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Springsteen – Liberami dal nulla
Titolo originale: Springsteen: Deliver Me from Nowhere
Anno: 2025
Nazione: Stati Uniti d’America
Genere: Drammatico, Biografico, Musicale
Casa di produzione: Gotham Group, 20th Century Studios
Distribuzione italiana: The Walt Disney Company Italia
Durata: 112 minuti
Regia: Scott Cooper
Sceneggiatura: Scott Cooper
Fotografia: Masanobu Takayanagi
Montaggio: Pamela Martin
Musiche: Jeremiah Fraites
Attori: Jeremy Allen White, Stephen Graham, Paul Walter Hauser, David Krumholtz, Gaby Hoffmann, Jeremy Strong, Odessa Young, Marc Maron, Harrison Gilbertson, Lynn Adrianna Freedman, Johnny Cannizzaro, Bartley Booz
Trailer di “Springsteen – Liberami dal nulla”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
“Springsteen – Liberami dal nulla” è un film co-prodotto, scritto e diretto da Scott Cooper. Tratto dal libro Liberami dal nulla. Bruce Springsteen e Nebraska di Warren Zanes e prodotto da 20th Century Studios e Gotham Group. Il cast è formato da Jeremy Allen White, Stephen Graham, Paul Walter Hauser, David Krumholtz, Gaby Hoffmann, Jeremy Strong, Odessa Young, Marc Maron, Harrison Gilbertson, Lynn Adrianna Freedman, Johnny Cannizzaro, Bartley Booz. La pellicola è nelle sale italiane dal 23 ottobre 2025 distribuito da The Walt Disney Company Italia.
Trama di “Springsteen – Liberami dal nulla”
Il film racconta il periodo, all’inizio degli anni ottanta, durante il quale il cantautore statunitense Bruce Springsteen si dedicò alla registrazione del suo album acustico Nebraska.
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Recensione di “Springsteen – Liberami dal nulla”
C’è un momento particolare nel cinema biografico musicale in cui il personaggio storico smette di essere un’icona distante e diventa finalmente umano. Scott Cooper, con “Springsteen – Liberami dal nulla”, raggiunge questo risultato con una sensibilità rara, costruendo un film che non è tanto una celebrazione elogiativa quanto un’immersione profonda nell’anima tormentata di un artista al bivio tra l’immortalità e l’autodistruzione. un film che non è tanto una celebrazione agiografica quanto un’immersione profonda nell’anima tormentata di un artista al bivio tra l’immortalità e l’autodistruzione.
Il momento della verità
Il film si concentra su un periodo cruciale e relativamente breve della carriera di Bruce Springsteen: il 1982, l’anno di “Nebraska”. Una scelta coraggiosa da parte di Cooper, che evita la tentazione del biopic tradizionale che copre decenni di vita per concentrarsi invece su un momento di crisi creativa ed esistenziale. Springsteen aveva appena conquistato l’America con “The River”, ma invece di capitalizzare su quel successo con un nuovo album da stadio, si ritirò nella sua casa del New Jersey per registrare su un registratore a cassette quattro tracce una serie di canzoni scarne, oscure, quasi spettrali.
Cooper comprende che “Nebraska” non è solo un album: è un documento di disperazione americana, un blues dell’anima che parla di serial killer, disoccupati, padri falliti e sogni infranti. Il regista costruisce il suo film come una discesa negli inferi psicologici che hanno generato quei brani, esplorando il peso della fama improvvisa su un giovane ancora profondamente segnato da un’infanzia difficile e da una relazione tormentata con un padre violento.
Jeremy Allen White: una trasformazione totale
Se c’è un elemento che da solo giustifica la visione di questo film, è la performance di Jeremy Allen White. Reduce dal successo di “The Bear”, l’attore affronta qui un compito monumentale: incarnare non solo l’aspetto fisico di Springsteen, ma la sua essenza spirituale, la sua vulnerabilità nascosta dietro il personaggio dello showman.
White non si limita a un’imitazione superficiale. La sua è una performance che lavora dall’interno verso l’esterno: cattura la postura leggermente curva di un uomo che porta il peso del mondo sulle spalle, lo sguardo che oscilla tra l’intensità selvaggia sul palco e lo smarrimento quasi infantile nella vita privata, quella qualità contraddittoria che ha sempre definito Springsteen – il gigante del rock che sul palco urla la rabbia di una generazione e fuori scena sussurra le sue insicurezze.
Nei momenti più intensi del film, quando il Springsteen di White è solo nella sua casa con il registratore, guardando fuori dalla finestra verso le strade del New Jersey che ha cantato mille volte, l’attore raggiunge livelli di introspezione devastanti. Non c’è artificio, non c’è compiacimento: solo un uomo che cerca disperatamente di dare forma ai suoi demoni attraverso la musica, prima che questi lo divorino completamente.
La regia di Scott Cooper: intimità e claustrofobia
Scott Cooper, che con film come “Crazy Heart” e “Out of the Furnace” ha dimostrato una particolare sensibilità nel raccontare l’America delle classi lavoratrici e dei sogni frustrati, trova qui il suo materiale ideale. La sua regia privilegia l’intimità sulla spettacolarità, i silenzi sui discorsi enfatici, gli spazi chiusi e claustrofobici alle grandi scene corali.
Il film è girato con una palette cromatica desaturata, dominata da grigi, marroni e blu scuri che riflettono lo stato mentale del protagonista. La fotografia è magnifica nel catturare la luce fredda dell’inverno del New Jersey, le stanze semibuie dove Springsteen compone, i diner deserti e le strade vuote che popolano le sue canzoni.
Cooper utilizza la camera in modo quasi documentaristico nei momenti di registrazione, con lunghe riprese statiche che osservano il processo creativo senza interventi. Ma quando il film esplora i ricordi traumatici del protagonista – i litigi violenti con il padre, le notti passate in macchina a vagare senza meta – la regia diventa più frammentata, quasi espressionista, con tagli improvvisi e sequenze oniriche che riflettono la psiche frantumata del musicista.
Il fantasma del padre e i demoni del passato
Uno dei temi centrali del film è la relazione di Springsteen con suo padre, Douglas, un uomo duro, spesso disoccupato, emotivamente inaccessibile e occasionalmente violento. Cooper dedica diverse sequenze a ricostruire questi ricordi attraverso flashback che non sono mai didascalici o eccessivamente spiegati, ma emergono come frammenti dolorosi che continuano a tormentare il protagonista.
C’è una scena particolarmente potente in cui vediamo il giovane Bruce, forse dodici o tredici anni, assistere a una delle furie del padre, che picchia la madre in cucina in un accesso di rabbia. La camera rimane fissa sul volto del bambino, che non piange, non urla, ma semplicemente assorbe tutto, immagazzinando quella violenza che anni dopo si trasformerà in canzoni come “Highway Patrolman” o “Used Cars”.
Il film suggerisce, senza mai renderlo esplicito in modo pesante, che “Nebraska” è in parte un tentativo di Springsteen di fare i conti con questa eredità familiare: le storie di uomini ai margini, incapaci di esprimere le proprie emozioni se non attraverso la violenza o il silenzio, sono le storie di suo padre, ma anche delle migliaia di padri della working class americana degli anni ’80, travolti dalla deindustrializzazione e dalla perdita di identità.
Il peso della fama e l’isolamento
L’altro grande tema del film è il paradosso della celebrità. Cooper mostra efficacemente come Springsteen, all’apice del suo primo grande successo, si senta paradossalmente più solo che mai. Le scene in cui il musicista si trova circondato da manager, produttori e fan sono costruite per enfatizzare l’isolamento: tutti parlano di lui, nessuno parla con lui. Tutti vogliono qualcosa da Bruce Springsteen la star, nessuno sembra interessato a Bruce Frederick Joseph Springsteen, l’uomo.
C’è una sequenza molto bella ambientata dopo un concerto sold-out, Cooper inquadra Springsteen nel suo camerino. Lo vediamo seduto esausto, e poi, crollare in una crisi di panico silenziosa. White interpreta questo momento con una vulnerabilità straziante, facendo sentire allo spettatore il peso insostenibile di dover essere “The Boss” ogni sera, di dover incarnare i sogni e le speranze di milioni di persone quando a malapena riesci a tenere insieme i pezzi della tua stessa vita.
La nascita di “Nebraska”: il processo creativo come terapia
Il cuore pulsante del film sono le scene di registrazione di “Nebraska”. Cooper le filma con una reverenza quasi religiosa, comprendendo che sta documentando un momento sacro della storia della musica. Vediamo Springsteen nella sua camera da letto a Colts Neck, New Jersey, con nient’altro che una chitarra acustica, un’armonica e un registratore TEAC Portastudio 144.
Il processo è mostrato in tutta la sua fragilità e intimità. Non ci sono produttori, non c’è la E Street Band, non ci sono strati e strati di sovraincisioni. Solo un uomo e le sue canzoni, registrate in take singoli, spesso di notte, con il ronzio della registrazione che diventa parte integrante del suono. Cooper cattura magnificamente la qualità quasi ipnotica di queste sessioni: Springsteen che canta sottovoce, la concentrazione assoluta sul suo volto, i tentativi ripetuti di trovare la giusta intonazione per un verso.
Il regista fa una scelta intelligente mostrando come ogni canzone emerga da un’emozione o un ricordo specifico. “Atlantic City” nasce dopo che Springsteen ha letto sul giornale di una città un tempo prospera ora in rovina, e questo risveglia in lui ricordi della decadenza di Asbury Park. “My Father’s House” arriva dopo un incubo particolarmente vivido. “Johnny 99” dopo aver letto di un operaio disoccupato che ha commesso un crimine in preda alla disperazione.
I personaggi secondari: testimoni del declino
Intorno alla figura centrale di Springsteen, Cooper costruisce una galleria di personaggi secondari che funzionano come specchi delle sue paure e ossessioni. C’è il manager (interpretato da un eccellente Jeremy Strong) che non vede in Springsteen solo una macchina da soldi e capisce perché voglia “buttare via” il suo momento di gloria con un album così cupo e commercialmente rischioso.
Particolarmente emozionanti sono i personaggi della madre di Bruce Adele, interpretata con grazia e dignità da Gaby Hoffmann; della sua ragazza Faye, incarnata da Odessa Young e del padre Doug, interpretato da Stephen Graham. Importante è Mike Batlan, il tecnico di chitarre incarnato da Paul Walter Hauser. Toccante la scena del film Bruce inizia a scrivere e cantare “My Father’s House”. White ha uno sguardo che contiene dolore, rabbia, ma anche un barlume di comprensione. È un momento di una delicatezza straziante.
Il montaggio e la struttura narrativa
Il film non segue una struttura cronologica tradizionale, ma procede per associazioni emotive e tematiche. Il montaggio alterna il presente – il 1982 della registrazione di “Nebraska” – con flashback dell’infanzia e della giovinezza, ma anche con flash-forward immaginari, visioni delle vite dei personaggi delle canzoni che Springsteen sta componendo.
Questa scelta potrebbe risultare confusionaria, ma Cooper la gestisce con sicurezza, creando una struttura che riflette il funzionamento della memoria e del processo creativo: non lineare, fatto di salti, associazioni, ricordi che si sovrappongono al presente. Alcune transizioni sono gestite magnificamente attraverso il suono: una canzone che Springsteen inizia a cantare nel 1982 continua come colonna sonora di un flashback degli anni ’60, creando un ponte temporale che sottolinea come il passato non sia mai veramente passato, ma continui a vivere e pulsare nel presente.
La colonna sonora: quando la musica diventa personaggio
Ovviamente, in un film su Bruce Springsteen, la colonna sonora gioca un ruolo cruciale. Cooper utilizza le canzoni di “Nebraska” non come semplice sottofondo, ma come veri e propri commenti emotivi e narrativi. Ascoltiamo i brani nella loro versione originale registrata da Springsteen, con tutta la loro cruda imperfezione, il loro hiss della cassetta, la loro qualità spettrale.
Un film sull’arte come salvezza
L’intento principale del film è, quindi, mostrare come l’arte possa essere l’unica risposta possibile al dolore esistenziale. “Springsteen – Liberami dal nulla” è, in fondo, un film sulla funzione salvifica della creatività. Springsteen non registra “Nebraska” per diventare più famoso o più ricco – infatti, l’album rischia di compromettere la sua carriera. Lo fa perché deve farlo, perché quelle canzoni sono l’unico modo che ha per dare forma al caos interiore, per trasformare il dolore in qualcosa di condivisibile, di universale.
Quando Springsteen ascolta per la prima volta la cassetta completa di “Nebraska” sul suo volto passa una gamma complessa di emozioni: esaurimento, dubbio, ma anche qualcosa che potremmo chiamare pace, o almeno una tregua temporanea nella guerra con se stesso. Capiamo che la battaglia non è finita, forse non finirà mai, ma almeno per questo momento, attraverso queste dieci canzoni, ha trovato un modo per sopravvivere.
In conclusione
“Springsteen – Liberami dal nulla” è un film coraggioso e necessario, che evita le trappole del biopic musicale tradizionale per offrire invece un ritratto psicologico profondo e spesso doloroso di un artista al culmine della sua vulnerabilità. Scott Cooper dimostra maturità e sensibilità nel maneggiare questo materiale delicato, e Jeremy Allen White conferma di essere uno degli attori più dotati della sua generazione.
Non è un film facile, né un film che celebra acriticamente il suo soggetto. È piuttosto un’esplorazione onesta di cosa significhi essere un artista, del prezzo che si paga per trasformare il dolore personale in arte universale, e del coraggio che ci vuole per rimanere fedeli alla propria visione anche quando il mondo ti chiede qualcos’altro.
Per chi ama Springsteen, sarà un’esperienza commovente e rivelatrice. Ma anche per chi non ha familiarità con la sua musica, il film offre un ritratto potente e universale dell’anima umana alle prese con i suoi demoni, e del potere dell’arte di dare voce al silenzio, forma al caos, e forse, se siamo fortunati, un motivo per continuare a credere.
Note Positive
- Scrittura
- Regia
- Recitazione
- Colonna sonora
Note Negative
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| Sceneggiatura |
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| Colonna sonora e suono |
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| Interpretazione |
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| Emozione |
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SUMMARY
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4.9
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