
I contenuti dell'articolo:
Il mio anno a Oxford
Titolo originale: My Oxford Year
Anno: 2025
Nazione: Stati Uniti d’America
Genere: Commedia, Drammatico, Sentimentale
Casa di produzione: Presque Isle Films, Screen Gems, Temple Hill Entertainment
Distribuzione italiana: Netflix
Durata: 112 minuti
Regia: Iain Morris
Sceneggiatura: Allison Burnett, Melissa Osborne
Fotografia: Remi Adefarasin
Montaggio: Victoria Boydell, Kristina Hetherington
Musiche: Isabella Summers
Attori: Sofia Carson, Corey Mylchreest, Dougray Scott, Catherine McCormack, Harry Trevaldwyn, Esmé Kingdom, Nikhil Parmar, Poppy Gilbert, Hugh Coles, Rebecca Burton
Trailer di “Il mio anno a Oxford”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
Uscito su Netflix il 1º agosto 2025, e posizionatosi immediatamente al primo posto tra i lungometraggi più visti sulla piattaforma nel corso della giornata, Il mio anno a Oxford è una commedia romantica liberamente basata sull’omonimo romanzo del 2018 scritto dall’autrice statunitense Julia May Whelan — suo debutto letterario dopo una carriera da attrice nella serie Once and Again (1999–2002) e nel film The Secret Life of Zoey (2002).
Dietro la macchina da presa troviamo Iain Morris, noto sceneggiatore e produttore inglese per aver creato, insieme a Damon Beesley, la sitcom britannica The Inbetweeners, di cui ha diretto anche alcuni episodi. Il mio anno a Oxford segna per lui il debutto alla regia in un lungometraggio. Nonostante la volontà della produzione di coinvolgerlo attivamente nel progetto, Morris non ha partecipato alla scrittura della sceneggiatura, affidata invece ad Allison Burnett (Underworld – Il risveglio, 2012; La rivincita del campione, 2007) e Melissa Osborne.
Iain Morris ha creato uno dei capisaldi della televisione britannica, The Inbetweeners. La comicità è il suo linguaggio. Era fondamentale per Marty Bowen (produttrice) coinvolgere Iain come regista, perché era convinto dell’importanza della comicità nel DNA di questo film. Una storia d’amore britannica non può esistere senza l’umorismo iconico che contraddistingue il Regno Unito. La visione di Iain ha dato vita a una storia d’amore travolgente e straziante, radicata però nel riso. In una sola scena si può amare, avere il cuore spezzato, piangere e ridere — tutto nel medesimo respiro. La risata è sempre presente, intrecciata con delicatezza lungo tutto il film, perché spesso è proprio con la risata che noi esseri umani affrontiamo l’oscurità, è così che facciamo luce sull’ombra.
– Dichiarazione di Sofia Carson
L’attrice, cantante e produttrice britannica Sofia Carson ricopre nel film anche il ruolo di protagonista, interpretando la giovane Anna De La Vega. La sua presenza nel lungometraggio, anche in veste di produttrice, segna una profonda connessione professionale con Netflix, casa di produzione e distribuzione cinematografica e seriale, con cui ha già collaborato in diverse occasioni: dalla partecipazione all’evento Tudum 2025 nel ruolo di conduttrice, al ruolo da protagonista in La lista dei miei desideri (2025) e alla sua presenza nell’action natalizio Carry-On (2024). Al suo fianco, in My Oxford Year, troviamo Corey Mylchreest, attore fortemente voluto dalla stessa Sofia Carson per il ruolo maschile principale.
Ricordo di aver visto “Queen Charlotte” ed essere rimasta affascinata dalla sua arte. È una forza straordinaria come attore. Ci siamo incontrati a Londra per il provino di chimica e, nel momento in cui è entrato nella stanza e abbiamo iniziato a leggere il copione, le scene hanno preso vita e ci siamo trasformati in Anna e Jamie — ci siamo fusi in loro. All’istante. Corey è stato un vero compagno in questa esperienza. Ha affrontato Jamie con la stessa dedizione con cui io ho affrontato Anna, ed entrambi eravamo determinati a immergerci completamente, anima e cuore, in questi personaggi e nel raccontare la loro storia d’amore.
– Dichiarazione di Sofia Carson
Trama di “Il mio anno a Oxford”
Anna, figlia di immigrati e cresciuta nella frenetica New York, approda nella tranquilla Inghilterra per trascorrere un anno sabbatico dedicato alla sua grande passione: la poesia. Nonostante ciò, il suo futuro è già scritto — un lavoro d’ufficio ben retribuito l’attende al suo ritorno (analista finanziaria da Goldamn Sachs) — e Oxford rappresenta solo una parentesi, un sogno da vivere prima di tornare alla dura realtà. Ma i suoi piani prendono una svolta inaspettata quando incontra Jamie, giovane rampollo britannico, in circostanze tutt’altro che romantiche: lui la inonda accidentalmente passando a tutta velocità con la sua auto d’epoca su una pozzanghera. Poco dopo, i due si ritrovano in un piccolo locale, dove Anna cerca rifugio per mangiare mentre Jamie si reca lì per nascondersi da una vecchia fiamma. L’incontro è tutt’altro che idilliaco, e Jamie non fa una grande impressione.
Tutto cambia quando Anna inizia a frequentare il corso di poesia tenuto da una delle sue scrittrici preferite. Quest’ultima, però, decide all’ultimo momento di non insegnare e affida il corso a uno dei suoi dottorandi: Jamie. Lo scontro iniziale tra docente e studentessa si trasforma presto in un legame profondo, capace di mettere in discussione ogni certezza — soprattutto quelle di Anna.
Recensione di “Il mio anno a Oxford”
Non so se forse guardo troppi lungometraggi, ma ormai, a forza di visionarli, riesco a comprendere con chiarezza le logiche strutturali della sceneggiatura, con i suoi snodi drammaturgici e i punti cardinali prestabiliti dalla struttura in tre atti, basata su elementi ricorrenti che si ripetono costantemente da film a film, da serie a serie, per conferire ritmo e dinamicità alla storia. Mi riferisco a quelle azioni e a quei momenti fondamentali che seguono la classica struttura aristotelica: con i suoi plot point, l’incidente scatenante (spesso situato prima dei venticinque minuti), un midpoint centrale e una risoluzione finale con climax. Oppure, usando un altro linguaggio tecnico, si può parlare dello schema narrativo del Viaggio dell’Eroe ipotizzato da Christopher Vogler, che prevede il passaggio dal mondo ordinario (in questo caso Anna De La Vega, con la sua vita a New York e le certezze sul proprio futuro) al mondo straordinario (l’incontro con la cultura londinese e con Jamie, suo opposto nel modo di leggere la vita). Alla fine, come accade nel 90% dei film, si giunge alla costruzione di un nuovo mondo ordinario, dove il mondo straordinario diventa la nuova normalità.
Il mio anno a Oxford segue in modo didascalico la struttura più canonica possibile dei tre atti di Syd Field e Vogler, come del resto fanno la maggior parte dei lungometraggi narrativi. Ma se i grandi (e talvolta anche i mediocri) riescono a muoversi all’interno di queste dinamiche con una certa originalità, nascondendo le proprie intenzioni ed evitando la prevedibilità, questa pellicola non ci riesce, rendendo palese il proprio impianto drammaturgico e tematico, sviluppando una tematica ben precisa in modo ridondante e ripetitivo, con una dose evidente di didascalismo e superficialità.
Dopo appena venti minuti, uno spettatore attento riesce a intuire con facilità la direzione narrativa del film e il suo sviluppo drammaturgico, anche a causa di alcune battute inserite nel corso della narrazione che anticipano chiaramente l’evoluzione della storia, che si avvia verso una struttura simile a quella di Love Story (1970), con le dovute divergenze e inversioni di ruolo.
Il problema principale del film è, prima di tutto, la sua scarsa originalità narrativa: tutto viene reso evidente troppo presto, privando lo spettatore del mistero interno e del colpo di scena. La sorpresa non funziona (almeno io l’avevo già intuita molti minuti prima), e così viene a mancare anche la resa emotiva del lungometraggio.
La pellicola, sia a livello di sceneggiatura che di regia, parte con il piede sbagliato: il passaggio da New York a Londra e l’intero primo atto sono raccontati con eccessiva rapidità, fino al cosiddetto incidente scatenante, che dà il via al racconto — anche questo, purtroppo, risulta molto prevedibile. Inoltre, la costruzione della cerchia di amicizie londinesi di Anna, sviluppata nel primo atto, è trattata con una notevole superficialità drammaturgica. Nel film sembra che basti uno scambio di parole, sedersi accanto a qualcuno o avere un vicino di casa (che, guarda caso, si ritrova anche nel suo corso) per trasformarlo in amico. Una scelta semplicistica, aggravata dal fatto che tutte le persone incontrate da Anna a Londra appaiono misteriosamente e forzatamente all’interno del corso universitario. Anche i personaggi secondari soffrono di una caratterizzazione superficiale: risultano macchiettistici e privi di una reale funzione narrativa. Figure come Charlie Butler sono trattate con un eccesso di stereotipi, in una narrazione che, soprattutto nel primo atto, abbonda di cliché legati sia alla cultura londinese che a quella newyorkese — sottolineando, ad esempio, l’assenza di ironia degli americani e la mancanza di storia negli Stati Uniti. Va però evidenziato che, a partire dal secondo atto, con l’inizio della relazione tra i protagonisti, la narrazione mostra un netto miglioramento. Anche le interpretazioni e la regia, inizialmente poco convincenti, crescono progressivamente, offrendo alcune sequenze di buona fattura, in particolare nel finale.
Tuttavia, è importante sottolineare che regia, sceneggiatura e fotografia mantengono un’impostazione marcatamente televisiva, lontana dalla qualità cinematografica. Nonostante ciò, il film riesce a regalare alcuni momenti romantici di discreta intensità, capaci di emozionare lo spettatore, suscitando empatia e qualche sorriso per i due protagonisti.
Ciò che manca completamente alla pellicola è la presenza del corso di poesia, e più in generale della poesia stessa. Il corso viene mostrato inizialmente, per poi scomparire rapidamente dalla scena — una scelta, dal mio punto di vista, alquanto erronea, poiché avrebbe potuto offrire maggiore peso e sostanza tematica al film.
Carpe Diem
La pellicola possiede indubbiamente un buon tema — anzi, più di uno, come la malattia del protagonista maschile — ma non riesce ad approfondirlo in modo efficace. L’unico vero momento di approfondimento avviene attraverso la lettura di una poesia e una frase pronunciata da Jamie ad Anna, che la invita ad accettare la vita per ciò che è: anche nei suoi momenti più duri e caotici, poiché è proprio lì che risiede la bellezza dell’esistenza, non nei piani preimpostati, dove tutto è già deciso e stabilito.
Credo che la vita riesca a far deragliare anche i piani migliori. E sono anche dell’opinione che le parti migliori siano spesso le più incasinate
Tale frase racchiude, in modo disilluso e profondamente autentico, lo spirito più genuino del Carpe Diem. L’idea che “la vita riesca a far deragliare anche i piani migliori” suggerisce che, per quanto si possa pianificare con precisione sogni e desideri, l’esistenza conserva una sua imprevedibilità che va accolta, non combattuta — nel bene e nel male. In questo senso, la pellicola invita lo spettatore a lasciare spazio all’imprevisto, a non irrigidirsi nei propri progetti, aprendosi alle possibilità più inattese. Spesso, ciò che ci cambia davvero arriva proprio da ciò che non avevamo previsto, è questo l’insegnamento primario del film.
La seconda parte della frase — “le parti migliori sono spesso le più incasinate” — ribalta il concetto di perfezione: ciò che è disordinato, caotico, emotivamente intenso è anche ciò che ci lascia il segno e ci fa crescere. Qui il Carpe Diem non è solo “cogli l’attimo”, ma cogli l’attimo anche se è imperfetto, anche se ti scombina e ti fa paura. È un elogio del vivere autentico, dove le emozioni non sono sempre ordinate, ma sono vere.
Nel contesto della storia di Anna a Oxford, questa frase diventa una sorta di mantra esistenziale: lei arriva con un piano preciso, ma l’incontro con Jamie e l’esperienza vissuta le mostrano che la vita vera accade nei margini, nei momenti non programmati, nei sentimenti che non si possono controllare. È lì che si nasconde la bellezza, ed è in quei momenti che ha la possibilità di comprendere chi è realmente e di crescere come persona, nonostante ciò faccia male. Perché la scoperta di sé coincide spesso con momenti profondamente drammatici.
L’amore vissuto
È meglio aver amato e perso, che non aver mai amato
– Alfred Tennyson nel 1833
La poesia è stata poco o nulla utilizzata all’interno del film, ma nonostante ciò viene pronunciato un verso di una celebre poesia di Alfred Tennyson che dona spessore all’opera filmica. Una frase che, già presa singolarmente, risulta un potente aforisma poetico, una dichiarazione di coraggio esistenziale.
Nel film Il mio anno a Oxford, questa idea, espressa nella poesia del 1833, prende forma nel rapporto intenso e tormentato tra Anna e Jamie. Il loro amore non è idilliaco, ma è reale, e proprio per questo prezioso. Jamie, consapevole della propria malattia, sceglie — quando la situazione si fa più seria — di allontanare Anna, temendo di trascinarla nel dolore della sua fine. È convinto che sia meglio lasciarla andare, proteggerla dall’angoscia della perdita. Ma questo gesto, pur nato dall’amore, diventa un crocevia emotivo: la scelta tra fuggire dalla sofferenza o abbracciarla con tutto sé stessi. Ed è qui che Anna compie il vero atto di Carpe Diem. Nonostante la paura, sceglie di restare. Sceglie di vivere l’amore fino in fondo, di vivere un amore breve e fugace, non eterno, nonostante ciò che l’aspetta. Con questa decisione, Anna abbandona il controllo, rinuncia ai piani precisi e alla sicurezza di una vita prevedibile, decidendo di abbracciare la vertigine.
Perché l’amore non è solo felicità: è anche presenza, accoglienza, rischio. È meglio aver amato e sofferto, aver pianto e tremato, che non aver mai provato quella scossa che ci sveglia dal torpore. In questo senso, l’amore tra Anna e Jamie diventa incarnazione perfetta del Carpe Diem: un amore vissuto non per durare, ma per insegnare a vivere, dichiarando allo spettatore di vivere la vita nella sua totalità, di vivere ogni emozione senza timore, senza paura del dopo, ma accettando il presente, seppur bello e doloroso al tempo stesso.
In conclusione
l mio anno a Oxford si muove su binari prestabiliti, rispettando pedissequamente le strutture classiche della sceneggiatura e privando lo spettatore di autentica sorpresa. Tuttavia, nel suo percorso prevedibile e televisivo, riesce a toccare corde emotive genuine, regalando una riflessione sincera sull’amore imperfetto e sull’imprevedibilità dell’esistenza. È una storia che, pur non brillando per originalità e per fattura, invita a vivere con coraggio, anche se il viaggio è incasinato e doloroso.
Note positive
- ematica del Carpe Diem ben espressa nel secondo atto
Note negative
- Struttura drammaturgica troppo prevedibile e didascalica
- Sceneggiatura superficiale con dialoghi anticipatori
- Personaggi secondari stereotipati e poco sviluppati
L’occhio del cineasta è un progetto libero e indipendente: nessuno ci impone cosa scrivere o come farlo, ma sono i singoli recensori a scegliere cosa e come trattarlo. Crediamo in una critica cinematografica sincera, appassionata e approfondita, lontana da logiche commerciali. Se apprezzi il nostro modo di raccontare il Cinema, aiutaci a far crescere questo spazio: con una piccola donazione mensile od occasionale, in questo modo puoi entrare a far parte della nostra comunità di sostenitori e contribuire concretamente alla qualità dei contenuti che trovi sul sito e sui nostri canali. Sostienici e diventa anche tu parte de L’occhio del cineasta!
Regia |
|
Fotografia |
|
Sceneggiatura |
|
Colonna sonora e sonoro |
|
Interpretazione |
|
Emozione |
|
SUMMARY
|
3.0
|