Dichiarazioni di Mounia Meddour sul suo film Houria – La voce della libertà (2022)

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Dalla regista di Non conosci Papicha Mounia Meddour, un’emozionante storia di rivalsa e accettazione con la stella emergente Lyna Khoudri (Non conosci Papicha, The French Dispatch, November – I cinque giorni dopo il Bataclan).

Algeri. Houria, giovane e talentuosa ballerina, subisce una violenta aggressione che la lascia con le gambe spezzate e le strappa, insieme al sogno di una carriera nella danza, la voce. Solo grazie al supporto di un gruppo di donne vittime come lei di violenza, potrà imparare a rimettersi in piedi e troverà, proprio nella danza, un nuovo modo di esprimersi: un silenzioso grido di libertà capace di sollevarsi con forza fino al cielo. E colpire direttamente al cuore.

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Come è nata la storia di HOURIA?

All’inizio c’era il desiderio di continuare a esplorare la società algerina attuale, con le sue problematiche e la sua ricchezza umana e linguistica. Con HOURIA mi immergo nella quotidianità algerina per raccontare le vicende di una giovane ballerina che subisce una metamorfosi in seguito a un incidente. Nascendo come documentarista, mi piace attingere a ciò che si trova nel profondo di me, ai miei ricordi e alle mie esperienze per convertirli in finzione cinematografica. A seguito di un incidente e conseguente doppia frattura della caviglia, dovetti fare una lunga riabilitazione che mi impedì di muovermi per diverso tempo. In questo film volevo quindi parlare di isolamento, solitudine e disabilità, ma soprattutto di ricostruzione. Houria, alla fine, dopo questa sua rinascita, diventerà ancora più forte. Diventerà sé stessa. Così ho immaginato il personaggio di Houria: un’eroina resa grandiosa dalla sua perseveranza, come l’Algeria che è ferita ma ancora in piedi.

All’inizio del film si avverte la differenza tra la danza, che si svolge di giorno, alla luce del sole, e l’universo dei combattimenti tra arieti e delle scommesse clandestine che si svolgono nel buio della notte. In questo modo volevi anche sottolineare la differenza tra la femminilità e una certa concezione virile della mascolinità?

In effetti c’è un parallelismo tra l’universo della danza – femminile, arioso e solare – e l’universo della notte – maschile e virile. Ma c’era anche il desiderio puramente cinematografico di filmare i combattimenti tra arieti, qualcosa di tipicamente algerino. Sappiamo che in Vietnam hanno i combattimenti tra bufali e nell’Inghilterra nel XVIII secolo c’erano quelli tra galli, quindi volevo mostrare questa peculiarità algerina, un’attività che si è diffusa dopo l’indipendenza. Questi combattimenti preparano anche il terreno alla danza contemporanea, che occupa la seconda parte del film: una danza decisamente ancorata al suolo, alla terra. I combattimenti tra arieti ci danno un’anteprima di questo universo.

Houria e sua madre, Sabrina, sono ballerine, vivono senza uomini, non indossano il velo, Sabrina fuma. Per te il femminile, la vocazione artistica e l’aspirazione alla libertà sono la stessa cosa?

Sì, per me la libertà individuale è voglia di fiorire, di esprimersi e di esplorare vari percorsi artistici. In Algeria il peso delle tradizioni e del patriarcato si fa ancora sentire molto ed è veramente difficile per le donne emanciparsi. Nel film, Sabrina è una donna colta, che ha talento e che si guadagna da vivere dignitosamente, anche se per alcuni ballare ai matrimoni è qualcosa di scandaloso.

Il tuo film sembra dire che la libertà individuale e l’espressione corporea sono limitate per tutti gli algerini, ma ancora di più per le donne algerine.

Assolutamente sì. Per riprendere l’esempio della danza, si pratica perlopiù in luoghi privati, raramente all’aperto. I corpi delle donne sono tabù. Una donna che balla è una donna che vuole esprimersi e non è banale in una società patriarcale e tradizionalista, con costumi e meccanismi d’onore. Serve un cambio di mentalità ma la strada è ancora lunga.

Lo slancio di Houria viene interrotto da un’aggressione commessa da un uomo che apprenderemo in seguito essere un ex terrorista islamista. La guerra civile è finita ma segna ancora la società algerina, giusto?

Purtroppo, vent’anni dopo la fine della guerra civile, le famiglie delle vittime devono ancora ricevere giustizia e verità. L’amnistia per alcuni detenuti è una sorta di ingiustizia nei confronti di queste famiglie. Ho amici vittime del terrorismo che si sono battuti in associazioni contro questa amnistia, ma, purtroppo, è stata approvata e questi pentiti sono a piede libero nella società. Ma il pentito del film è la metafora di un male più generale, quello della guerra civile, come una sorta di fantasma del passato che tarla il presente.

Nelle scene in questura mostri la passività delle istituzioni, il modo in cui il potere si è comprato la pace sociale concedendo l’amnistia agli ex islamisti.

Oggi la popolazione è assorbita dai problemi della vita quotidiana. Avere un lavoro, una casa, uno stato sociale – tutte queste difficoltà, purtroppo, affliggono la vita quotidiana e ci spingono a chiudere un occhio su quanto accaduto in passato, senza cercare di risolverne le contraddizioni. L’amnistia dei terroristi pentiti è una grande violenza per le famiglie delle vittime.
Lyna Khoudri in Houria - La voce della libertà
Lyna Khoudri in Houria – La voce della libertà

Houria perde la voce e ricostruisce la sua vita all’interno di un gruppo di donne con disabilità, la maggior parte mute a loro volta. Il mutismo è una metafora dell’impossibilità di parlare liberamente?

Assolutamente sì. Il mutismo di Houria è chiaramente il simbolo di tutte quelle donne che sono state messe a tacere, che sono state cacciate, licenziate, soffocate, umiliate e ridotte al silenzio. Houria simboleggia tutti coloro che non hanno una voce.

L’opposto del mutismo sono l’espressione corporea, la lingua dei segni e la danza, che tu mescoli.

Sì, la comunicazione passa attraverso i corpi, quei corpi che si volevano incatenare. Quei corpi feriti si “riparano” attraverso la danza per ritrovare una sorta di libertà e bellezza. Nel film si balla perché c’è il bisogno di comunicare con il proprio corpo, con gli altri, e di creare un legame. Le donne hanno anche un desiderio di creazione e un bisogno di trasformazione.

Abbiamo anche la sensazione che la danza e la lingua dei segni siano linguaggi clandestini, linguaggi di resistenza che il potere non può comprendere.

Assolutamente. Nella prima parte del film, Houria è incatenata dalla rigidità della danza classica, poi, dopo l’aggressione, spiega le ali abbandonandosi a un nuovo linguaggio del corpo. A contatto con queste donne ferite dagli incidenti della vita, che hanno rinunciato a parlare a favore della lingua dei segni, Houria fiorirà. Maturerà un progetto coreografico che solo queste donne possono comprendere. Un legame forte e un linguaggio quasi segreto e clandestino le uniranno permettendo loro di raccontare i mali della società odierna.

Il linguaggio del corpo è anche molto cinematografico, cosa che la tua regia sottolinea enfatizzando corpi, gesti, movimenti.

Assolutamente. Filmare la danza è molto complesso e la mia scelta è stata quella di filmare le ballerine in libertà. Mi piace filmare i miei personaggi il più vicino possibile al corpo, alla pelle, al movimento, quindi ho parlato a lungo con il direttore della fotografia riguardo a come filmare il ballo, quali scelte fare, quali scene privilegiare. Quando si filma la danza bisogna accettare di perdere qualcosa – per me era assolutamente necessario privilegiare i corpi, i movimenti, un’espressione, uno sguardo. Spesso nei film di danza, la coreografia è pensata o rielaborata per la cinepresa. Quindi la materia prima è la coreografia, non la sceneggiatura. Per noi è stato il contrario. Abbiamo cercato i dettagli durante la danza con la macchina da presa, come in un documentario, mettendo in atto una coreografia ben precisa che ha lasciato totale libertà alle attrici e alle ballerine.

Come in NON CONOSCI PAPICHA, Houria e le sue amiche si emancipano attraverso un progetto creativo collettivo. Questo si riferisce anche alla tua attività di regista. L’arte collettiva è uno dei modi migliori per combattere l’oppressione?

L’arte in generale può aiutarci a sopravvivere e a ottenere una certa libertà, specie nelle società patriarcali. L’arte collettiva può essere fonte di emancipazione e avere un forte impatto. Possiamo resistere con le immagini, possiamo combattere con le parole o con la poesia impegnata. In HOURIA, le donne si riuniscono attorno a un progetto artistico collettivo che le lega: la danza. Insieme migliorano le loro condizioni di vita e sono più forti e resilienti. Resistere attraverso l’arte significa anche disobbedire, ribellarsi, tenere testa, non partecipare a ciò che viene imposto. Questo è esattamente ciò che accade alle donne di Houria quando la sala da ballo chiude – si rifiutano di annullare lo spettacolo o di smettere di ballare. Non vogliono porre fine al progetto artistico che ha dato un senso alla loro vita e preservato la loro dignità. Questo spettacolo di danza dona loro dignità e la possibilità di evadere dalla realtà algerina.

C’è anche il personaggio di Sonia, la migliore amica di Houria, che vuole fuggire in Spagna e il cui destino avrà un tragico epilogo. Questo personaggio pone una domanda complessa: quando si è oppressi, è meglio lasciare il proprio Paese o restare e combattere dall’interno?

Sonia sceglie l’esilio mortale del raggiungere l’Europa su un’imbarcazione di fortuna. Nel suo Paese, che non la rende felice, soffoca. Cerca di ottenere il visto ufficialmente, ma le sue numerose richieste vengono respinte. Così, come molti migranti clandestini algerini, tenta questo viaggio rischiando la vita. Quest’anno più di 400 giovani algerini hanno perso la vita nel disperato tentativo di attraversare il Mediterraneo. Sono sempre di più le donne e i bambini che lasciano il Paese per motivi economici, sociali o familiari. L’alto tasso di disoccupazione, il costo della vita spropositato, la mancanza di stabilità politica e di libertà sono fattori che portano alla disperazione e alla frustrazione. Ovviamente non è questa la soluzione. Dobbiamo scoraggiare chi parte volontariamente offrendo loro maggiori possibilità di successo e punire più severamente i trafficanti, anche se nel 2009 è già stata inserita nel codice penale algerino una pena severa relativa al traffico di migranti; questa, però, non ha risolto il problema, anzi. Questa attività è molto redditizia per le reti mafiose e altri trafficanti che gestiscono gli attraversamenti illegali. La situazione è molto preoccupante perché rivela il malessere dei giovani algerini che non credono più nel discorso ufficiale e per i quali la fiducia nei politici al governo sembra totalmente assente.

Come è stata la tua collaborazione con Léo Lefèvre, il direttore della fotografia?

Avevamo già lavorato insieme a NON CONOSCI PAPICHA, anzi, quasi tutta la squadra è rimasta la stessa. È un team leale, che conosce bene il mio modo di lavorare e questo ci ha fatto risparmiare un sacco di tempo. Con Léo, abbiamo fatto molte ricerche visive, moodboard e letture per capire l’evoluzione del personaggio e pensare a come filmare la danza. Trovo che sia un esercizio difficile perché per me una performance di danza è vissuta e sentita, il movimento è difficile da catturare, filmare è necessariamente amputare. Quindi abbiamo deciso di concentrarci sulle espressioni e le emozioni della nostra eroina. In questo modo si è più vicini al personaggio e si sente ciò che sente e vive lei. Ma al di là della danza, quello che ci interessava di più era catturare il sogno infranto di questa ballerina e la sua lunga ricostruzione. Martha Graham ha detto che “un ballerino muore due volte. La prima quando smette di ballare e questa prima morte è la più dolorosa”. Ma è la rinascita di Houria attraverso la sua nuova creatività che abbiamo voluto incarnare con delle riprese più calme, più lente, in sintonia con il processo di riabilitazione. Un’altra cosa importante per noi era filmare questo gruppo di donne che si forma a partire dalla danza. Io e Léo abbiamo tagliato molto poco in modo che le attrici trovassero il loro posto nello spazio e si sentissero il più libere possibile.

Come ti sei trovata a lavorare con Hajiba Fahmy, la coreografa?

Dall’inizio della preparazione ci sono stati molti scambi e confronti tra Hajiba Fahmy, la coreografa, il nostro consulente per la lingua dei segni, Antoine Valette, e i compositori Yasmine Meddour e Maxence Dussere. Come per la musica, abbiamo cominciato dalla coreografia finale. Era quella più complessa da creare, doveva essere potente e liberatoria allo stesso tempo. Houria doveva prendere la sua energia dal terreno e diffonderla in tutto il corpo: una danza naturale con un ritmo che invade il corpo. Per questa coreografia, abbiamo tradotto alcuni passaggi della sceneggiatura in lingua dei segni, poi Hajiba ha reinterpretato ogni segno in un movimento per simboleggiare la forza e la liberazione di Houria. Questo processo è stato lungo e laborioso, ma molto stimolante e creativo. Hajiba ha anche preparato atleticamente Lyna (Khoudri) per la danza classica e il Lago dei cigni, un lavoro estremamente rigoroso e impegnativo. In generale si lavorava trasversalmente a tutte queste componenti: lingua dei segni, coreografia, regia, riprese, recitazione di Lyna e delle altre attrici. Lyna doveva esprimere tutto senza parole, attraverso movimenti e sguardi. Io e Hajiba abbiamo usato delle moodboard per catturare non solo i movimenti, ma anche gli sguardi.

Come è stato diviso il lavoro musicale tra Yasmine Meddour e Maxence Dussere?

L’idea di questo duo è nata dal desiderio di unire due mondi, quello della pianista e compositrice Yasmine e quello del compositore Maxence, appassionato di musica elettronica. La musica per la coreografia finale è stata composta per prima perché ci serviva per le prove e le riprese. Volevo che questa musica fosse organica, carnale, quasi tribale, con percussioni vivaci e accattivanti. Dopo diverse modifiche, abbiamo trovato l’alchimia perfetta e da questa composizione finale è nata poi l’estetica musicale del film. Le musiche raccontano il tormento e la ricostruzione di Houria. All’inizio la musica è fragile, composta da frammenti melodici, poi si evolve diventando un motivo potente su cui la voce cantata si impone come un grido di libertà. L’idea era quella di inserire la musica solo dopo l’aggressione e la perdita della voce. L’intenzione era di dare una voce a Houria dopo che l’ha perduta a causa dell’aggressione. Questa musica diventa sua, così come si rimpossessa, piano piano, del suo corpo.

Puoi parlarci del lavoro delle attrici, a cominciare da Lyna Khoudri?

Ho avuto la fortuna di conoscere Lyna molto bene e gran parte del nostro lavoro su Houria è stato dedicato alla costruzione di un personaggio di profonda coerenza. Nel film, si usa la lingua dei segni per parlare di mutismo, di shock post-traumatico, di riabilitazione fisica ed è stato fondamentale raccogliere quante più informazioni possibile per costruire un personaggio giusto, preciso e credibile. Per me che nasco come documentarista, era fondamentale avere tutto questo materiale per iniziare a comporre il ruolo di Houria.
Siamo partiti con diverse interviste a psicologi e neurologi per cercare di capire cosa stesse succedendo nella testa di Houria e capire il suo mutismo dovuto allo shock post-traumatico. E il libro Il linguaggio ferito ha accompagnato Lyna durante la sua preparazione. Poi ha imparato la lingua dei segni con Antoine Valette, il nostro consulente, che aveva anche tradotto dei passaggi della sceneggiatura. Questo è stato un lavoro prezioso perché ha fatto da matrice per la coreografia elaborata da Hajiba Fahmy. E poi, ovviamente, abbiamo letto tanti libri e biografie di Pina Bausch, Marie-Claude Pietragalla e Martha Graham, guardato balletti classici, spettacoli contemporanei, ma anche clip molto creative come quelle di Sia con le sue coreografie sbalorditive dalle espressioni facciali incredibili.
E poi, al di là dello studio della danza, della disabilità, del corpo, Lyna ha dovuto lavorare sulla recitazione, sull’interiorità del personaggio, sviscerare la posta in gioco di ogni scena per incarnare questa giovane donna che vive in una Algeri soffocante.

Anche le altre attrici sono altrettanto brave.

Sono tutte attrici di talento! Sonia è interpretata da Amira Hilda Douaouda, che, ai miei occhi, è un’attrice straordinaria, molto coerente e di una naturalezza sbalorditiva! Fa anche la cantante. Lei conosce molto bene la sorte di queste migliaia di donne che partono su barconi fatiscenti. Dà a Sonia una qualità che è allo stesso tempo gioiosa e commovente: gioiosa perché ha una gran voglia di vivere, tanta sete di libertà e il coraggio di dire di no a questa Algeria che la imprigiona; commovente perché è ingenua nel credere che la traversata del Mediterraneo sarà facile. Nadia Kaci, che interpreta Halima, è un’attrice meravigliosa, semplicemente magnifica. So che interpretare il ruolo di Halima l’ha davvero toccata e segnata – quando ha letto la sceneggiatura, mi ha chiamata per dirmi quanto l’avesse colpita il personaggio di Halima e quanto fosse sensibile alle sue “ferite”. Inoltre, nel 2010 ha ricevuto il Prix littéraire des Droits de l’Homme del concorso letterario sui diritti umani con il racconto Laissées Pour Mortes.

NON CONOSCI PAPICHA ha avuto un grande successo in Francia. I tuoi film vengono visti in Algeria? E, più in generale, il cinema può contribuire alla lotta per l’emancipazione?

NON CONOSCI PAPICHA non è uscito in Algeria, anche se i permessi di proiezione c’erano ed è stato prodotto con il sostegno del Fdatic, un’istituzione che dipende dal Ministero della Cultura. Il film non è stato distribuito nelle sale, ma ha comunque rappresentato l’Algeria agli Oscar 2020 ed è stato visto, ufficiosamente, dalla maggior parte degli algerini. Questo è il paradosso dell’Algeria! Da un lato c’è chi ha amato il film per la sua autenticità e perché gli ha ricordato sé stesso e la società in cui vive, dall’altro c’è chi lo ha odiato per gli stessi motivi. Penso che i primi abbiano sicuramente fatto un passo indietro rispetto a questi tragici eventi e i secondi si rifiutino di guardare in faccia una realtà ancora troppo difficile da accettare. Un’immagine può essere molto dura, di grande impatto ed è in questo senso che trovo il cinema essenziale e necessario. Può essere un meraviglioso strumento terapeutico! Ci libera dai fantasmi del passato che possono ancora perseguitarci nel presente. Ci permette anche di aprirci al mondo che ci circonda, da qui l’importanza della diversità cinematografica. I film di tutto il mondo ci aiutano a capire e identificare meglio i problemi di ogni Paese. La stampa e i media fanno già questo lavoro, ma il cinema e le immagini hanno un impatto emotivo e sentimentale più forte. E, naturalmente, il cinema contribuisce alla lotta per l’emancipazione delle donne. Vedere sullo schermo una protagonista femminile stimolante, che si afferma e che incarna una donna forte, permette alle donne di identificarcisi. Oggigiorno, le donne che sognano l’emancipazione sullo schermo vengono fatte sentire sempre meno in colpa.
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