
I contenuti dell'articolo:
Swipped
Titolo originale: Swiped
Anno: 2025
Nazione: Stati Uniti d’America
Genere: biografico, drammatico
Casa di produzione: 20th Century Studios, Ethea Entertainment
Distribuzione italiana: Disney+ (dal 19 settembre 2025)
Durata: 110 minuti
Regia: Rachel Lee Goldenberg
Sceneggiatura: Rachel Lee Goldenberg, Bill Parker, Kim Caramele
Fotografia: Doug Emmett
Montaggio: Julia Wong
Musiche: Chanda Dancy
Attori: Lily James, Dan Stevens, Myha’la, Jackson White, Ben Schnetzer, Pierson Fodé, Clea DuVall, Pedro Correa, Ian Colletti, Coral Peña
Trailer di “Swipped”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
Swiped, presentato in anteprima mondiale il 9 settembre 2025 nella sezione Gala Presentations del Toronto International Film Festival, è un’opera drammatica ispirata alla vita dell’imprenditrice americana Whitney Wolfe Herd (classe 1989). Nota per essere stata tra i cofondatori di Tinder tra il 2012 e il 2015, Wolfe Herd ha avuto un ruolo centrale nella diffusione dell’app, contribuendo alla sua popolarità nei campus universitari e proponendone il nome. In seguito, ha fondato Bumble, piattaforma di incontri incentrata sull’iniziativa femminile, concepita come risposta diretta alle dinamiche di genere presenti nelle app tradizionali, ricoprendo il ruolo di CEO dell’app.
La protagonista è interpretata da Lily James, attrice britannica già nota per ruoli in Pam & Tommy (2022), Rebecca (2020) e Finalmente l’alba (2023). Il cast include anche Dan Stevens, Jackson White, Myha’la, Ben Schnetzer, Pierson Fodé, Clea DuVall, Pedro Correa e Ian Colletti. La regia è affidata a Rachel Lee Goldenberg, già autrice di titoli come Unpregnant (2020) e La ragazza di San Diego (2020). La sceneggiatura è firmata dalla stessa Goldenberg, insieme a Bill Parker — suo collaboratore abituale — e Kim Caramele, nota per il suo lavoro in ambito comedy (Inside Amy Schumer, Fottute!, Un disastro di ragazza).
Swiped viene distribuito direttamente in streaming: dal 19 settembre 2025 su Disney+ in Italia e su Hulu negli Stati Uniti.
Trama di “Swipped”
Whitney Wolfe, giovane neolaureata con una visione audace e il sogno di cambiare il mondo attraverso startup no profit, si ritrova, quasi per caso, a lavorare nel settore tecnologico, all’interno di una nascente startup. L’ambiente, inizialmente fresco e umano, si trasforma ben presto in uno spazio ostile, costringendola ad affrontare sfide personali e professionali: pressioni interne, relazioni complesse, come quella con l’ex fidanzato e fondatore di Tinder Sean Rad, e dinamiche di potere che mettono a dura prova la sua integrità.
Dopo aver contribuito alla nascita di una delle app di incontri più note al mondo — Tinder — ed essere stata costretta a lasciare l’azienda a seguito di molestie sessuali subite, Whitney firma un accordo di riservatezza che le impedisce di portare la società in tribunale. Si trova così a dover ricostruire da zero la propria carriera e reputazione. Con determinazione e ingegno, concepisce una nuova piattaforma: Bumble, un’app che ribalta i ruoli tradizionali, affidando alle donne l’iniziativa nel contatto. Il progetto prende forma tra brainstorming, investitori scettici e una crescente attenzione mediatica, fino a diventare un fenomeno globale.
Il racconto segue la sua ascesa, tra intuizioni brillanti e momenti di vulnerabilità, mostrando il dietro le quinte di un’impresa che ha ridefinito il concetto stesso di connessione digitale. In parallelo, emergono tensioni profonde tra ambizione ed etica, innovazione e responsabilità, mentre Whitney si confronta con il peso di essere diventata un simbolo — non solo di successo imprenditoriale, ma anche di cambiamento culturale.
Recensione di “Swipped”
Swiped rientra formalmente nel genere biopic, proponendosi di raccontare la storia che ha condotto Whitney Wolfe Herd alla fondazione di Bumble, un’azienda che strizza l’occhio alle donne e che intende prevenire, sin dalle fondamenta, qualsiasi rischio di molestia sessuale da parte del genere maschile. Tuttavia, la domanda che sorge spontanea è: Swiped è davvero un biopic in senso stretto?
Gli sceneggiatori, in fondo, non conoscono l’intera vicenda. Si sono ritrovati a dover immaginare — più o meno liberamente, basandosi su alcune poche certezze — un segmento cruciale della narrazione: gli eventi del 2014, quando Wolfe Herd fu costretta ad abbandonare Tinder, intentando, il 30 giugno dello stesso anno, una causa per molestie sessuali contro l’azienda. Tutto ciò che è accaduto all’interno della società leader nel settore degli incontri digitali rimane avvolto nel mistero, poiché il processo non ha mai avuto luogo in un’aula di tribunale. La vicenda si è conclusa con una risoluzione extragiudiziale, in totale riservatezza: Tinder avrebbe versato una cospicua somma alla sua cofondatrice in cambio del suo silenzio, impedendole di raccontare pubblicamente ciò che le era accaduto nell’ambiente di lavoro. Non a caso la cineasta a fine pellicola scrive: “Whitney Wolfe Herd non ha partecipato al film poichè ancora sotto un contratto di non divulgazione”.
In verità, Wolfe Herd, attraverso alcune interviste, ha fornito frammenti non specifici su ciò che l’ha condotta ad abbandonare un lavoro che amava profondamente. Ed è proprio da queste dichiarazioni — parziali, allusive, emotivamente dense — che gli sceneggiatori hanno tratto ispirazione per costruire la parte più delicata del racconto: l’allontanamento da Tinder e la nascita di Bumble. In un articolo di StartupItalia, l’imprenditrice americana parla apertamente della sua relazione tossica con Justin Mateen, altro cofondatore di Tinder, che avrebbe iniziato a rivolgersi a lei, durante le riunioni, con appellativi denigratori e offensivi.
Il film, dunque, si muove su un crinale sottile tra ricostruzione e interpretazione. Se da un lato aspira a raccontare una storia vera, dall’altro è costretto a colmare lacune con elementi di finzione, immaginando ciò che non è mai stato reso pubblico. Questo solleva interrogativi sulla natura del biopic stesso: fino a che punto è lecito “inventare” per raccontare una verità emotiva? E quanto può essere considerata attendibile una narrazione che si basa su frammenti, suggestioni e accordi di riservatezza?
Molestie, esclusione e potere
Si può affermare che l’opera filmica perda in parte la sua natura di biografia rigorosa, pur senza rinunciare del tutto a tale definizione. La componente legata alle molestie sessuali — un vero e proprio buco nero narrativo, su cui disponiamo poche informazioni — viene trattata in modo attenuato: evocata ma mai approfondita, suggerita piuttosto che mostrata. La sceneggiatura si fonda quasi esclusivamente su ciò che Whitney Wolfe Herd ha lasciato intendere nelle sue interviste, in particolare riguardo alla sua relazione con Justin Mateen, cofondatore di Tinder e figura centrale nella vicenda legale che portò Wolfe a lasciare l’azienda. È su questa figura che si concentrano le motivazioni narrative del film, senza però che il racconto si spinga oltre quanto pubblicamente dichiarato, evitando di rappresentare direttamente le dinamiche di abuso o le tensioni interne all’azienda. Queste vengono raccontate solo attraverso alcune scene, poche ma funzionali.
La narrazione si orienta così verso una rappresentazione più ampia del mondo aziendale americano, dominato da logiche maschiliste e da un sistema di potere che protegge gli uomini — siano essi dirigenti o colleghi — e marginalizza le donne. Il racconto si inserisce in un contesto storico e culturale in cui le denunce di molestie ai potenti raramente portano a conseguenze legali significative, ma si traducono in isolamento, diffamazione e attacchi personali. In questo scenario, la denuncia non conduce alla giustizia, ma espone la vittima a ulteriori violenze: insulti, attacchi sui social, commenti brutali che restano impuniti, amplificati da piattaforme che non intervengono e da un ecosistema digitale che tende a proteggere l’aggressore e a colpevolizzare chi denuncia.
La regia e la scrittura adottano un linguaggio sobrio e controllato per raccontare queste dinamiche. Non ci sono scene esplicite di abuso, né momenti di forte impatto visivo. Il disagio viene reso attraverso il montaggio, i dialoghi e la costruzione silenziosa di un ambiente che si fa via via più ostile. Whitney, inizialmente benvoluta, viene progressivamente esclusa: ignorata, svalutata, trattata con freddezza. Il cambiamento è percepibile nei gesti, nei silenzi, negli sguardi — più che nelle parole. Questa progressiva esclusione è costruita attraverso una sequenza scenica di montaggio e alcune altre sequenze visive che pongono l’attenzione su come il potere si eserciti non solo attraverso atti diretti, ma anche attraverso l’indifferenza, la sottrazione di spazio e la negazione del riconoscimento.
Questa scelta stilistica riflette una precisa intenzione: evitare il sensazionalismo e concentrarsi sull’effetto sistemico e psicologico di un ambiente tossico. In questo modo, le relazioni professionali diventano il vero terreno narrativo, dove si gioca la partita tra potere, esclusione e resistenza. Il risultato è una rappresentazione che, pur rinunciando alla drammatizzazione esplicita, riesce a farci comprendere — seppur in maniera a tratti superficiale e didascalica — il senso di oppressione e la necessità di riscrivere le regole del lavoro e della convivenza sociale.
Un racconto troppo prudente
Il trattamento delle molestie sessuali in Swiped si muove su un terreno prudente: gli sceneggiatori scelgono di attenersi a ipotesi verosimili, evitando ricostruzioni esplicite o sequenze di forte impatto emotivo. Il racconto si limita a suggerire il clima tossico vissuto dalla protagonista, senza mai affrontarlo frontalmente. Questa scelta, se da un lato può essere letta come rispetto per la riservatezza dei fatti non confermati, dall’altro contribuisce a una narrazione edulcorata, che rinuncia a esplorare le zone più oscure e conflittuali della vicenda. Tuttavia, è nel resto della costruzione narrativa che emergono i limiti più evidenti. L’impianto generale appare pensato per un pubblico generalista, con una messa in scena che richiama il linguaggio televisivo più convenzionale. La storia — indubbiamente interessante e poco conosciuta in Italia, soprattutto per quanto riguarda la genesi di Tinder e Bumble — viene raccontata con un approccio drammaturgico semplificato, privo di tensione emotiva e profondità psicologica. Regia e sceneggiatura si mantengono su binari didascalici, illustrando i fatti più che interpretandoli, con una progressione narrativa che fatica a coinvolgere lo spettatore sul piano affettivo.
Dal punto di vista visivo, la costruzione è pulita ma scolastica: fotografia, montaggio e regia non presentano sbavature, ma neppure guizzi stilistici o soluzioni memorabili. Il risultato è un’opera che si lascia guardare, ma che non lascia traccia. Il focus tematico si concentra su una critica al maschilismo sistemico, con un impianto dichiaratamente femminista — non in senso ideologico, ma come presa di posizione narrativa — che denuncia il funzionamento patriarcale delle piattaforme social. In particolare, viene evidenziata l’assenza di una giurisdizione efficace: ambienti digitali dove gli uomini possono inviare contenuti sessualmente espliciti senza conseguenze, mentre le donne, sia che denuncino sia che tacciano, restano esposte a violenze verbali e invisibili, spesso amplificate da un’impunità algoritmica.
Se la struttura narrativa soffre di un evidente didascalismo, le interpretazioni offrono un punto di tenuta. Il lavoro su trucco e parrucco è accurato, e il casting risulta visivamente efficace: ogni attore somiglia in modo credibile al personaggio che incarna. In particolare, Lily James riesce a trasformarsi fisicamente nella protagonista, offrendo una performance contenuta ma solida. Pur non raggiungendo vette interpretative, riesce a conferire un minimo di spessore a un ruolo che, sulla pagina, resta piuttosto piatto.
In conclusione
Swiped è un’opera che si muove con cautela su un terreno scivoloso: quello della verità parziale, della memoria vincolata, della ricostruzione emotiva. Il film non è un biopic in senso stretto, ma una narrazione ispirata a fatti reali, filtrata attraverso il rispetto per la riservatezza e la necessità di raccontare comunque una storia. Il risultato è un racconto che denuncia senza urlare, che mostra senza esplicitare, che suggerisce più di quanto affermi. Se da un lato questa scelta protegge la protagonista e la sua storia, dall’altro limita la forza drammatica e la profondità psicologica dell’opera. Swiped resta un film importante per il tema che affronta, ma non riesce a trasformare la sua materia in cinema memorabile.
Note positive
- Tema centrale rilevante
- Casting
- Buon lavoro su trucco, costumi e ambientazione
Note negative
- Narrazione didascalica e priva di tensione emotiva
- Progressione narrativa semplificata
- Mancanza di approfondimento psicologico dei personaggi e del tema
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| Sceneggiatura |
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| Colonna sonora e sonoro |
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SUMMARY
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3.0
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