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Laguna
Titolo originale: Laguna
Anno: 2025
Genere: documentario
Casa di produzione: Studija Kinema, KinoElektron
Co-produzione: so-cle, Arte France Cinéma
Durata: 102 minuti
Regia: Šarūnas Bartas
Sceneggiatura: Šarūnas Bartas, Geoffroy Grison
Fotografia: Lukas Karalius, Alina Lu
Montaggio: Lucie Jego, Alina Lu
Musiche: Gabriele Dikčiūtė
Attori: Ina Marija Bartaitė, Šarūnas Bartas, Una Marija Bartaitė, Bryan Ordonez Ruiz
Trailer di “Laguna”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
Un film profondamente necessario per il cineasta lituano Sharunas Bartas, diplomatosi alla scuola di cinema VGIK di Mosca e fondatore di Studija Kinema, il primo studio cinematografico indipendente in Lituania. Laguna nasce da una ferita personale: il 7 aprile 2021, all’età di 24 anni, sua figlia Ina Marija Bartaitė — limpido talento del nuovo cinema lituano, già apparsa in Visions of Europe (2004), Peace to Us in Our Dreams (2015), Walden (2020) di Bojena Horackova e Mon légionnaire (2021) di Rachel Lang — perde la vita in un tragico incidente stradale. Mentre tornava a casa in bicicletta, in una serata piovosa, viene investita da un guidatore in stato di ebbrezza che viaggiava a 123 km/h, ben oltre il limite consentito di 76 km/h.
La morte di Ina sconvolge profondamente la famiglia: la madre Yekaterina Golubeva e il padre Sharunas Bartas, che con la figlia condivideva non solo un legame umano ma anche artistico, quasi fossero una sola voce creativa. Il dolore, la perdita, l’assenza: tutto si trasforma in un viaggio di riconciliazione con l’esistenza, che Bartas intraprende insieme alla figlia più piccola, Una Maria Bartaite, in Messico. Lì, dove Ina aveva scelto di vivere prima della sua morte, il regista riprende in mano un progetto filmico iniziato anni prima con lei, trasformandolo radicalmente.
Quel progetto diventa Laguna, un documentario che si fa atto di trasmissione, di elaborazione del lutto, di rinascita. Presentato come evento speciale alla 22ª edizione delle Giornate degli Autori della 82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film ha avuto la sua prima proiezione il 28 agosto 2025 alle ore 11:00 presso la Sala Perla del Lido di Venezia. Successivamente è stato reso disponibile dal 3 al 7 settembre 2025 su MyMoviesOne, all’interno del Biennale Cinema Channel.
Laguna è un’opera che intreccia documentario e finzione, memoria e paesaggio, dolore e tenerezza. Tra le mangrovie martoriate dagli uragani, che ogni volta rinascono, Bartas e Una Marija affrontano il lutto con delicatezza, cercando un nuovo inizio. Il film diventa così un tributo, una catarsi, un modo per restare legati a ciò che è stato — e per continuare a vivere.
Come uomo e come regista, potrei dividere la mia vita in due parti. La prima: quando non avevo ancora perso la mia amata figlia. La seconda: dopo la sua scomparsa. Per diversi anni, solo un filo sottilissimo mi ha tenuto legato a questo mondo. Ed è grazie agli sforzi dei miei cari – e a quelli miei – che non ho spezzato quel filo. Dopo anni di riprese in Messico, questo film è cambiato radicalmente rispetto all’idea originale. È comprensibile. Quel progetto era iniziato quando mia figlia Ina Marija era ancora viva. Una volta terminate le riprese – o meglio, appena ho smesso di fare qualcosa di cui non avevo più bisogno –, improvvisamente tutto è cambiato. Ogni cosa è ricominciata: con Una Marija, la mia figlia più piccola, abbiamo scoperto un altro inizio, la seconda parte della mia vita. Con il suo aiuto, e con il sostegno dei miei cari, sono tornato a fare quello che avevo sempre realizzato nei film precedenti. Mostrare alle persone i miei sentimenti con assoluta sincerità. E ho ritrovato la mia strada.
Dicharazione del regista
Trama di “Laguna”
Sulla costa selvaggia del Pacifico messicano, Una e suo padre Sharunas si mettono in cammino per ritrovare le tracce di Ina Marija, sorella e figlia scomparsa prematuramente, che aveva scelto quel luogo come rifugio esistenziale. Il viaggio si trasforma in un gesto di memoria e riconciliazione, immerso nella bellezza fragile e tenace delle mangrovie, in una laguna ferita dagli uragani ma capace di rinascere ogni volta.
Nel cuore di questo paesaggio ciclico e indomito, padre e figlia si confrontano con il dolore, lasciando che la natura accompagni il loro lutto. Il regista Sharunas Bartas, in un’opera profondamente personale, espone le proprie emozioni con pudore e intensità, trasformando il film in un atto di trasmissione affettiva. La narrazione si radica nei ritmi della terra e del mare, dove la perdita non è fine, ma parte di un ciclo più ampio, in cui la vita continua a rigenerarsi.
Recensione di “Laguna”
La vita e la morte. Un ciclo continuo, un ciclo infinito di nascite e di morti, in cui noi non siamo altro che granelli di sabbia dinanzi a una natura vasta, sconfinata e ignota, che procede ininterrottamente per la sua strada, fregandosene delle necessità e delle volontà degli esseri viventi — degli animali, uomini o tartarughe, che vivono lungo i fiumi di piccoli villaggi cittadini o nelle grandi metropoli, siano esse occidentali o orientali. La natura avanza nel suo cammino, in un susseguirsi costante di nascita e di morte, dove, nella sua essenza più primordiale e più autentica, l’esistenza — la ricerca della sopravvivenza — non possiede nulla di dolce o delicato, ma si rivela come qualcosa di duro e complicato, che ci costringe a lottare con i denti per rimanere ancorati alla terra, alla vita. Ci obbliga a convivere, entro questo gioco del destino, con la natura stessa, accettandola nella sua totalità: nella sua durezza e nella sua brutalità.
La natura, difatti, con la sua forza impetuosa, altro non è che portatrice di vita e di morte, dandoci e togliendoci le fondamenta esistenziali al medesimo tempo, risultando al contempo madre generosa e carnefice crudele. Il film, attraverso un percorso drammaturgico che evita il conflitto e si pone essenzialmente come riflessione filosofica sulla vita e sulla morte, ci racconta — attraverso immagini visive fotograficamente apprezzabili — questa dualità dell’esistenza di ogni forma di vita, fatta costantemente di una lotta silente ma potente tra la vita e la morte. Ci mostra come la vita venga spezzata dalla morte, ma come, al medesimo tempo, la morte sia portatrice di cambiamento e, con essa, di nuova vita.
Per raccontarci questa riflessione filosofica, il cineasta ci conduce in Messico, in un piccolo villaggio situato dinanzi a una laguna, in un mondo primordiale e antico, che fuoriesce da ogni logica tecnologica e ci riconnette con la semplicità della vita — un mondo fatto di fatica, umanità e comprensione dell’esistenza a 360 gradi. Attraverso la rappresentazione delle forme di vita che crescono e si sviluppano lungo questa laguna, il regista costruisce un discorso sulla vita e sulla morte, partendo dal racconto della complicata esistenza delle tartarughe marine, che incontriamo all’inizio del film nell’atto di depositare nella sabbia le loro uova, prima di ritornare nel mare. Una sequenza emozionante, che ci mostra in maniera nitida la forza della vita stessa: l’atto potente di un essere vivente nel dare vita. In questa scena, la regia si sofferma sul gesto ancestrale della deposizione, sottolineando il legame tra istinto e perpetuazione della specie — un momento che richiama la sacralità del ciclo naturale.
Nell’ultima parte del lungometraggio, assistiamo all’antitesi di questa scena. Se prima abbiamo visto la fatica di una tartaruga nel generare vita, in tutta la sua bellezza, negli ultimi quindici minuti la fotografia inquadra i cadaveri di queste tartarughe, i loro scheletri privi di vita, abbandonati su una riva sabbiosa della laguna dopo una burasca, una sorta di uragano. Se con tale inquadratura abbiamo fatto esperienza della morte, della malvagità della natura, a fine pellicola facciamo esperienza della rinascita, comprendendo la ciclicità dell’esistenza.
Dove le madri sono morte, ora è il tempo delle piccole tartarughine di nascere e lottare, fin da subito, per vivere. Così, le piccole tartarughe iniziano a sbucare dalla sabbia per immettersi nel mare e dare inizio alla loro storia. Il regista intende dunque raccontarci come, nonostante tutto — nonostante la durezza dell’esistenza — la vita continui, la vita continui ad andare avanti.
Sharunas Bartas e il lutto nel paesaggio naturale: memoria, morte e rinascita
Accanto a questa riflessione sul mondo, e dinanzi a questa cornice che esalta la bellezza e la brutalità della natura — conferendo al film un suo lato ecologista e ambientalista — si sviluppa la storia personale di Sharunas Bartas, che, accompagnato dalla figlia più piccola, Una Marija, si immerge in quei luoghi che hanno segnato parte della vita della figlia maggiore, al fine di ricordarla, di restarle vicino in qualche modo, e di mantenerne viva la memoria.
I due, avvolti dalla natura e dalla laguna, si ritrovano a convivere entro un mondo primordiale, privo di comfort ma potente ed emozionante, che li conduce a entrare in contatto profondo con la natura stessa. In questo viaggio d’immersione naturalistica, cercano di superare il trauma della morte della figlia e sorella maggiore, tentando di comprendere — o almeno di decifrare — l’enigma dell’esistenza: la morte, l’elemento ignoto che tutti temiamo, tra ateismo e bisognoso religioso.
Così il cineasta costruisce un dialogo interiore ed esteriore, volto a elaborare il trauma del lutto per poter andare avanti con la propria vita, ma facendo vivere in sé la memoria della persona perduta. Perché finché c’è memoria, quella persona continua a vivere in noi, nei nostri gesti, nel nostro modo di porci all’esistenza. La memoria diventa quindi un atto di resistenza e di amore. Come dichiara l’autore in un momento emozionante e profondamente toccante — in cui il regista parla della morte e della figlia perduta dinanzi a Una Marija, per ricordarla — è meglio aver vissuto anche solo per poco con Ina Marija Bartaitė, conoscendola e amandola, che non aver mai conosciuto una persona del genere. Questa affermazione, semplice ma potentissima, racchiude il senso stesso del film: la vita, anche se breve, è preziosa per ciò che lascia in chi resta.
Il lutto, unito alla memoria, diventa l’elemento fondante per rinascere e per superare il trauma, guardandolo dal lato più positivo possibile: accettandolo, ma senza dimenticarlo. Come fanno gli animali e gli abitanti di quel villaggio, che — nonostante tutto, nonostante la morte che li accerchia — continuano ad andare avanti. In questo gesto di resilienza, il film ci mostra come la memoria non sia solo un atto nostalgico, ma una forma di continuità vitale.
Analisi drammaturgica del film: poesia, lutto e squilibri narrativi
La pellicola è indubbiamente un film toccante, capace di unire poesia e pesantezza emotiva a momenti più leggeri, soprattutto quando osserviamo il mondo attraverso gli occhi innocenti di Una Marija, mentre gioca con un bambino del luogo o mentre mangia i marshmallow, dichiarando con spontaneità: “La cosa migliore del mondo”. Questi frammenti di quotidianità infantile, pur nella loro semplicità, diventano contrappunti emotivi che alleggeriscono il peso tematico del film, offrendo allo spettatore una pausa contemplativa e un accesso più diretto alla dimensione umana del racconto.
Tuttavia, il lungometraggio documentaristico — nonostante la fotografia incantevole, che si fa spesso pittorica nella sua resa della laguna, e nonostante l’inserimento di sequenze in cui vediamo e ascoltiamo Ina, raccontata attraverso una fotografia in bianco e nero che ne accentua il carattere memoriale — presenta alcune problematiche drammaturgiche che ne compromettono la coesione interna. Il ritmo filmico risulta disomogeneo, alternando momenti di forte intensità emotiva a lunghi passaggi di staticità narrativa, che rallentano la progressione del racconto.
Il film si muove su due linee drammaturgiche parallele: da un lato, la storia degli abitanti della laguna, con le loro vite scandite dalla natura e dalla fatica quotidiana; dall’altro, la vicenda intima e dolorosa di un padre che cerca di elaborare il lutto per la figlia scomparsa. Questa doppia traiettoria, sebbene coerente con l’intento filosofico del film — che mira a riflettere sulla concretezza dell’esistenza e sulla ciclicità della vita — non trova una sintesi efficace a livello sceneggiativo. Il tema del lutto, pur presente fin dalle prime sequenze, viene sviluppato in modo frammentario e acquisisce un peso narrativo solo nell’ultima parte del film, dove la densità degli eventi cresce improvvisamente, creando uno squilibrio rispetto alla lentezza e alla rarefazione della prima metà.
Nei primi 35 minuti, gli unici momenti realmente significativi sono le riprese iniziali della tartaruga marina, che introducono il tema della vita e della sua fragilità, e alcune scene che delineano i due protagonisti e il loro rapporto con il dolore. Il resto della prima parte è occupato da sequenze che, pur avendo un valore documentaristico e antropologico — come le interviste agli abitanti del villaggio — non contribuiscono in modo sostanziale alla costruzione drammaturgica. Questi inserti, per quanto autentici e visivamente suggestivi, appaiono come digressioni che interrompono il flusso narrativo, generando una dispersione tematica.
Particolarmente emblematiche sono le scene in cui un uomo anziano del luogo viene ripreso mentre lavora e riflette sulla propria esistenza, dichiarando con serenità di attendere la morte come un sollievo. Sebbene queste parole siano cariche di verità e offrano uno spunto potente sulla condizione umana, il loro inserimento nel film risulta poco contestualizzato e rischia di apparire come un elemento fuori asse rispetto alla linea principale del racconto. In un’opera che ambisce a una riflessione esistenziale profonda, è fondamentale che ogni frammento narrativo sia armonizzato con il nucleo tematico, altrimenti si rischia di compromettere la tensione emotiva e la coerenza interna.
Il film oscilla tra il desiderio di documentare e quello di raccontare, tra l’urgenza del lutto e la contemplazione della natura. Ma questa oscillazione, se non calibrata con precisione, può generare una frattura tra forma e contenuto, tra intenzione poetica e struttura narrativa. È proprio in questo spazio di tensione che il film trova la sua bellezza imperfetta — una bellezza che, pur non priva di limiti, riesce comunque a toccare corde profonde dello spettatore.
In conclusione
Il film di Sharunas Bartas è un’opera che si muove tra la contemplazione e il dolore, tra la brutalità della natura e la tenerezza della memoria. È un viaggio esistenziale che non cerca risposte, ma accetta la ciclicità della vita e della morte come parte integrante dell’essere. Pur con una struttura drammaturgica disomogenea e un ritmo che fatica a trovare equilibrio, il film riesce a toccare corde profonde, raccontando il lutto non come fine, ma come possibilità di rinascita. Un’opera che chiede pazienza, ma che ripaga con immagini di rara intensità e con una riflessione sincera sull’essenza dell’esistenza.
Note positive
- Fotografia poetica e visivamente potente
- Riflessione filosofica sulla vita e sulla morte
- Sequenze naturalistiche di grande impatto emotivo
- Presenza toccante di Una Marija e Ina Marija Bartaitė
Note negative
- Ritmo narrativo lento e disomogeneo
- Struttura drammaturgica poco equilibrata
- Prima parte eccessivamente statica
- Interviste secondarie e poco funzionali
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Regia |
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Fotografia |
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Sceneggiatura |
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Colonna sonora e sonoro |
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Emozione |
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SUMMARY
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3.6
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