Monster: La storia di Ed Gein (2025). Rilettura disturbante di una figura reale

Recensione, trama e cast della serie Monster: La storia di Ed Gein (2025). Charlie Hunnam interpreta Ed Gein in una rilettura mitologica tra orrore, empatia e invenzione narrativa.

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Monster: The Ed Gein Story. Charlie Hunnam as Ed Gein in episode 302 of Monster: The Ed Gein Story. Cr. Courtesy Of Netflix © 2025
Monster: The Ed Gein Story. Charlie Hunnam as Ed Gein in episode 302 of Monster: The Ed Gein Story. Cr. Courtesy Of Netflix © 2025

Trailer di “Monster: La storia di Ed Gein”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Edward Theodore Gein, nato il 27 agosto 1906 a La Crosse, Wisconsin, è considerato una delle figure più inquietanti e simbolicamente potenti nella storia della criminologia americana. Sebbene formalmente accusato di soli due omicidi, la sua notorietà non deriva dal numero delle vittime, ma dalla natura rituale e disturbante dei suoi crimini. Gein trasformò la sua abitazione in un vero e proprio teatro dell’orrore, dove la manipolazione dei corpi umani — tra oggetti d’arredo ricavati da resti anatomici e abiti cuciti con pelle umana — rivelava una psiche tormentata da repressioni sessuali, fantasmi familiari e visioni necrofile. Questa dimensione visiva e simbolica ha avuto un impatto profondo sull’immaginario criminale e culturale del Novecento, influenzando non solo il cinema horror ma anche una generazione di serial killer attratti dal suo modus operandi. Figure come Ted Bundy, Jeffrey Dahmer e John Wayne Gacy hanno mostrato, in modi diversi, ossessioni e rituali che riecheggiano l’universo mentale di Gein — dalla conservazione dei corpi alla costruzione di identità alternative attraverso la violazione della carne. La sua figura è diventata un punto di riferimento oscuro, un archetipo della devianza americana, capace di incarnare il confine labile tra follia, solitudine e violenza ritualizzata.

Cresciuto in un ambiente familiare profondamente disfunzionale, Ed trascorse gran parte della sua infanzia nella fattoria isolata di Plainfield, sotto il controllo assoluto della madre Augusta, donna religiosa fanatica che lo educò nel terrore del peccato, della sessualità e del mondo esterno. La visione distorta di Ed riguardo la femminilità, la mascolinità e la moralità fu plasmata da questa figura materna dominante, che considerava tutte le donne — eccetto se stessa — come creature impure e corrotte, obbligandolo a non avere figli e a reprimere ogni impulso sessuale.

Dopo la morte del padre alcolizzato nel 1940 e del fratello Henry nel 1944 — in circostanze mai del tutto chiarite — Ed rimase solo con Augusta fino alla sua morte nel 1945. Questo evento segnò una frattura definitiva nella sua psiche. Isolato dal mondo, Gein iniziò a coltivare ossessioni morbose legate alla morte, alla decomposizione e all’identità sessuale. Spinto da visioni allucinatorie e da un lutto non elaborato, cominciò a frequentare cimiteri locali di notte, profanando tombe e raccogliendo resti umani, che utilizzava per creare oggetti domestici e abiti macabri, tra cui maschere e vestiti fatti di pelle umana. Il 17 novembre 1957, la scomparsa della negoziante Bernice Worden portò le autorità a perquisire la casa di Gein, dove scoprirono una scena da incubo: teschi usati come ciotole, mobili rivestiti con pelle umana, organi conservati in contenitori, e il corpo mutilato della donna appeso come una carcassa da macello. Formalmente accusato di due omicidi — Bernice Worden e Mary Hogan, scomparsa nel 1954 — Gein fu sospettato di molte altre sparizioni e crimini, almeno sei, anche se non fu mai processato per la maggior parte di essi.

Dichiarato legalmente infermo, Edward Theodore Gein fu internato prima al Central State Hospital for Criminally Insane e successivamente al Mendota Mental Health Institute, dove rimase fino alla sua morte, avvenuta il 26 luglio 1984. La sua figura, come già evidenziato, ha avuto un impatto profondo sull’immaginario collettivo, diventando fonte d’ispirazione per alcuni dei personaggi più iconici del cinema horror. Norman Bates in Psycho (1960), Leatherface in The Texas Chain Saw Massacre (1974) e Buffalo Bill in The Silence of the Lambs (1991) non sono trasposizioni dirette, ma riprendono elementi chiave della psicologia e delle azioni di Gein: il rapporto morboso con la madre, la manipolazione dei corpi, la confusione identitaria.

Accanto a queste pellicole, vanno evidenziati anche alcuni film “biografici” che affrontano la sua storia in modo più diretto, come Deranged – Il folle (1974), Ed Gein – Il macellaio di Plainfield (2000) ed Ed Gein: The Butcher of Plainfield (2007). A questi si aggiunge nel 2025 la serie Monster: La vita di Ed Gein, terza stagione dell’antologia Netflix ideata da Ryan Murphy, che dopo aver raccontato le vicende di Jeffrey Dahmer e dei fratelli Menendez, decide di dedicare un’intera stagione al “mostro di Plainfield”.

Il ruolo del protagonista è affidato a Charlie Hunnam, attore noto per aver interpretato Jax Teller nella serie Sons of Anarchy, e per le sue prove attoriali in La città perduta di Z (2016) e Papillon (2018). In questa stagione, Murphy compie un passo indietro, lasciando il progetto interamente nelle mani di Ian Brennan, che ricopre il ruolo di showrunner, sceneggiatore e regista di alcuni episodi, condividendo la regia con Max Winkler. Brennan aveva già collaborato con Murphy nelle precedenti stagioni, mantenendo una coerenza stilistica e narrativa che caratterizza l’intera antologia.

Distribuita su Netflix a partire dal 3 ottobre 2025, la serie ha suscitato immediatamente un forte dibattito. La rappresentazione disturbante e stratificata della figura di Gein, interpretata con intensità da Hunnam, ha diviso pubblico e critica, ma ha anche confermato la centralità del personaggio nell’evoluzione del genere horror e nella riflessione contemporanea sul true crime. La serie non si limita a ricostruire i fatti, ma esplora la psiche del protagonista, il suo rapporto con la madre, e il modo in cui la sua storia ha contaminato il cinema, la cultura pop e la percezione stessa del male.

Trama di “Monster: La storia di Ed Gein”

Nella gelida campagna del Wisconsin dei primi anni Cinquanta, Ed Gein viveva isolato in una fattoria fatiscente, circondato dai resti di una “madre” ormai deceduta ma ancora onnipresente nella sua psiche. Apparentemente innocuo, Gein celava un mondo interiore devastato da solitudine, repressione religiosa e da un’ossessione patologica per la figura materna, che lo aveva educato nel terrore del peccato e della carne, portandolo a compiere, all’interno della sua abitazione, atti anormali e oscuri, come scoprì la polizia quando entro nella sua abitazione, piena zeppa di teste e di oggetti creati con la pelle. 

La sua discesa nell’orrore prende forma quando, attraverso la sua enigmatica amica Adeline Watkins — giovane affascinata dal macabro e dalla morte — entra in contatto con immagini dell’Olocausto e con il fumetto pulp The Bitch of Buchenwald, ispirato alla figura di Ilse Koch, nota per aver creato oggetti con la pelle dei prigionieri nei campi di concentramento. Quelle visioni, filtrate da una mente già compromessa, diventano per Gein un modello da emulare: la violenza rituale, la manipolazione del corpo, la trasformazione della pelle in oggetto si fondono con le sue fantasie represse e con il desiderio di incarnare un’identità alternativa.

Spinto da queste suggestioni, dal legame ambiguo con Adeline e dall’ossessione per la madre deceduta, Ed intraprende un percorso sempre più oscuro: profana tombe, disseziona cadaveri, compie atti di necrofilia e infine uccide. Il suo universo mentale, alimentato da visioni pulp e traumi familiari, trasforma la sua casa in un museo dell’orrore, e la sua figura in un archetipo del male americano.

Recensione di “Monster: La storia di Ed Gein”

Charlie Hunnam è stupefacente. Se Evan Peters, nell’interpretare Jeffrey Dahmer, aveva dato prova di un talento attoriale immenso, realizzando probabilmente una delle sue prove più memorabili, Hunnam — il Jax Teller di Sons of Anarchy — non è da meno. Anzi, nel vestire i panni dell’oscuro Ed Gein, l’attore inglese affronta una prova complessa e tutt’altro che semplice, riuscendo a portarla a termine con una precisione assoluta. Si dimostra un interprete completo, capace di incarnare personaggi lontani dai generi d’azione, fantascienza o avventura, e di muoversi con naturalezza dentro le emozioni più sottili e difficili da raccontare.

Ed Gein non è un personaggio facile da trattare. Il rischio di cadere in una rappresentazione macchiettistica era costante, ma Hunnam riesce a evitarlo con intelligenza e misura, rendendo il personaggio vivo sullo schermo, capace di riempire lo spazio scenico con la sola espressività e con gesti corporei minimi. Parla più con il volto che con il corpo, e proprio grazie alla mimica facciale riesce a costruire una figura tridimensionale, frutto di un lavoro attoriale di sottrazione che lo allontana da ogni stereotipo visivo.

La sua interpretazione riesce persino a compensare alcune debolezze della sceneggiatura, che talvolta tende a raccontare Ed con una certa rigidità, riducendolo a una semplice diagnosi di malattia mentale. Le sfumature caratteriali emergono più dalla performance di Hunnam che dalla scrittura stessa, che rischia di appiattire la complessità del personaggio. L’attore supera queste fragilità drammaturgiche con un lavoro minuzioso, trasformandosi completamente e diventando, in tutto e per tutto, il Macellaio di Plainfield. È irriconoscibile sia a livello facciale che fisico, anche grazie al trucco e al make-up adottato, che cancellano ogni traccia del volto di Hunnam per lasciare spazio a quello di Gein.

Il lavoro sulla gestualità è calibrato, il controllo facciale è impressionante: siamo di fronte a un personaggio che comunica attraverso espressioni ingenue, infantili, disturbanti, più che con le parole. E proprio nella pronuncia, Hunnam compie un ulteriore salto di qualità. Il modo in cui articola le frasi, il ritmo del parlato, la scelta delle inflessioni — tutto è studiato con rigore. Per questo, la visione in lingua originale è fortemente consigliata: solo così si coglie appieno la profondità del lavoro vocale e fonetico dell’attore.

Ho letto tutti i libri scritti su Ed Gein, e a dire il vero non ne ho trovati molti molto utili. Erano tutti un po’ grossolanamente sensazionalistici, pezzi grotteschi e incredibilmente cupi. Sono riuscito ad accedere all’unica registrazione nota di Ed Gein, realizzata due giorni dopo il suo arresto. Si tratta di un’intervista di circa un’ora e dieci minuti con lui, mentre è in custodia. Sono riuscito a estrarre da lì gran parte della musicalità, della sua inflessione, della sua scelta delle parole e della sua energia. 

Dichiarazione di Charlie Hunnam

Adeline Watkins: una costruzione drammaturgica irreale di un personaggio reale

Anche gli altri attori offrono prove attoriali solide, ma nessuno raggiunge la profondità interpretativa di Charlie Hunnam. Suzanna Son, in particolare, si distingue nelle prime puntate e nell’episodio a lei dedicato, dove il suo lavoro attoriale risulta pregevole. Tuttavia, se Hunnam riesce a sottrarre il suo personaggio alla stereotipia imposta dalla sceneggiatura, Son non compie lo stesso atto di resistenza. Il suo personaggio, Adeline Watkins, resta confinato in una dimensione bidimensionale, risultando alla fine una giovane ragazza disturbata e problematica, e poco più.

Un maggiore approfondimento e una più attenta indagine psicologica di questo carattere si potevano — e si dovevano — realizzare, soprattutto perché la serie decide di attribuire ad Adeline un’importanza narrativa superiore a quella che le compete nella verità storica. È proprio con lei che la sceneggiatura si prende le libertà creative più evidenti, costruendo la serie non solo attorno al rapporto morboso tra Ed e la madre, ma anche su quello tra Ed e Adeline: due anime sole, appassionate dal macabro, che in un mondo di provincia, tra povertà e isolamento, si reincontrano per diventare mostri — o meglio, per creare insieme un mostro.

Secondo la serie, il mostro Ed nasce anche grazie alla spinta di Adeline, che non lo frena, ma lo incoraggia a investigare il suo lato oscuro. La giovane non solo non si ritrae, ma ne è attratta, arrivando persino a fotografare le opere mostruose che l’amico e vicino di casa realizza. Questo legame ambiguo, che avrebbe potuto generare una tensione drammaturgica potente, resta invece in superficie. La scrittura non riesce a restituire le sfumature psicologiche di Adeline, né a renderla un vero contrappunto al protagonista. Il suo ruolo, pur centrale nella costruzione narrativa, manca di profondità, e la sua evoluzione resta bloccata in una rappresentazione troppo lineare.

La serie, nel tentativo di ampliare il mito di Ed Gein, finisce per sacrificare la complessità di Adeline Watkins, trasformandola in un catalizzatore narrativo più che in un personaggio autonomo. E se Hunnam riesce a superare le fragilità della sceneggiatura con un lavoro attoriale di sottrazione e intensità, Son non riesce a fare altrettanto, lasciando che il suo personaggio venga inghiottito dalla funzione narrativa che gli è stata assegnata.

Adeline, secondo l’idea drammaturgica di Ian Brennan e Ryan Murphy, svolge un ruolo decisivo nell’innescare le ossessioni più oscure di Ed Gein, introducendolo a un immaginario macabro che finirà per dominarne la psiche. Tra le suggestioni più potenti vi è la figura di Ilse Koch — interpretata da Vicky Krieps — la famigerata “Strega di Buchenwald”, criminale di guerra nazista nota per aver creato oggetti con la pelle dei prigionieri. Nelle sequenze visionarie della serie, interessanti ma talvolta ridondanti, Koch diventa per Ed una sorta di musa perversa, ispirandolo a replicare quelle atrocità attraverso la manipolazione dei corpi delle sue vittime.

Anche Adeline, però, non resta indenne da questa immersione nel morboso. Affascinata dalla morte e dal potere evocativo delle immagini, tenta di dare una svolta alla propria vita recandosi a New York per collaborare con Weegee, celebre fotografo di scene del crimine per cui nutre una profonda attrazione e ammirazione. Trascorre giornate a visionare le sue fotografie di cadaveri, cercando in esse una forma di verità estetica e spirituale. Ma il suo approccio, troppo ossessivo e disturbante, viene respinto, lasciandola in bilico tra ambizione artistica e attrazione per l’abisso, conducendola inesorabilmente all’interno di un viaggio oscuro.

L’oscurità di Adeline è onnipresente, e trova compimento nella sua scena conclusiva, dove nel suo ultimo dialogo con Ed la vediamo ancora in preda a manie omicide. Il suo sguardo, le sue parole, la sua postura suggeriscono una deriva non risolta, una tensione che non si è mai sciolta. Alla fine dei conti, Adeline Watkins appare come un’assassina mancata, una donna disturbata che avrebbe potuto tranquillamente abbracciare la strada della serial killer. La serie, nel costruire il mito di Ed Gein, non lo fa da solo: lo fa attraverso Adeline, che non è solo testimone, ma complice emotiva, catalizzatrice narrativa, specchio oscuro.

Adeline Watkins è uno dei personaggi più affascinanti e ambigui di Monster: La storia di Ed Gein, non solo per la sua funzione narrativa, ma per il modo in cui incarna il confine tra realtà e finzione. Adeline è ispirata a una vera residente di Plainfield, Wisconsin, che negli anni successivi all’arresto di Gein dichiarò di essere stata la sua fidanzata e di aver ricevuto una proposta di matrimonio. Tuttavia, come ha spiegato lo sceneggiatore Richard Brennan, la donna in seguito ritrattò tutto, ammettendo: “Me lo sono inventato”. Questo dettaglio, riportato anche da fonti come Fanpage.it, conferma che Adeline ha radici nella realtà, ma che la sua storia è avvolta da incertezza e suggestione.

La serie sfrutta questa ambiguità per costruire un personaggio gotico e disturbante, che diventa catalizzatore delle ossessioni più profonde di Ed. Adeline non è solo una confidente, ma una figura che lo introduce a un immaginario macabro — tra cui il fumetto The Bitch of Buchenwald e le immagini dell’Olocausto — alimentando la sua fascinazione per la manipolazione del corpo umano e per la figura sadica di Ilse Koch. In questo modo, la serie trasforma una testimonianza incerta in un personaggio chiave, capace di spingere Gein verso il baratro e di incarnare il desiderio degli autori di esplorare l’orrore come linguaggio culturale, più che come cronaca, elemento che traspare anche dal costante citazionismo e connessione tra la figura di Gein e il medium cinematografico, da Psyco a Il Silenzio degli innocenti. 

In questo senso possiamo dire che Adeline diventa il simbolo di una narrazione che si prende libertà creative importanti, ma che lo fa consapevolmente, per interrogarsi sul mito del male e sulla costruzione dell’identità criminale. La sua presenza non distorce solo la biografia di Gein: la reinventa, la teatralizza, e la trasforma in una riflessione sul potere delle immagini e sulla seduzione dell’abisso.

Lei riesce a toccare il tema centrale dello show, che è ‘Stai attento a ciò che guardi e stai attento a ciò che guardi’. Le immagini possono essere corrosive, possono rimanerti impresse e cambiarti. E noi, insieme a Ed, la guardiamo in un certo senso addentrarsi in una spirale di oscurità e paura. 

Dichiarazione dello showrunner

Adeline incarna con forza il tema centrale dello show: il potere corrosivo delle immagini, capaci di insinuarsi nella mente, alterare la percezione e trasformare la curiosità in ossessione. Non è soltanto una spettatrice del macabro, ma una figura che lo amplifica e lo estetizza, rendendolo seducente. La sua fascinazione per la morte, la fotografia criminale e il pulp più estremo la porta a condividere con Ed visioni che non lo suggestionano soltanto, ma lo deformano. Insieme, i due si addentrano in una spirale dove l’immaginario si fa azione, e l’orrore osservato diventa orrore agito.

Questa dinamica trova un contrappunto potente nella struttura cinematografica della serie, che intreccia la figura di Gein con la genesi dell’horror moderno. Hitchcock, con Psycho (1960), non si limita a ispirarsi al caso Gein: lo metabolizza e lo traduce in linguaggio visivo, dando vita a Norman Bates — un personaggio che, come Ed, vive in simbiosi con la madre morta, manipola i corpi e nasconde l’orrore dietro una facciata di normalità. La serie mostra Hitchcock e Alma Reville alle prese con la potenza disturbante di questa figura, suggerendo che anche il regista sia rimasto contaminato da ciò che ha scelto di rappresentare.

Tobe Hooper, con The Texas Chain Saw Massacre (1974), radicalizza l’eredità di Gein, trasformandola in puro terrore visivo. La serie cita esplicitamente la celebre scena della motosega, riproponendola in una sequenza in cui Ed uccide due uomini nel suo magazzino. È un momento di metacinema: la finzione si sovrappone alla leggenda, e la leggenda si confonde con la realtà. Non sappiamo se quei delitti siano mai avvenuti, ma la serie li mette in scena per dichiarare apertamente che il cinema dell’orrore ha preso Gein come modello — non per ciò che ha fatto, ma per ciò che rappresenta.

In questo contesto, Adeline diventa il tramite tra spettatore e mostro. È lei che guarda, fotografa, legge, suggerisce. Ma è anche lei che cambia, che si lascia contaminare, che perde il controllo. La sua traiettoria narrativa è una riflessione profonda sul potere delle immagini: non solo quelle che vediamo, ma quelle che scegliamo di condividere. In Monster, il male non nasce solo dall’azione, ma dalla visione. E Adeline, come Ed, ci ricorda che guardare può essere il primo passo verso l’abisso.

La realtà modificata

La tendenza a reinventare i fatti non si limita al personaggio di Adeline. La serie si prende ampie libertà creative anche nel raccontare eventi e figure storiche collaterali, come il rapporto tra Alfred Hitchcock e Alma Reville, o la carriera di Anthony Perkins. In particolare, la narrazione secondo cui Perkins avrebbe faticato a trovare ruoli dopo Psycho è smentita dai fatti: l’attore interpretò ruoli di rilievo in film come Le piace Brahms? (1961), Il coltello nella piaga (1962) e Il processo di Orson Welles (1962), dimostrando una versatilità che la serie ignora deliberatamente per rafforzare il mito dell’attore “maledetto”.

Anche la rappresentazione della vita di Ed Gein è fortemente romanzata. Il rapporto con la madre, nella realtà segnato da abusi psicologici e repressione religiosa, viene attenuato, perdendo parte della sua crudezza. Ancora più evidente è la libertà nella costruzione degli omicidi: se storicamente Gein è stato formalmente accusato di due delitti — Mary Hogan e Bernice Worden — la serie lo trasforma in un assassino seriale, attribuendogli la morte del fratello Henry, di una babysitter e di due uomini entrati per errore nel suo magazzino, eventi di cui non abbiamo certezza. Quest’ultima scena, in particolare, è un chiaro omaggio a Non aprite quella porta, con una sequenza che riproduce fedelmente l’iconico colpo di motosega di Leatherface. È una scelta dichiarata: la serie vuole suggerire che Hooper si sia ispirato direttamente alla storia di Gein per costruire il suo mostro cinematografico. Ma se è vero che il regista ha attinto dalle leggende attorno a Gein, non esiste alcuna prova che quella scena — o quei delitti — si siano mai verificati.

Monster non si propone come una ricostruzione fedele, ma come una rilettura mitologica. E se da un lato questa libertà narrativa permette di esplorare il fascino oscuro che Gein esercita sull’immaginario collettivo, dall’altro solleva interrogativi sulla responsabilità di chi racconta il male: fino a che punto è lecito reinventarlo? E cosa perdiamo quando la leggenda prende il sopravvento sulla verità?

Omaggio ad Alfred Hitchcock non così riuscito

Tornando alle interpretazioni, quella di Tom Hollander nei panni di Alfred Hitchcock risulta, a parere del sottoscritto, la meno riuscita dell’intero cast. La sua performance appare caricaturale e didascalica, svuotando il personaggio di ogni aura e mistero. Il problema non risiede solo nello stile recitativo, ma anche nella resa visiva: trucco e parrucco contribuiscono a creare un effetto straniante, quasi artificiale, che trasforma Hitchcock in una figura grottesca, simile a una marionetta. Il risultato è un’interpretazione che non restituisce la complessità del maestro del brivido, ma ne offre una versione semplificata e poco credibile. In un contesto narrativo che ambisce a riflettere sul potere del cinema, questa scelta attoriale stona visibilmente.

Eppure, al di là della resa scenica, la sezione dedicata a Hitchcock veicola un messaggio filmico di grande interesse. Vediamo il regista confrontarsi con la mutazione culturale che Psycho ha innescato: quel film ha segnato una cesura netta, un “prima” e un “dopo” nella rappresentazione del terrore. Dopo Psycho, il pubblico ha scoperto il sangue — e ne ha voluto sempre di più. Lo spettatore non si accontenta più del suggerito, ma pretende di vedere il marcio, l’oscuro, il mostruoso, il sangue che sgorga in scena. È una riflessione profonda sullo sguardo contemporaneo, che ci conduce direttamente a Monster e alla sua estetica radicale. La serie non si limita a raccontare il male: lo mette in scena con crudezza, ci costringe a condividerne lo spazio, a empatizzare con il mostro. Ci mostra Ed Gein nel suo gesto più estremo — il rapporto sessuale con un cadavere — senza censura, senza filtro, cercando di farci percepire, anche solo per un istante, la distorsione emotiva che lo ha guidato. È una scelta disturbante, ma coerente con il percorso che il cinema ha intrapreso da Hitchcock in poi: non più solo evocare l’orrore, ma abitarlo. E Monster ci chiede di farlo fino in fondo.

I problemi dell’empatia

La ricerca di empatia tra spettatore e protagonista non è di per sé un errore, anzi: può rappresentare uno strumento narrativo efficace per indagare le motivazioni profonde che hanno condotto una persona a compiere gesti estremi. Nel caso di Ed Gein, comprendere il suo vissuto — segnato da un’infanzia traumatica, da una madre oppressiva e da una giovinezza isolata e disturbata — permette di collocare la sua devianza all’interno di un quadro patologico, dove la malattia mentale non è giustificazione, ma chiave interpretativa. Tuttavia, ciò che risulta problematico è il passaggio dalla comprensione alla compassione. Monster sembra talvolta volerci portare non solo a capire Gein, ma a provare pena per lui, a dispiacerci per la sua solitudine, per la sua vecchiaia, per la sua condizione di recluso. Ed è qui che la narrazione rischia di scivolare in un’ambiguità morale poco coerente.

Le prime cinque puntate funzionano nel complesso, pur con alcune scelte discutibili sul piano strutturale. I continui salti temporali — avanti e indietro nel tempo — spezzano il ritmo e, in alcuni casi, attenuano l’impatto delle scene più oscure. Gli omicidi, ad esempio, vengono raccontati più che mostrati, lasciando fuori campo la violenza e privando lo spettatore di quella tensione visiva che avrebbe potuto rendere più disturbante e incisiva la narrazione. È una scelta che può essere letta come pudore, ma che finisce per indebolire la costruzione dell’orrore.

Le ultime due puntate, invece, segnano un evidente calo qualitativo, sia sul piano narrativo che ritmico. L’ingresso nella fase dell’arresto e della reclusione psichiatrica di Ed è trattato con un tono melodrammatico che stona con quanto visto in precedenza. La musica, la regia e l’interpretazione dell’attore protagonista sembrano orchestrate per suscitare commozione, quasi a voler suggerire una redenzione o una forma di umanizzazione del serial killer. Ma Gein, per quanto affetto da disturbi mentali, resta una figura pericolosa e disturbante, e il tentativo di renderlo “vicino” rischia di confondere i piani etici della narrazione.

L’ultimo episodio, in particolare, è segnato da un perbenismo eccessivo, da una volontà di chiudere la storia con una nota di pietà che appare forzata e poco coerente con il tono generale della serie. Invece di mantenere uno sguardo lucido e disturbante, la regia opta per una conclusione emotiva, quasi consolatoria, che smorza la potenza del racconto e ne attenua la carica critica. È una scelta che, sul piano del gusto, lascia perplessi: perché il male, per essere compreso, non deve necessariamente essere compatito.

In conclusione

La serie si presenta come una rilettura mitologica della figura di Ed Gein, più che una ricostruzione storica fedele. La serie sceglie di esplorare il fascino oscuro che il personaggio esercita sull’immaginario collettivo, prendendosi ampie libertà narrative e stilistiche. In tutto ciò Charlie Hunnam offre una prova attoriale di altissimo livello, capace di restituire complessità e ambiguità a un personaggio disturbante, compensando le fragilità della sceneggiatura.

La serie nel suo complesso oscilla tra tensione e empatia, tra ricostruzione e invenzione, rischiando di confondere i piani etici e narrativi. Il risultato è un’opera visivamente curata e interpretata con rigore, ma che nella sua parte finale perde coerenza e forza drammatica, lasciando lo spettatore con interrogativi non solo sulla figura di Gein, ma sul modo stesso in cui il male viene raccontato.

Note positive

  • Interpretazione intensa e trasformativa di Charlie Hunnam
  • Atmosfera visiva coerente con il tono disturbante

Note negative

  • Libertà narrative che alterano i fatti storici
  • Personaggi secondari poco approfonditi
  • Episodi finali melodrammatici e poco coerenti
  • Rappresentazione caricaturale di Alfred Hitchcock

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.9
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.