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Quinto potere
Titolo originale: Network
Anno: 1976
Paese di produzione: USA
Durata: 121 minuti
Genere: Drammatico
Regia: Sidney Lumet
Sceneggiatura: Paddy Chayefsky
Produttore: Howard Gottfried
Produzione e distribuzione: Metro Goldwyn Mayer, United Artists
Fotografia: Owen Roziman
Montaggio: Alan Heim
Musiche: Elliot Lawrence
Scenografia: Philip Rosenberg
Costumi: Theoni V. Aldredge
Attori: Peter Finch, Faye Dunaway, William Holden, Robert Duvall, Wesley Addy, Ned Beatty, Beatrice Straight.
Trama di Quinto potere
Stati Uniti, anni ‘70. Lo storico conduttore di telegiornale Howard Beale (Peter Finch), di salute mentale precaria a seguito della morte della moglie, apprende dall’amico e collega Max Schumacher (William Holden) che l’emittente televisivo per cui lavorano, la UBS, ha in programma di licenziarlo perché la sua conduzione non è più di gradimento del pubblico.
La sera seguente, l’anchorman annuncia in diretta che si ucciderà davanti alle telecamere durante il notiziario della settimana successiva. Gli ascolti hanno improvvisamente un’impennata. La dirigenza, e in particolare la giovane e ambiziosa Diane Christensen (Faye Dunaway), decide quindi di sfruttare questo macabro incidente affidando a Howard un programma tutto suo, dove il pubblico possa assistere liberamente ai soliloqui del pazzo psichiatrico fino a quando…
Faye Dunaway in una scena del film Beatrice Straight e William Holden in Quinto potere
Recensione e analisi di Quinto potere
“Sono in*azzato nero, e tutto questo non lo accetterò più!”
-Howard Beale, Quinto potere
Ci troviamo di fronte al venticinquesimo lavoro di Sidney Lumet. Come avviene spesso nei film del regista, la narrazione è lenta e cadenzata e il focus è incentrato primariamente sulla critica sociale e sulla valorizzazione dei soggetti.
La visione pertanto non è scorrevole: sono molti i dialoghi e poca l’azione. E’ quindi caldamente consigliata a chi ricerca un’opera più riflessiva del solito, perché questo film non è altro che una forte denuncia alla disumanizzazione dell’individuo causata dai mass media (in particolare dalla televisione, mezzo prediletto dell’epoca).
La sceneggiatura trae ispirazione dalla storia vera di una giornalista americana affetta da depressione che si suicidò in diretta durante il telegiornale, ma viene sviluppata da Paddy Chayefsky – che seguì la realizzazione del film in prima persona accanto a Lumet – in modo da andare ad indagare maggiormente le dinamiche sociali che ruotano attorno ad un gesto estremo di tale calibro. Per farlo, egli si serve dei legami in evoluzione tra i personaggi: vediamo Max, che cerca una via d’uscita dalla sovrastruttura per cui ha sempre lavorato e che ora sente essere in contrasto con la sua morale, Diane, giovane donna plasmata da una società che discredita i valori umani, e infine Howard, completamente pazzo – ma forse il più sano di tutti? -, che sembra vivere periodicamente dei raptus spirituali in cui si abbandona a sproloqui colmi di rabbia nei confronti della mendacità che si cela dietro allo schermo.
I monologhi sono sublimi: tra i più memorabili figurano quello di Max a Diane e quello finale di Howard, di una potenza incommensurabile. Citarli ora equivarrebbe a privarvi di una parte importante che arriva dritta al cuore solo se la pellicola viene visionata nella sua interezza. La recitazione impeccabile di tutti gli attori, anche quelli impegnati in ruoli minori (l’attrice Beatrice Straight, che interpreta Louise Schumacher, vinse l’Oscar come miglior attrice non protagonista nonostante si veda solo in 5 minuti e 2 secondi di film) ha contribuito in larga misura a rendere il copione ancora più riuscito. Da ricordare specialmente la performance di Finch, che gli valse la prestigiosa statuetta al miglior attore protagonista, tutt’oggi unico premio postumo assegnato in questa categoria.
La direzione di Lumet ha un ritmo e uno stile tutti suoi. Il cineasta ha la capacità di cogliere i personaggi a nudo, nella loro vera essenza, soffermandosi su ogni espressione e permettendoci di comprendere quello che realmente pensano. Alla pellicola è da lodare il modo raffinato in cui regia, recitazione e sceneggiatura abbiano avuto la capacità di integrarsi ed elevarsi a vicenda.
La denuncia di Quinto potere
“Ebbene, è venuto il momento di chiedersi se “disumanizzare” sia un verbo così brutto. Bello o brutto, la disumanizzazione è in corso. Il mondo intero sta diventando umanoide: fatto da creature che sembrano umane ma non lo sono.“
-Howard Beale, Quinto potere
Il senso ultimo di “Quinto potere” è che Howard, nonostante stia vivendo un momento delicato della sua vita, è un burattino nelle mani del network, il quale lo sfrutta per aumentare la propria visibilità; il plot twist finale è che anche i suoi stessi carnefici lo sono: fungono da pedine in una società che ha come unico scopo quello di mettere in moto il denaro, eliminando l’umanità, le emozioni e i pensieri degli individui, rendendoli solo un mero agglomerato di pulsioni da soddisfare e frustrazioni da placare.
Nonostante sia innegabile che i tempi del film vadano a rilento per lo spettatore odierno, consiglio a tutti coloro che posseggono una buona dose di spirito critico di superare questo piccolo ostacolo per godersi un film purtroppo un po’ dimenticato, ma che nei suoi dialoghi cela un significato vero, profondo e capace di perturbare gli animi anche nel nostro secolo.
Curiosità: Il film ha avuto una recente trasposizione teatrale (2017-2018) che vede Bryan Cranston nel ruolo di Howard Beale.
PUNTI DI FORZA
- La sceneggiatura
- La recitazione
- La regia
- La perfetta integrazione delle tre sopra citate
- Porta riflessioni importanti su temi attuali
PUNTI DI DEBOLEZZA
- Troppo parlato e risulta molto lento