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El Jockey
Titolo originale: El jockey
Anno: 2024
Nazione: Argentina, Messico, Spagna, Danimarca, Stati Uniti d’America
Casa di produzione: Rei Pictures, El Despacho, Infinity Hill, Warner Music Entertainment, Exile, Piano, El Estudio, Snowglobe, Jacinto Films, Barraca Producciones
Distribuzione italiana: –
Durata: 96 minuti
Regia: Luis Ortega
Sceneggiatura: Luis Ortega, Rodolfo Palacios, Fabián Casas
Fotografia: Timo Salminen
Montaggio: Rosario Suárez, Yibrán Asuad
Musiche: Sune Rose Wagner
Attori: Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Daniel Giménez Cacho, Daniel Fanego, Osmar Núñez, Roberto Carnaghi, Luis Ziembrowski, Jorge Prado, Adriana Aguirre, Roly Serrano, Mariana di Girolamo
Trailer di “El Jockey”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
Dalle vibranti strade dell’Argentina proviene un’opera cinematografica che promette di lasciare il segno: “Kill the Jockey”, un film co-sceneggiato e diretto da Luis Ortega, uno dei nomi più interessanti e audaci del cinema contemporaneo argentino, già acclamato per il suo disturbante “L’angelo del crimine”. Il lungometraggio ha fatto il suo debutto in grande stile, venendo presentato in concorso all’81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, tenutasi nel settembre del 2024.
“Kill the Jockey” è un viaggio cinematografico intenso e stratificato, nato da un singolare intreccio di ispirazioni personali e letterarie. Come rivelato dallo stesso Ortega, il nucleo narrativo del film affonda le radici nella sua esperienza di genitore, nell’incontro inaspettato con un vagabondo e nella potente suggestione del romanzo “Il vagabondo delle stelle” di Jack London.
La presentazione in concorso al prestigioso Festival di Venezia 2024 segna un momento cruciale per “Kill the Jockey”, proiettandolo immediatamente sotto i riflettori della critica e del pubblico internazionale. In occasione della 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, un evento collaterale di rilievo si è svolto nella suggestiva cornice di Isola Edipo. L’iniziativa, promossa da Edipo Re sotto la direzione artistica di Silvia Jop, in sinergia con l’Università degli Studi di Padova e con la partecipazione di My Movies, ha visto la prestigiosa consegna del Premio per l’Inclusione e la Sostenibilità Edipo Re. Questo riconoscimento sottolinea l’importanza crescente di tematiche cruciali come l’inclusività e la sostenibilità all’interno del panorama cinematografico contemporaneo, evidenziando opere e personalità che si distinguono per la loro sensibilità verso tali valori.
Trama di “El Jockey”
Remo Manfredini è un fantino carismatico e tormentato, una leggenda nel mondo delle corse ippiche, ma la sua brillante carriera è minacciata da una profonda tendenza all’autodistruzione. Questa oscurità interiore si riflette in comportamenti rischiosi, legati a dipendenze e a una gestione problematica della propria vita, che iniziano a incrinare il suo rapporto con Abril, la fidanzata. Abril rappresenta un fragile legame con una possibile stabilità, ma viene trascinata nel vortice autodistruttivo di Remo.
Nel giorno della gara più cruciale della sua vita, una competizione che potrebbe finalmente saldare i suoi debiti con Sirena, un pericoloso boss mafioso, un evento drammatico sconvolge tutto. Remo è vittima di un grave incidente in pista, un punto di rottura che va oltre il dolore fisico. Invece di affrontarne le conseguenze e i suoi obblighi, sceglie di scomparire dall’ospedale e si rifugia nell’anonimato delle strade di Buenos Aires.
Questa fuga rappresenta il tentativo disperato di liberarsi non solo dai debiti e dal dolore fisico, ma soprattutto dal peso della sua identità di fantino leggendario, ormai legata indissolubilmente alla sua autodistruzione. Errando senza meta per la città, libero dal suo passato e dal suo nome, Remo intraprende un inatteso viaggio alla scoperta di sé. Lontano dai riflettori delle corse e dalle pressioni del suo ambiente, inizia a esplorare la possibilità di reinventarsi, di dare un nuovo significato alla sua esistenza e di capire chi sia veramente al di là del ruolo che lo ha definito per tutta la vita.
Recensione di “El Jockey”
Il film nasce da una domanda che ossessiona il regista e conseguentemente il pubblico in sala: chi siamo davvero, al di là delle maschere, dei ruoli e delle identità che assumiamo per sopravvivere?
Remo Manfredini è il pretesto per esplorare quel conflitto eterno tra ciò che siamo dentro e ciò che il mondo ci chiede di essere. Il suo viaggio — tragico, mistico e disperato — è quello di tutti noi: cercare libertà attraverso l’illusione dell’identità. Ma ogni identità che indossiamo porta con sé un peso, un tormento, una frattura. Remo cambia volto, nome, passato, ma resta intrappolato nello stesso enigma cioè liberarsi da sé stesso. Il film si muove sul confine tra realismo e allucinazione, tra il corpo e lo spirito, tra la corsa e l’immobilità. Buenos Aires non è solo lo sfondo: è un labirinto emotivo, una mappa della mente frammentata di Remo, popolata da fantasmi, desideri irrisolti e figure simboliche come Sirena — la personificazione del potere che ci reclama, ci possiede, ci insegue anche nei sogni.
La scelta di Nahuel Pérez Biscayart come protagonista nasce dall’esigenza di un attore capace di abitare il mistero, senza spiegazioni né difese. Nahuel non interpreta: attraversa. Il suo sguardo non cerca di comprendere, ma di percepire. Riesce a trasmettere al pubblico le sensazioni vissute dal suo personaggio, restituendo un ritratto complesso, sospeso tra spaesamento e desiderio di rinascita, con un’intensità tale da renderlo credibile anche nei passaggi più astratti.
Ortega concepisce questo film come un viaggio interiore, un atto di resa alla complessità della vita, un rituale che permette al protagonista e allo spettatore di abbandonarsi all’incertezza senza timore. Non è una narrazione che cerca di rassicurare o di offrire soluzioni, ma una danza con il mistero, con le zone d’ombra dell’esistenza, con il fragile equilibrio tra smarrimento e rivelazione. Il film si nutre del caos, lo abbraccia e lo celebra come una forza generatrice di trasformazione. I dubbi diventano alleati, l’intuizione guida ogni passo, e l’imprevedibilità della vita si rivela come l’unico vero filo conduttore. È un’esperienza cinematografica che rifiuta la staticità, che invita a lasciarsi andare, a cadere per poi forse risalire, a perdersi per riscoprirsi diversi. Alla fine, la domanda fondamentale non è chi siamo, ma quanto siamo disposti a esserlo, anche solo per un istante, senza filtri né certezze. È un inno alla vulnerabilità, alla ricerca incessante di un significato che forse sta proprio nell’accettare che nulla è definitivo.
In conclusione
El Jockey narra una storia come si attraversasse un sogno lucido, dove ogni immagine è una ferita e ogni silenzio una rivelazione. È un’opera che sfugge alle definizioni, che chiede allo spettatore di abbandonare certezze e linearità per immergersi in un viaggio intimo, visionario, a tratti disturbante. La regia ci guida tra i frammenti di un’identità in frantumi, mantenendo viva la tensione tra corpo e spirito, tra fuga e ritorno. È un film che non si esaurisce nella visione, ma continua a risuonare — come un’eco, come una domanda senza risposta — ben oltre i titoli di coda. Un’esperienza rara, che osa spingersi là dove il cinema incontra l’inconscio.
Note positive
- Approccio visionario e originale al tema dell’identità: la pellicola affronta la frammentazione del sé e la ricerca di libertà con un linguaggio simbolico e onirico, evitando luoghi comuni e offrendo una narrazione profondamente personale.
- Interpretazione magnetica di Nahuel Pérez Biscayart.
- Estetica curata e regia coraggiosa: la messa in scena, l’uso della luce e del suono, così come il montaggio ellittico, contribuiscono a creare un’atmosfera ipnotica che immerge lo spettatore in una dimensione quasi metafisica.
Note negative
- Struttura narrativa frammentaria e poco accessibile: il rifiuto di una narrazione lineare può risultare spiazzante o frustrante per parte del pubblico, rallentando il coinvolgimento emotivo nei momenti chiave.
- Ritmo diseguale e tempi dilatati: alcune sequenze perdono tensione narrativa e rischiando di spezzare il flusso emotivo del film.
- Simbolismo talvolta eccessivo o criptico: l’alto grado di astrazione e il ricorso costante a metafore possono apparire pretenziosi o forzati.
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