La camera di consiglio (2025). I giurati del Maxiprocesso di Palermo

Recensione, trama e cast film La camera di consiglio di Fiorella Infascelli. Un’opera intimistica che racconta il lato umano dei giudici chiamati a emettere una sentenza storica contro Cosa Nostra.

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La camera del consiglio - Credit. Notorius Pictures - Immagine ricevuta a uso editoriale da Gargiulo&Polici Communication
La camera di consiglio – Credit. Notorius Pictures – Immagine ricevuta a uso editoriale da Gargiulo&Polici Communication

Trailer di “La camera di consiglio”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Presentato in anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Freestyle, il 18 ottobre 2025 alle ore 21 presso il cinema MAXXI, La camera di consiglio è l’undicesimo lungometraggio della cineasta e sceneggiatrice italiana Fiorella Infascelli, che ritorna dietro la macchina da presa quasi dieci anni dopo aver diretto Era d’estate, film del 2016 con Francesco Acquartoli e Giovanni D’Aleo, incentrato sulle vicende storiche dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali, nel 1985, dopo aver subito minacce di morte da parte di Cosa Nostra, furono costretti a isolarsi con le loro famiglie sull’Isola dell’Asinara, protetti da una scorta militare.

Dunque, fra Era d’estate e La camera di consiglio si individua una connessione profonda a livello drammaturgico: con la pellicola del 2025 Infascelli decide di trattare in maniera intimista il Maxiprocesso di Palermo alla mafia, un procedimento con ben 475 imputati che si svolse dal 10 febbraio 1986 fino al 30 gennaio 1992, giorno della sentenza emessa dal giudice Alfonso Giordano — una pronuncia storica che portò, in primo luogo, al riconoscimento giuridico dell’esistenza, nello Stato italiano, di un’organizzazione denominata Cosa Nostra e, dunque, all’inquadramento dei reati di mafia.

Alla fine del processo, ben diciannove imputati vennero condannati all’ergastolo — fra cui Totò Riina — mentre furono comminate pene detentive per un totale di circa 2.665 anni di reclusione. Alla sceneggiatura di questo lungometraggio, capace di mettere in luce un evento di grande importanza storica, troviamo Fiorella Infascelli e Mimmo Rafele, con la collaborazione di Francesco La Licata e di Pietro Grasso, giudice a latere del Maxiprocesso.

Nei ruoli dei protagonisti troviamo Sergio Rubini (La stazione, 1991; La stoffa dei sogni, 2017; Amnèsia, 2002), Massimo Popolizio (La banda dei Babbi Natale, 2010; I predatori, 2020; Eravamo bambini, 2024), oltre a Betti Pedrazzi, Roberta Rigano, Anna Della Rosa, Stefania Blandeburgo, Rosario Lisma e Claudio Bigagli. La pellicola arriva nei cinema italiani, grazie a Notorious Pictures, dal 20 novembre 2025.

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Trama di “La camera di consiglio”

Nel novembre 1987, all’interno del carcere dell’Ucciardone di Palermo, otto giurati — quattro uomini e quattro donne — vengono blindati in un appartamento-bunker. Per oltre un mese vivono in totale isolamento, senza alcun contatto con l’esterno, persino senza vedere il personale addetto alla preparazione dei pasti. La loro missione è decidere condanne e assoluzioni per 470 imputati del Maxiprocesso di Palermo, il più grande processo penale mai celebrato in Italia. 

La vicenda si svolge in un clima di claustrofobia e tensione crescente: sei persone comuni, insieme a due giudici, sono costrette a convivere in spazi ristretti, affrontando il peso di una responsabilità storica. Ogni giorno si confrontano con migliaia di pagine di atti, con testimonianze e prove raccolte in anni di indagini, e con il timore costante di sbagliare o di mettere a rischio la propria vita una volta emessa la condanna. La camera di consiglio diventa così un microcosmo chiuso, dove emergono dubbi morali, conflitti personali e momenti di fragile solidarietà. Al centro della narrazione si collocano il Presidente della giuria Alfonso Giordano (Sergio Rubini) e il Giudice a latere Pietro Grasso (Massimo Popolizio), figure che guidano il lavoro dei giurati popolari, fornendo loro tutti gli elementi necessari per poter emettere sentenze di ergastolo, di assoluzione o di condanna con pene detentive di diversa entità.

Recensione di “La camera di consiglio”

Un film senza dubbio importante, una pellicola che cerca di mettere in luce un evento di estrema rilevanza mondiale (non soltanto italiana), poiché il Maxiprocesso, benché non fosse il primo processo contro la mafia, rappresentò il primo grande procedimento collettivo che riconobbe ufficialmente — e senza possibilità di ritorno — l’esistenza di Cosa Nostra come organizzazione unitaria, verticistica e profondamente radicata nel tessuto socio-economico del Sud Italia e oltre.

Fiorella Infascelli non sceglie di trattare l’evento storico dall’interno dell’aula di tribunale, ponendo al centro della narrazione la voce degli avvocati o dei mafiosi e ricostruendo due anni di dibattimento. Al contrario, decide di affrontare l’argomento attraverso un punto di vista marcatamente intimistico e meno noto alla grande Storia: il mese e poco più in cui otto individui, diversi l’uno dall’altro, si ritrovarono a convivere fianco a fianco, senza alcun contatto con la società esterna e con i propri familiari, per dare forma a una sentenza giudiziaria contro Cosa Nostra. Una sentenza che doveva essere priva di qualsiasi interferenza esterna, così da garantire un processo di giustizia corretto e impermeabile alle pressioni mafiose, fondato esclusivamente sulla giustizia più profonda e pura. Attraverso questa prospettiva, la regista costruisce una narrazione centrata sul racconto interiore di questi otto individui, tentando di restituire i loro stati d’animo nei giorni in cui furono chiamati a compiere una sentenza storica. La cineasta si concentra sui personaggi che abitarono il bunker del carcere dell’Ucciardone di Palermo, mettendo in luce storie, caratteri, dubbi e paure, in particolare quelle del giudice Alfonso Giordano, figura che funge da motore del film, da perno centrale e probabilmente anche da protagonista stesso.

Se il Presidente, ben interpretato da Sergio Rubini, risulta essere il fulcro della narrazione, il ruolo di spalla è senza ombra di dubbio ricoperto da Massimo Popolizio nel ruolo di giudice a latere, personaggio spesso portatore di opinioni contrapposte al primo. Nella strutturazione drammaturgica del film, invece, i sei giudici popolari — Franca, Renato, Maria Nunzia, Lidia, Francesca e Luigi — si rivelano figure importanti per la dinamica narrativa, pur restando personaggi di sfondo. Alcuni di loro emergono in momenti scenici più incisivi, come accade per il personaggio interpretato da Betty Pedrazzi, ma nel complesso rimangono ancorati a una caratterizzazione iniziale che non si sviluppa ulteriormente, lasciandoli, in definitiva, come figure piuttosto superficiali.

Il film, interamente ambientato in spazi chiusi, possiede un’impostazione marcatamente teatrale, dove la cineasta pone al centro le interpretazioni dei suoi personaggi, sacrificando in parte la regia e i cambi di prospettiva all’interno delle scene. La regia appare talvolta quasi scolastica, didascalica e televisiva. Tuttavia, questa scelta di conferire un’impronta teatrale alla pellicola funziona nel complesso, consentendo a Sergio Rubini e Massimo Popolizio di esprimere al massimo i loro talenti attoriali da palcoscenico. Proprio attraverso questa connessione con il mondo teatrale e poco artificioso, la narrazione rinuncia a un vero e proprio lavoro di ricerca musicale, lasciando ampio respiro ai rumori ambientali e ai silenzi che accompagnano le discussioni. Ciò che probabilmente poteva essere sviluppato meglio riguarda la sceneggiatura, con dialoghi talvolta ridondanti che, alla lunga, non permettono di entrare pienamente nel cuore del Maxiprocesso, oltre che a farsi empatizzare con questi personaggi.

Particolarmente interessante è la diatriba sulla condanna indiziaria, che mette in scena due punti di vista contrapposti: da un lato il Presidente, che afferma come senza una prova certa, nonostante indizi consistenti, non si possa condannare una persona; dall’altro il giudice a latere, che sostiene l’opposto, ovvero che, data l’impossibilità di ottenere prove schiaccianti, occorra dare maggiore peso alle prove indiziarie. Questa contrapposizione risulta l’elemento più stimolante del film, peccato che venga introdotta già nei primi quindici minuti, perdendo così parte del suo potenziale di tensione narrativa nel prosieguo della vicenda, che alla fin dei conti racconta poco o niente.

In conclusione

Il film di Fiorella Infascelli sul Maxiprocesso si configura come un’opera di grande rilevanza civile e storica, capace di restituire allo spettatore il clima di isolamento e tensione vissuto dai giudici chiamati a emettere una sentenza epocale. La scelta di concentrarsi sul lato umano e intimistico, piuttosto che sulla ricostruzione processuale, permette di cogliere la dimensione psicologica di un evento che ha segnato la storia italiana e mondiale. Pur con una regia talvolta didascalica e una sceneggiatura che fatica a mantenere alta la tensione, il film trova la sua forza nelle interpretazioni di Sergio Rubini e Massimo Popolizio e nella contrapposizione etica tra prova certa e prova indiziaria. Un’opera che, pur con i suoi limiti, contribuisce a mantenere viva la memoria di un momento cruciale nella lotta alla mafia.

Note positive

  • Scelta di un punto di vista intimistico e originale
  • Interpretazioni solide di Sergio Rubini e Massimo Popolizio

Note negative

  • Regia talvolta scolastica e televisiva
  • Dialoghi ridondanti e poco incisivi
  • Personaggi secondari poco sviluppati

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.1
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.