Vita privata (2025). Un viaggio psicologico tra memoria e identità

È un viaggio vertiginoso nell'inconscio, una discesa negli abissi della psiche che interroga la natura stessa della verità e la fragilità dei confini che crediamo di aver creato tra noi e gli altri.

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Trailer di “Vita privata”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

“Vita privata” è un film diretto e co-sceneggiato da Rebecca Zlotowski con Anne Berest e Gaëlle Macè, con protagonista Jodie Foster. La pellicola, prodotta da Los Films Velvet e France 3 Cinèma, è interpretata anche da Daniel Auteuil, Virginie Efira, Mathieu Amalric, Vincent Lacoste, Luàna Bajrami, Sophie Letourneur, Frederick Wiseman, Aurore Clément e Irène Jacob. Il lungometraggio, presentato in anteprima il 20 maggio 2025 fuori concorso al 78º Festival di Cannes, esce nelle sale l’11 dicembre 2025 con Europictures.

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Trama di “Vita privata”

È la storia di una psichiatra parigina, Lilian Steiner, che indaga sulla morte di una paziente, convinta che si tratti di omicidio e non di suicidio. La sua indagine la porta a intraprendere un viaggio personale e interiore, anche attraverso sedute di ipnosi, che la fa confrontare con un passato misterioso e con un’ossessione che sfuma i confini tra il suo ruolo professionale e la sua vita privata. 

Recensione di “Vita privata”

Con “Vita privata”, Rebecca Zlotowski firma un’opera ambiziosa e stratificata che sfida le convenzioni del thriller psicologico per addentrarsi in territori molto più profondi e perturbanti: quelli della memoria, dell’identità e del confine sempre più labile tra il sé professionale e quello personale. Il film è un viaggio vertiginoso nell’inconscio, una discesa negli abissi della psiche che interroga la natura stessa della verità e la fragilità dei confini che crediamo di aver creato tra noi e gli altri.

La premessa: un’indagine che diventa ossessione

La storia inizia con un evento traumatico: la morte apparentemente suicida di Paula (Virginie Efira), paziente della psichiatra parigina Lilian Steiner (Jodie Foster). Ma Lilian non riesce ad accettare la versione ufficiale. Qualcosa non torna. La sua esperienza clinica, il suo istinto professionale e forse qualcosa di più profondo e inconfessabile le suggeriscono che dietro quella morte si nasconda una verità più oscura. Così, contro ogni protocollo deontologico, decide di indagare, spinta da un impulso che è insieme razionale e viscerale.

Quello che comincia come un’indagine motivata dalla responsabilità professionale si trasforma rapidamente in un’ossessione personale. Lilian si ritrova ad attraversare i confini che aveva sempre mantenuto rigidi nella sua pratica terapeutica, quei confini che separano il medico dal paziente, l’oggettività dalla soggettività, la ragione dall’emozione. E in questo processo, scopre che Paula non era semplicemente una paziente tra tante, ma qualcosa di molto più significativo e inquietante.

L’ipnosi come porta verso l’ignoto

Il vero cuore del film sta nell’uso dell’ipnosi come strumento narrativo e metaforico. Zlotowski utilizza le sedute ipnotiche non solo come espediente di trama, ma come vero e proprio dispositivo cinematografico per esplorare gli strati più profondi della coscienza. Attraverso l’ipnosi, Lilian intraprende un viaggio interiore che la porta a scoprire un legame segreto con Paula, un legame che trascende il presente e affonda le radici in un passato che credeva dimenticato, o forse mai vissuto. La scoperta più sconvolgente avviene quando, durante le sedute, Lilian comincia a rivivere i ricordi di un giovane musicista ebreo nella Parigi occupata dai nazisti. Non si tratta di semplici visioni o fantasie: sono memorie vivide, corporee, che portano con sé emozioni intense e dettagli impossibili da conoscere.

Il giovane musicista era innamorato di una donna che, nella trama intricata di memorie e identità che il film costruisce, sembra essere Paula stessa, o una sua incarnazione precedente. Questo elemento introduce nel film una dimensione che sfiora il fantastico senza mai dichiararlo apertamente. Zlotowski mantiene un’ambiguità affascinante: si tratta di memorie di vite passate? Di un transfert psicologico estremo? Di una forma di dissociazione traumatica? O forse di una metafora della capacità empatica portata al suo estremo? Il film non fornisce risposte definitive, lasciando lo spettatore sospeso in uno stato di inquietudine interpretativa.

Temi: confini dissolventi e identità multiple

“Vita privata” è innanzitutto un film sui confini e sulla loro dissoluzione. Il confine più evidente è quello tra vita professionale e personale: Lilian, che ha dedicato la sua carriera ad aiutare gli altri mantenendo una distanza terapeutica, si ritrova completamente assorbita dall’indagine su Paula, fino a perdere di vista dove finisce il suo ruolo di psichiatra e dove inizia il suo coinvolgimento personale. Ma il film esplora anche confini più sottili e perturbanti: quello tra sé e l’altro, tra presente e passato, tra memoria e immaginazione. L’identificazione di Lilian con il giovane musicista solleva questioni fondamentali sull’identità: chi siamo veramente? Siamo solo la somma delle nostre esperienze coscienti, o portiamo dentro di noi strati di memoria e vissuto che vanno oltre la nostra biografia individuale? Il tema della memoria è trattato con una complessità rara nel cinema contemporaneo.

Zlotowski sembra suggerire che la memoria non sia solo un archivio personale, ma qualcosa di più fluido e misterioso, capace di oltrepassare i confini del singolo individuo. Le memorie del musicista ebreo non sono solo ricordi storici: sono esperienze cariche di dolore, amore, paura e colpa. Attraverso queste memorie, il film esplora il trauma storico della Shoah non come evento distante, ma come ferita ancora aperta che continua a ripercuotersi nel presente. Il dolore e la colpa sono infatti i motori emotivi del film. Lilian scopre che il giovane musicista portava con sé una colpa terribile, legata forse alla sopravvivenza in un’epoca in cui sopravvivere significava spesso compromessi impossibili. E questa colpa sembra essersi trasmessa attraverso le generazioni, o attraverso le vite, fino a diventare parte del tormento di Paula e dello stesso viaggio di Lilian.

Le performance: Foster e Efira ottime

Jodie Foster offre una delle sue interpretazioni più sfaccettate e vulnerabili. La sua Lilian Steiner è una donna di scienza, razionale e controllata, che si trova gradualmente smantellata dalle proprie scoperte. Foster riesce a comunicare questa trasformazione con una sottigliezza straordinaria: nei suoi occhi vediamo prima la certezza professionale, poi il dubbio, infine lo smarrimento e l’apertura verso dimensioni della realtà che contraddicono tutto ciò in cui aveva creduto. È una performance costruita sui dettagli: un tremito impercettibile, uno sguardo che si perde nel vuoto, una voce che perde la sua fermezza abituale. Virginie Efira, pur avendo un ruolo apparentemente più limitato data la morte precoce del suo personaggio, ha il compito difficile di costruire Paula come presenza ossessiva che permea l’intero film.

La vediamo in flashback, nei ricordi di Lilian, nelle visioni ipnotiche, e ogni sua apparizione aggiunge un nuovo strato di complessità a un personaggio che è insieme vittima, enigma e forse catalizzatore di una rivelazione più grande. Il cast di supporto è eccellente. Mathieu Amalric, Daniel Auteuil e Vincent Lacoste portano profondità ai loro ruoli, che potrebbero facilmente risultare funzionali alla trama ma che invece diventano individui pienamente realizzati. Auteuil, in particolare, nel ruolo di un collega di Lilian, incarna la voce della ragione e del metodo scientifico, diventando il contrappunto perfetto allo smarrimento della protagonista.

La regia: estetica dell’inconscio

Rebecca Zlotowski dimostra una maturità registica notevole nella gestione di un materiale così complesso. La sua macchina da presa non si limita a seguire la storia, ma crea un’estetica dell’inconscio, dove i confini tra diversi livelli di realtà diventano sempre più porosi. Le scene di ipnosi sono girate con una qualità onirica, ma senza ricorrere agli artifici visivi troppo evidenti: Zlotowski preferisce lavorare sulla luce, sul montaggio e sulla performance degli attori per creare quella sensazione di sospensione tra mondi diversi.

Il montaggio è forse l’elemento tecnico più audace del film. Zlotowski e la sua montatrice costruiscono una narrazione che si muove avanti e indietro nel tempo, dentro e fuori dalle sedute ipnotiche, con una fluidità che può disorientare ma che rispecchia perfettamente lo stato mentale della protagonista. Non è sempre chiaro, e questo sembra intenzionale, quando siamo nel presente oggettivo e quando siamo nelle proiezioni mentali di Lilian.

Parigi come palcoscenico stratificato

La città di Parigi non è solo lo sfondo del film, ma un personaggio a sé stante. Zlotowski utilizza la capitale francese come spazio stratificato, dove diversi tempi storici coesistono e si sovrappongono. La Parigi contemporanea, con i suoi eleganti quartieri borghesi dove Lilian esercita la professione, contrasta con la Parigi occupata delle visioni, dove ogni angolo poteva nascondere un pericolo mortale per la popolazione ebraica.

Questa sovrapposizione di Parigi diventa metafora della sovrapposizione di identità e memorie che il film esplora. Camminando per le stesse strade, attraverso epoche diverse, i personaggi rivivono gioie e traumi che sembrano eternamente presenti, come se il tempo fosse meno lineare di quanto vorremmo credere.

Limiti e ambiguità

“Vita privata” non è un film per tutti. La sua struttura frammentaria, l’ambiguità deliberata delle sue risposte e la complessità dei temi trattati possono risultare frustranti per chi cerca narrazioni più lineari o risoluzioni chiare. Alcuni spettatori potrebbero trovare che il film si perda nelle sue stesse analisi, che l’elemento della reincarnazione sia introdotto senza sufficiente preparazione concettuale, o che certi passaggi narrativi richiedano troppi salti di fede.

C’è anche il rischio che l’intricata sovrapposizione di piani temporali e psicologici risulti più confusa che suggestiva. In alcuni momenti, il film sembra più innamorato della propria complessità che interessato a comunicarla efficacemente allo spettatore. Tuttavia, questa stessa ambiguità può essere vista come una scelta artistica coraggiosa, un rifiuto di semplificare esperienze e questioni che sono per loro natura irriducibili a spiegazioni univoche.

Riflessioni finali: un cinema che osa

Ciò che rende “Vita privata” un’opera significativa è il suo coraggio di affrontare domande fondamentali sulla natura della coscienza e dell’identità senza la pretesa di fornire risposte facili. In un panorama cinematografico spesso dominato da narrazioni rassicuranti e prevedibili, Zlotowski propone un cinema che accetta il mistero, l’ambiguità e l’irrisolto come parte essenziale dell’esperienza umana. Il film suggerisce che siamo molto meno separati gli uni dagli altri di quanto crediamo, che i confini dell’io sono più permeabili di quanto la nostra cultura individualista voglia ammettere, e che il passato non è mai veramente passato ma continua a vivere attraverso di noi in modi che possiamo solo intuire.

In questo senso, “Vita privata” è anche un film profondamente etico: ci invita a riconoscere la nostra connessione con il dolore e la storia degli altri, a non rifugiarci nella distanza professionale o emotiva come protezione, ma ad accettare il rischio dell’empatia e dell’identificazione. La conclusione del film mantiene questa linea di ambiguità produttiva. Non offre una chiusura narrativa tradizionale, ma un’apertura verso nuove possibilità di comprensione. Lilian esce trasformata dal suo viaggio, ma non necessariamente guarita o rassicurata. Ha attraversato confini che non sapeva esistessero e ha scoperto che la sua identità è molto più complessa e stratificata di quanto avesse mai immaginato.

In Conclusione

“Vita privata” è un film intellettualmente ambizioso e emotivamente intenso che non cerca il favore facile del pubblico ma sfida lo spettatore a intraprendere insieme ai personaggi un viaggio nei territori più misteriosi della psiche umana. Rebecca Zlotowski conferma il suo talento nel costruire narrazioni stratificate che operano simultaneamente su diversi livelli di lettura, dalla storia individuale alla riflessione collettiva sul trauma storico.

Sostenuto da ottime interpretazioni, in particolare quella di Jodie Foster, e da una regia che sa essere insieme rigorosa e visionaria, il film è una piacevole esperienza cinematografica. Non è perfetto nelle sue ambizioni forse eccessive e nella sua complessità a volte oscura, ma è precisamente in questa imperfezione che risiede la sua forza: “Vita privata” è un film che vive nel dubbio, nell’interrogazione, nella ricerca senza garanzia di trovare, e in questo si rivela profondamente umano.

Note Positive

  • Scrittura
  • Regia
  • Recitazione

Note Negative

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonoro e suono
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
4.3
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Renata Candioto
Renata Candioto

Diplomata in sceneggiatura alla Roma Film Academy (ex Nuct) di Cinecittà a Roma, ama il cinema e il teatro.
Le piace definirsi scrittrice, forse perché adora la letteratura e scrive da quando è ragazzina.
È curiosa del mondo che le circonda e si lascia guidare dalle sue emozioni.
La sua filosofia è "La vita è uguale a una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita".