American Crime Story: l’assassinio di Gianni Versace (2018). Un ritratto dell’omosessualità maschile, tra coming out, maschere e violenza.

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American Crime Story: l’assassinio di Gianni Versace

Titolo originale: American Crime Story: The assassination of Gianni Versace

Anno: 2018

Paese: Stati Uniti d’America

Genere: drammatico

Casa di Produzione: 20th Century Fox Television

Distribuzione: FOX crime, FOX, Netflix

Ideatore: Scott Alexander, Larry Karaszewski, Sarah Burgess

Stagione: 2

Puntate: 9

Attori: Penélope Cruz, Edgar Ramirez, Darren Criss, Ricky Martin

Trailer italiano di American Crime Story: l’assassinio di Gianni Versace

L’assassinio di Gianni Versace è la seconda stagione di American Crime Story, la serie antologica creata dal prolifico Ryan Murphy (Glee, American Horror Story) che si concentra, come si evince dal nome, su celebri crimini americani della storia recente. Dopo una fortunata prima stagione con al centro l’ex campione del football e star O.J. Simpson, nel 2018 viene invece narrata la vicenda del pluriomicida colpevole della morte dello stilista Versace.

Trama di American Crime Story: l’assassinio di Gianni Versace

1997: il celebre stilista Gianni Versace viene ucciso a colpi di pistola sul cancello della propria villa a Miami Beach da un ragazzo, Andrew Cunanan, già accusato di altri tre omicidi, il quale scappa dando l’avvio a una massiccia caccia all’uomo.

Recensione di American Crime Story: l’assassinio di Gianni Versace

Se la prima stagione, Il caso O.J. Simpson, si concentrava sul famoso processo, giudiziario e soprattutto mediatico, e sul fatto che l’aveva causato, questa seconda non ruota propriamente attorno all’omicidio del titolo, e neppure allo stilista italiano. O meglio, questi diventano solo una parte dei punti focali attraverso cui si sviluppa la narrazione. Da qui infatti si parte, con l’aiuto di frequenti flashback e flashforward, per tracciare i ritratti di Cunanan e delle sue vittime, tutte accomunate dall’essere uomini gay. Più che la tragedia in sé, allora, la serie racconta l’omosessualità e i diversi rapporti che i personaggi hanno con essa e con il relativo coming out, che sia cercato o imposto, i diversi modi di affrontarlo, le conseguenze che questo può comportare a livello sociale, familiare, lavorativo e mediatico. Ad ogni personaggio è data uguale dignità, vasto spazio e tempo per poter mostrare la propria storia, le colpe e le ingenuità, senza scadere in narrazioni semplicistiche e banali. C’è la vittima e il carnefice (che si dimostra a sua volta essere in ultima analisi la vittima di qualcun altro), il ricco e il povero, il giovane e il vecchio, ma tutti questi sono accomunati, appunto, dalla necessità di venire a patti con la propria sessualità in una società americana in cui quella che è ancora considerata una devianza non viene accettata, più spesso tollerata. Neppure se si parla di Gianni Versace, uno dei più famosi stilisti nel periodo di cui stiamo parlando.

La fotografia diventa più patinata man mano che ci si avvicina al mondo ricco e splendente di Versace, ormai da lungo tempo idolo del giovane Cunanan, il quale va raccontando ad amici e conoscenti di conoscerlo e di riceverne attenzioni non ricambiate. I colori splendenti, dunque, oltre a rifarsi a un immaginario tipico della casa di moda, nonché dello stile tendente al camp che ormai associamo alle produzioni di Ryan Murphy e che è qui ben esemplificato dall’eccesso delle decorazioni e dei mobili della villa, indicano anche il punto d’arrivo sognato e idealizzato dal ragazzo, che malgrado il carisma e l’intelligenza non riesce a trovare altro modo per avvicinarsi a quella purezza che non sia attraverso un utilizzo schizofrenico di maschere, bugie e infine violenza nel momento in cui queste stesse maschere non riescono più a coprire il suo vero volto; Cunanan sporca così in modo irreversibile questo immaginario di sogno, ma ha, attraverso la fuga, l’inseguimento e la cattura, i propri cosiddetti “15 minuti” di notorietà.

Nelle parti in cui ci viene mostrata più da vicino la famiglia Versace ci rendiamo infine conto che in effetti “non tutto è oro quel che luccica”, che lo scintillio dell’immagine recepita dall’esterno è stato raggiunto in seguito a fatica, dolore e traumi, come la scoperta della positività all’HIV dell’imprenditore.

Nella sofferenza risalta lo stretto rapporto tra i due fratelli, Gianni e Donatella, che si vena di gelosia e che viene acceso da frequenti liti, ma che dà il meglio di sé quando l’avvicinarsi della fine costringe il fondatore della casa a passare il testimone. Nella morte c’è dunque una rinascita, quella della firma Versace, che in un momento di forte crisi attinge nuova linfa dalla ventata di pragmatismo e freschezza apportato da Donatella, che ne prende le redini. La serie si configura allora, soprattutto nell’episodio 7 (Ascesa), anche come una dichiarazione d’amore verso un’azienda che, nata da un piccolo paesino del Sud Italia, è cresciuta grazie alla passione del suo creatore, e che ha saputo rimodellarsi e adeguarsi ai cambiamenti dei tempi senza però snaturarsi. Peccato però che questo stesso episodio costituisca in qualche modo una cesura nella continuità della trama, staccando rispetto a un racconto che è altrimenti caratterizzato da tinte più cupe e inquietanti, creando dissonanza e rallentando il ritmo percepito.

La recitazione costituisce un fiore all’occhiello della serie, in particolare in relazione alle prove di Darren Criss, nei panni di Cunanan, e di Edgar Ramirez, in quelli dello stilista. Allo stesso tempo, però, il casting determina una delle maggiori pecche del prodotto, soprattutto quando questo viene visto da un pubblico italiano. La scelta dello stesso Ramirez, di Penelope Cruz e di Ricky Martin per le parti dei Versace e di Antonio D’Amico, compagno di vita di Gianni, porta tutta l’idioma dei personaggi interpretati a un inglese spagnoleggiante, o a un italiano poco credibile, a seconda dei momenti: se da un punto di vista statunitense questa caratteristica può passare inosservata, in noi non può che causare un effetto quasi ridicolo d’inverosimiglianza del tutto evitabile.

Note positive

  • Recitazione
  • Costruzione psicologica del protagonista
  • Fotografia

Note negative

  • Casting
  • Ritmo non sempre incalzante

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