che affronta la violenza domestica con crudezza e intensità.

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Non stare a guardare - By Lee You-mi as Jo Hui-su in As You Stood By Cr. Yu Ara/Netflix © 2025
Non stare a guardare – By Lee You-mi as Jo Hui-su in As You Stood By Cr. Yu Ara/Netflix © 2025

Non stare a guardare

Titolo originale: 당신이 죽였다 

Anno: 2025

Nazione: Corea del Sud

Genere: dramma, thriller, crime

Casa di produzione: Visionary Production (con il supporto di Netflix)

Distribuzione italiana: Netflix

Durata: 1 stagione – 8 episodi (circa 60 minuti ciascuno)

Regia: Lee Jeong-lim

Sceneggiatura: Kim Hyo-jeong

Fotografia: Vari

Montaggio: Vari

Musiche: Primary

Attori: Jeon So-nee, Lee Yoo-mi, Jang Seung-jo

Trailer di “Non stare a guardare”

Informazioni sulla stagione e dove vederla in streaming

Disponibile su Netflix dal 7 novembre 2025, Non stare a guardare (As You Stood By) si presenta come un nuovo e brillante esempio nel panorama del thriller di vendetta, grazie a interpretazioni di grande livello e a una scrittura solida. La serie, originale sudcoreana, è stata scritta da Kim Hyo‑jeong e diretta da Lee Jeong‑rim, già noto per Revenant, e vede nel cast Jeon So‑nee, Lee Yoo‑mi, vincitrice di un Emmy per Squid Game, Jang Seung‑jo e Lee Moo‑saeng. Basata sul romanzo Naomi & Kanako dell’autore giapponese Hideo Okuda, pubblicato nel 2014, la storia aveva già conosciuto un adattamento televisivo giapponese nel 2016: una serie di 10 episodi trasmessa da Fuji TV, con protagoniste Ryoko Hirosue e Yuki Uchida, che raccontava la vicenda di due donne unite contro la violenza domestica e impegnate in un piano di vendetta contro il marito abusivo di una di loro. I primi due episodi della nuova versione sudcoreana sono stati presentati in anteprima il 18 settembre 2025 al 30° Busan International Film Festival, nella sezione “On Screen”, prima di approdare sulla piattaforma globale di Netflix.

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Trama di “Non stare a guardare”

Cho Eun-Su (Jeon So nee) e Cho Hui-Su (Lee Yoo Mi) sono amiche sin dagli anni del liceo eppure portano avanti due vite contrapposte: Eun-Su, dedita alla carriera come manager in un negozio di lusso, vive in solitudine nella grande città, Hui Su, al contrario, dopo essersi sposata, trascorre le sue giornate in casa. La loro amicizia sembra procedere parallelamente rispetto alle loro vite, osservata dal punto di vista dell’una e dell’altra, fino al punto zero della storia: il tentativo di suicidio di Hui Su, il suo ultimo grido disperato nei confronti di Noh Jin Pyo (Jang Seung-jo), ricco uomo d’affari, all’apparenza buono e sensibile, ma in verità marito crudelmente violento, tossico e manipolativo. Di fronte a una giustizia completamente assente,una giurisdizione inesistente e insensibile al tema della violenza domestica, alla connivenza con un sistema di violenze su mogli e fidanzate in ogni generazione, all’assenza di ascolto e sensibilità, l’estremo rimedio sembra essere uno: l’omicidio di Noh Jin Pyo. In una serie drammatica di complicazioni e conseguenze, le due giovani cercheranno prima di tutto di ritrovare loro stesse e la loro pace, in un mondo nel quale la donna non sempre, ma ancora spesso non sembra ancora avere un posto se non quello dell’oggetto di casa.

Recensione di “Non stare a guardare”

Ancora vendetta in una serie coreana

Una giovane donna in carriera, una migliore amica sposata con un uomo efferatamente violento, una società che non vuole vedere, ma soprattutto che non vuole credere sono gli ingredienti perfetti di quella che, sì, apparentemente sembra essere solo una nuova serie thriller a tema vendetta coreana, ma che in realtà racconta molto più di una singola storia.

Proprio come la serie, a mio avviso sorella di questa, “The Glory”, anche per “Non stare a guardare”, se si dovesse trovare una parola per descriverla, quella parola sarebbe sicuramente “esasperazione”: ancora una volta in una serie coreana infatti si parla di una problematica sociale difficile, quale la violenza domestica (nel caso di “The Glory” era il bullismo) e ancora una volta la vendetta sembra emergere come l’estrema ratio, l’estremo grido di disperazione, di fronte a una società immobile. Come per la sua serie gemella, anche in questa le scene di violenza, che contraddistinguono i primi episodi, sono crude, soffocanti, senza pietà. Se da un lato, la vicenda della giovane Moon Dong-Eun, bullizzata da un gruppo di ragazze e ragazzi negli anni del liceo nelle modalità più bestiali ( si ricorda la famosa tortura del ferro per capelli) aveva già scoperto una ferita importante nella società coreana, quale il bullismo scolastico, dall’altro la vicenda di Cho Hui Su, sposata con un uomo il cui divertimento/sfogo è picchiarla letteralmente senza tregua, controllarla psicologicamente, non lasciarle scampo neanche nel decidere della propria vita, scopre un’altra ferita, altrettanto importante nella società coreana: la violenza dell’uomo sulla donna nella vita coniugale, un fenomeno radicato, un cancro non ancora estinto, ma ben nascosto. E così l’esasperazione è un sentimento che si instilla nello spettatore, che non può non empatizzare con la protagonista e con la sua migliore amica, che assiste impotente al vortice di violenza intorno a lei (significativa e forte è la scena in cui Eun Su assiste dall’interno di un armadio alle violenze a cui l’amica è sistematicamente sottoposta). Ma perché ancora la vendetta? Unica strada percorribile o espediente cinematografico per alimentare suspense? Ancora una volta come per “The Glory”, la via che il cinema coreano sembra scegliere di fronte al racconto di temi sociali così cruciali, è quella della vendetta pianificata, una strada sicuramente eticamente discutibile eppure impossibile da biasimare, sia nel caso della giovane bullizzata, sia in questo caso. A metà tra espediente cinematografico per creare un prodotto thriller di grande impatto, come solito nella tradizione coreana, e reale denuncia, la pianificazione dell’uccisione del marito violento non è altro in realtà che un grido, forte, profondo, disperato.

La serie mostra crudelmente per l’ennesima volta, come una donna, che sia vittima di bullismo, di violenza sessuale o di violenza domestica, nella Corea evoluta e quasi eccessivamente innovativa di oggi, non verrà mai facilmente creduta. La pianificazione di un omicidio non viene mostrata come un gesto psicotico, figlio di una follia lucida, quanto più di un dolore che acquisisce un’unica consapevolezza: l’assenza di una soluzione. Hui Su viene gentilmente invitata da un’altra donna, per altro simbolo dell’autorità della polizia, a risolvere la questione da sè, a non esporre una famiglia facoltosa a un’infamia simile e così la violenza domestica viene negata nell’essenza del reato che rappresenta, venendo relegata a “questione privata”. Di fronte a una giustizia che se ne lava le mani, anche lo spettatore inizia a traballare, empatizzando. Con questo, la serie, molto più realistica e meno indulgente con le due protagoniste, rispetto a “The Glory”, non vuole redimere un omicidio, sempre e comunque sbagliato e da punire, come infatti avviene poi per le due giovani, ma porre allo spettatore una domanda molto semplice: “Chi è il vero mostro in una situazione simile?

L’impatto delle interpretazioni sulla caratterizzazione dei personaggi

In una trama così complessa, in una costruzione così sfaccettata anche al livello di sceneggiatura, le interpretazioni non possono che giocare un ruolo fondamentale. Così stupisce per la sua interpretazione in primis Lee Yoo Mi, nella serie Jo Hui Su, già vista in “Squid Game”, ma anche in altri successi come “Mr Plankton”. Il suo personaggio esprime esattamente la sensazione di esasperazione data dalla totalità della violenza che vive: il suo sguardo spesso fisso, apparentemente inanimato incarna la forza della sceneggiatura e si sposa perfettamente con l’energia vendicativa espressa dalla sua migliore amica, interpretata da una altrettanto eccellente Jeon So nee. La caratterizzazione dei personaggi risulta fondamentale tuttavia anche nel veicolare un altro messaggio: ovvero il fatto che non ci sia una polarità netta nella violenza, una polarità di genere, bensì di come la mentalità patriarcale sia in grado di affliggere parimenti uomini e donne. Un esempio negativo nella serie è costituito proprio dal personaggio di Noh Jin-young, sorella del violento Noh Jin-pyo e esempio di grande maschilismo al femminile, nel suo tentativo di nascondere quanto più possibile, pur essendo una poliziotta, le violenze domestiche compiute dal fratello. Al contrario esempio maschile positivo e ammirevole è quello di Jin So-baek, interpretato dal sempre magnetico Lee Moon Saeng, già visto in “Thirty nine” e in “The Glory” con interpretazioni molto forti, che incarna la comprensione, la volontà di rendere la donna soggetto e non oggetto nelle sue potenzialità, il rispetto, in un contesto in cui quasi ogni personaggio maschile risulta essere negativo.

La decostruzione dell’amore da Kdrama

Per quanto come thriller “Non stare a guardare” pecchi talvolta di un filo di esagerazioni nella trama e complicazioni che appesantiscono il vero nucleo della storia, si può tuttavia affermare che all’interno del panorama dei kdrama, possa essere inserito in quella nicchia di prodotti innovativi, prodotti non più pensati per romanticizzare la vita e le relazioni, come spesso succede nelle serie sudcoreane, bensì pensato per raccontare un risvolto della società coreana che è reale, un tema purtroppo attuale quale quello della violenza domestica, proprio come nel caso di “The Glory” con il bullismo. Una serie scritta da una donna che racconta di donne finalmente in modo attivo, donne che non sono più oggetto d’amore da parte di uomini fin troppo perfetti e poco reali, ma donne che diventano nella loro stretta amicizia il fulcro di una presa di consapevolezza tutta nuova, molto sentita nel movimento femminista sudcoreano di oggi. E’ così, raccontando cosa spesso avviene dopo i matrimoni in Corea del sud, che “Non stare a guardare, decostruisce l’amore quasi eccessivamente melenso che alcuni Kdrama raccontano, facendo anche giustamente sognare le spettatrici, offrendo al contrario uno spaccato crudele e reale, nel quale alla fine tuttavia l’umanità non è completamente assente, bensì solo più reale.

In conclusione

“Non stare a guardare” risulta sicuramente un prodotto seriale che spicca nell’odierno panorama sudcoreano per brillanti interpretazioni unite a una scrittura dei personaggi delicata e dettagliata. Sicuramente, anche e soprattutto senza forzature di trama in alcuni punti, sarebbe risultata una serie ancora meglio riuscita, per aver posto in primis il focus su un tema così forte e poco raccontato in Corea del Sud quale la violenza, fisica e psicologica, la manipolazione e la tossicità all’interno di molte relazioni apparentemente perfette e che spesso i kdrama, in un racconto dell’amore edulcorato, ignorano.

Note positive

  • Tematica sociale forte e poco trattata (violenza domestica)
  • Interpretazioni intense di Lee Yoo Mi e Jeon So Nee
  • Scrittura dei personaggi femminili attiva e consapevole
  • Decostruzione del romanticismo tipico dei kdrama

Note negative

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.8
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Francesca Sansone
Francesca Sansone