Mask – Dietro la Maschera (1985): Tratto da una storia vera

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Dietro la maschera locandina

Dietro la maschera

Titolo originale: Mask

Anno: 1985

Paese di Produzione: Stati Uniti d’America

Distribuzione: UIP

Durata: 115 min

Regia: Peter Bogdanovich

Sceneggiatura: Anna Hamilton Phelan

Fotografia: László Kovács

Montaggio: Barbara Ford

Musiche: Dennis Ricotta

Attori: Cher, Sam Elliott, Eric Stoltz, Estelle Getty, Richard Dysart, Laura Dern

Trailer di Dietro la maschera

Nel 1985 Peter Bogdanovich realizza il lungometraggio filmico dal titolo Mask, in italiano “Dietro la maschera”, che riprende la tematica sul diverso sulla scia di The Elephant Man. Il lungometraggio è stato presentato al 38° Festival di Cannes portando a casa il premio della migliore interpretazione femminile dell’attrice e cantautrice americana Cher, che interpreta il ruolo della madre di Dennis, Florence “Rusty”. L’opera cinematografica riuscirà anche a vincere il premio oscar per il trucco della “maschera facciale” del protagonista realizzata efficacemente da Michael G. Westmore e Zoltan Elek. Il protagonista su cui verte la storia è suo figlio Roy Lee “Rocky” Dennis (Erick Stoltz), affetto da una rarissima malattia che gli fa aumentare, a causa di un’ eccessiva presenza di calcio, le proporzioni del cranio e della faccia rendendo il suo viso abnorme e più grande del normale. La malattia è chiamata leontiasi, per una sorta di parallelismo alla visione del ragazzo con quella del leone.

Trama di Dietro la maschera

L’opera, prodotta dalla Universal riprende la vita reale di Roy Lee Dennis (Glendona, 4 dicembre 1961 – Glendora, 4 ottobre 1978) morto a diciassette anni nel suo letto per la pressione ossea presente nel cervello causata dalla rara malattia. Nella sua vita il giovane ha dovuto sopportare, fin dall’infanzia, dei forti mal di testa causati proprio da questo ingrossamento osseo.

Recensione di Dietro la maschera

Il film oltre a trattare il freak inteso come scherzo della natura, tratta la variante etimologica del termine imposto dagli anni settanta in poi, che sta a significare una cultura trasgressiva, una subcultura diversa da quella della società di massa, che è incarnata dalla “grande famiglia” di Roy dei Turks, dove i canoni della libertà vengono rappresentati tramite una vita sregolata e da Hippie, incarnata dal mondo della propria madre intessuto di rock, motori Harley, alcol, canne e droga. Sugli ultimi due punti il figlio si opporrà alla madre, avendo con lei dei forti scontri, che a metà film porterà la donna a decidere di smetterla definitivamente con quella roba che la sta portando all’auto-distruzione.

Il gruppo eversivo della sua famiglia si chiama Turks e il loro simbolo sulla giacca è quello di uno scheletro. E’ nella sua famiglia che Rocky si sentirà perfettamente a suo agio. Questa banda, al di fuori da ogni regola sociale e civile, non lo vede per ciò che è esteriormente ma solo per il suo essere interiore e il giovane dal volto di leone si trova, all’interno di quel gruppo, perfettamente a suo agio senza sentirsi un mostro. E’ il suo clan che lo protegge quando studenti della sua scuola lo portano in giro per la sua deformità; uno tra questi è il motociclista di Harley Davidson, Dozer (Dennis Burkley), che spicca esteriormente per il fisico massiccio, dotato di grande muscolatura e forza fisica (una sorta di Bud Spencer)

La tematica trattata è quella di riuscire a comprendere la profondità e la sensibilità di Rocky Dennis, un ragazzo dalle grandi qualità e intelligenza, sensibilità e auto-ironia, maggiori rispetto alla media della popolazione. Lo spettatore quindi deve distaccarsi dalla sua superficie per indagare a fondo dentro il protagonista, pieno di sogni (fare un tour in moto con il suo amico Ben o avere una ragazza che lui ami, e viceversa), collezionare le sue figurine di baseball della formazione di Los Angeles dei Dodgers del 1955, fare uscire la madre dall’incubo della droga e farsi accettare per quello che la natura gli ha dato. Il lungometraggio si concentra anche sulla maschera degli altri personaggi, che si chiudono in loro stessi e nelle loro debolezze, mentre Rocky cerca sempre di essere positivo per il dono della vita, cercando di viverla appieno in ogni suo attimo.

Mask è davvero un film sulla maschera, ma non tanto quella evidente dei protagonista (almeno un paio di volte qualche ragazzo si rivolgerà a lui dicendogli di togliersela), che è invece una maschera vera, quanto sulla maschera degli altri, su Rusty che copre il suo animo avviluppandolo nella droga e vive – ormai donna matura – un orribile rapporto di disagio con il padre, su Dozer che rifiuta di parlare mascherando la comunicazione con la forza bruta, sui compagni di scuola, ad uno dei quali lo stesso Rocky in un accesso dì furia (per lui inaudita) dirà che egli si toglierà la maschera quando lavrà fatto anche l’altro. Un mondo en masque allora, ma senza alcunché di carnevalesco, senza il piacere del celare e dello svelare. Anche qui si cela e si svela, naturalmente, ma – appunto – senza piacere: la maschera, insomma, diventa metafora dellesistenza senza lallegro fasto della ritualità

F. La Polla, in “Cineforum

La tematica dell’apparizione e dello specchio

Il film prodotto dall’Universal inizia con l’inquadratura delle montagne con il suono degli uccellini (l’inquadratura iniziale non è diversa come composizione e ambientazione al paesaggio dell’incipit di Un lupo mannaro americano a Londra), per poi con una panoramica da destra a sinistra, con l’apparizione in lettere maiuscole in corsivo del titolo Mask, l’istanza narrante ci mostra in campo lungo l’autostrada caotica piena di macchine, con il loro relativo rumore sull’asfalto. Passiamo quindi dalla pacificità della natura al caos cittadino della città americana di Los Angeles piena di grovigli di strade, con macchine minuscole che sfrecciano, dove tutti i veicoli praticamente sono uguali. Con l’accenno di una musica rock la sequenza in pianosequenza si chiude, con l’istanza narrante che ci porta in una strada più tranquilla e vuota, del quartiere in cui abita il ragazzo sedicenne protagonista della storia.

Dopo un’inquadratura in cui viene ripreso lateralmente nella sua stanza in penombra, mentre sta camminando per la camera, in quella successiva si sta mettendo una camicia e lo vediamo ripreso in moto tale da vederlo di spalle, con il suo riflesso allo specchio (nella parte sinistra dell’inquadratura). Seppur la musica sia extradiegetica (colonna sonora), il personaggio si sta vestendo a ritmo della canzone. Senza stacco di ripresa, la mdp compie una panoramica da destra a sinistra, mostrando Rocky in mezza figura, in ombra non mettendo bene a fuoco il suo viso; lo spettatore dalle prime inquadrature nota dal riflesso dello specchio e dalla poca luce che la sua faccia è anomala, più grande del normale. Aprendo un cassetto, estrae da esso le figurine dei suoi miti, i giocatori di baseball; infatti vuole finire una collezione, quella della formazione dei Brocklyn Dodgers del 1955. E’ davanti alla formazione che si mette la giacca blu con la scritta Turks che contiene dietro il simbolo distintivo della stampa di uno scheletro felice; senza stacco, la mdp lo segue di spalle verso sinistra, cerchiando con la penna una città dell’est Europa della cartina geografica, tra le tante già segnate. Spostandosi, con il personaggio, la mdp sulla sinistra, lo vediamo lateralmente al minuto 3:34 e l’uomo si sta guardando allo specchio. Lo spettatore può vedere la sua deformità, con naso schiacciato, fronte alta e ampia, grande distanza tra il labbro inferiore e il mento e una faccia abnorme e deforme. Anche in The Elephant Man la visione del freak da parte di Treves è in penombra, con lo spettatore che comprende già che il suo cranio è molto grande con le escrescenze tumorali nel corpo, ma ci verrà mostrato bene in luce molto più avanti nella storia, creando delle aspettative sulla sua visione senza filtri da parte del pubblico. Qui invece il personaggio, seppur attraverso il suo riflesso allo specchio, ci viene già mostrato nella seconda sequenza del film, concentrandoci soltanto sull’aspetto della faccia e della testa, ovvero su quello deformato e malato. Guardandosi nel riflesso, sistemandosi i capelli rossicci che ricordano quelli del leone, il personaggio sembra essere comunque soddisfatto della sua natura “diversa”. Con il suono del clacson, il protagonista si dirige alla finestra (oggettiva di lui che guarda verso l’esterno), vedendo la macchina capottabile grigia in cui è presente nel sedile del passeggero la madre, mentre il guidatore è un uomo (semi-soggettiva). Il ragazzo si toglie la giacca dei Turks, mettendosela un’altra quando esce dalla porta.

È in questo istante che lo spettatore vede per la prima volta il ragazzo, senza alcun tipo di barriera o riflesso, né dello specchio né della finestra, in volto in maniera diretta, ripreso in un piano all’americana. L’amante della donna, che non conosce il figlio della donna si volta verso di lui; nel piano successivo l’istanza narrante inquadra Rocky ancora più da vicino, in mezzo primo piano. La reazione dell’amante, un uomo borghese non appartenente al loro clan, è quella di essere scioccato dalla visione del ragazzo. La madre è vestita in maniera rock, con giacca in pelle, minigonna e calze a rete; si scoprirà nel proseguo dell’opera di essere una donna molto moderna, che ha poca fiducia in se stessa, con problemi di canne/spinelli e droga; la donna comunque è molto attaccata a suo figlio Rocky e quindi ora deve andare con lui ad iscriversi alla nuova scuola e portarlo alla clinica per la visita da parte dello staff medico. Per la tematica dello specchio è interessante l’inquadratura all’interno della Looking Glass, la casa degli specchi, giostra del luna Park. Tra luci psichedeliche e musica elettronica, Rocky si vede riflesso in uno specchio deformante, che lo fa apparire bello. Facendo dal suo amico Ben chiamare Rusty, entrambi, la madre e il figlio, guardano colpiti l’effettistica della visione (prima abbiamo anche una soggettiva di Rocky da solo che guarda la sua immagine meravigliosa, non più deturpata da alcuna malattia visibile). Il ragazzo e la madre sono commossi. La tematica madre-figlio è uno dei temi forti del film; è anche presente nell’opera di Lynch, ma la madre lì è nei ricordi del protagonista.

Interessante è anche notare come l’istanza narrante stupisca lo spettatore inserendo dei fotogrammi in cui viene nascosto il volto deturpato del protagonista, dalla bellezza dei suoi capelli rossi lunghi e ondulati non intaccati dalla malattia. Due esempi sono rintracciabili nell’abbraccio con la madre alla fine del campeggio (da 1:38:23 a 1:38:30) e alla soggettiva da 1:41:01 a 1:41:05 di Ben (dopo la litigata perché si vuole trasferire nel Michigan dal padre, rinunciando al loro progetto del tour in moto per l’Europa) in cui viene ripreso da dietro. In entrambi i piani viene data importanza alla bellezza esteriore dei suoi capelli, che possono anche sembrare simili a quelli di una donna per la lunghezza.

Il legame affettivo tra Rocky e la madre in Dietro la maschera

In Mask è molto importante il legame affettivo e materno tra Rocky e la madre. Il ragazzo con lei è un libro aperto, le racconta tutto, cercando anche di farla smettere di drogarsi tramite volantini del centro anti-droga che raccoglie da scuola. La donna, molto vivace e rivoluzionaria, inizialmente non riesce a superare questa dipendenza dal fumo di spinelli e da pasticche, ma poi ce la farà ad uscirne. Non è facile infatti per Rusty convivere senza il padre del ragazzo, in un momento cruciale della sua vita, ovvero la fase adolescenziale. Sarà infatti, oltre che dal figlio, aiutata dal motociclista e sua vecchia fiamma Gar , che farà ritorno da lei, riaccendendo in loro una fiamma che non si era mai spenta. Il ritorno di Gar è anche una figura importante e un esempio per Rocky, che ammira e prende ispirazione (ad es. per il viaggio europeo in moto, che Gar ha compiuto).

Torniamo drammaturgicamente nella fase problematica della madre: a 33:05 Rocky legge una poesia a sua mamma che è piaciuta al professore di italiano, ma la madre deve prepararsi e uscire, quindi non è così concentrata sulle parole poetiche del figlio.

Queste cose sono belle

Un gelato e una torta

Una corsa sull’Harley

Le scimmie che giocano sugli alberi

La pioggia sulla lingua

E il sole che splende sul mio viso

Queste cose invece non sono belle

I buchi nei calzini

La polvere nei capelli

Niente soldi nelle mie tasche

E il sole che splende sul mio viso

Dietro la maschera

La poesia è semplice e toccante, ed è stata scritta dal vero Roy Lee “Rocky” Dennis, segno che il ragazzo aveva un’anima sensibile, in cui si contrappone la bellezza della vita alla bruttezza. Rapportato il componimento filmico agli elementi profilmici della diegesi, “una corsa sull’Harley” può essere vista come la libertà che ha stando a contatto nella famiglia dei Turks, mentre “niente soldi nelle mie tasche” la paura di non poter svolgere col suo amico Ben il viaggio in moto per timore di non avere denaro. Il sole che splende sul suo viso è invece per lui una cosa sia bella che brutta, perché anche se è felice della vita, alcune volte è difficile sopportare il peso della diversità. Infatti penserà perfino all’idea di volersi sottoporre alla chirurgia plastica perché il ragazzo capisce che nella società canonica della massa, la bellezza esteriore è molto importante e il fatto di avere il cranio e il volto deforme, avendo sedici anni, può comprometterlo nel campo dell’amore; Rocky infatti sente l’esigenza di essere contraccambiato da una ragazza, non avendone mai avuta una.

Roy di cui la storia ci ha raccontato è morto nel 1978 e il suo corpo è stato donato all’Università della California e di Los Angeles (Ucla) per studio scientifico. La speranza dei tre personaggi è che Rocky, anche se non lo possono più vedere, è ancora con loro. Dozer metterà accanto alla lapide le figurine dei giocatori del Baseball, una delle grandi passioni del ragazzo. Con un piano all’americana sulla madre, la commozione dello spettatore arriva al culmine: la mdp con uno zoom lento si avvicina su di lei e parte in voce over la poesia del ragazzo (quella che aveva letto lui alla madre nel corso del film), dall’incipit “Queste cose sono belle”, arrivando ad inquadrarla in primo piano; è il ricordo della voce di suo figlio da parte di Rusty che la emoziona, commuovendola e facendole venire le lacrime negli occhi. L’opera si chiude con una dissolvenza sul nero sulle note di Bruce Springsteen, il cantante preferito di Roy, del bellissimo brano The promised Land del 1978; da evidenziare che all’inizio dei titoli di coda l’istanza narrante ci mostra delle scene del film con il nome degli interpreti.

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