Deserto Rosso (1964): Antonioni gioca con il colore

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Il deserto rosso (1964) Locandina

Deserto Rosso

Titolo originale: Deserto Ross

Anno: 1964

Paese: Italia

Genere: drammatico

Produzione Film Duemila

Distribuzione: Cineriz

Durata: 120 minuti

Regia: Michelangelo Antonioni

Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra

Fotografia: Carlo Di Palma

Montaggio: Eraldo Da Roma

Musiche: Giovanni Fusco, Cecilia Fusco, Carlo Savina

Attori: Monica Vitti, Richard Harris, Carlo Chionetti, Xenia Valderi, Rita Renoir

Trailer italiano di Deserto Rosso

Trama di Deserto Rosso

Deserto rosso è la storia di Giuliana, nevrotica, il marito cerca di attribuirla ai postumi dell’incidente, ma veniamo a scoprire che lei ha tentato il suicidio, è la moglie di un proprietario di una fabbrica, con vapori, fumi gialli, veleni, sostanze chimiche e artefatti. Un collega industriale, ingegnere, Corrado, che cerca di aprire una fabbrica in Argentina e sta cercando di reclutare operai, iniziando una storia d’amore con Giuliana.

Recensione di Deserto Rosso

Deserto rosso è un film per certi versi centrale per il cinema italiano e per quello mondiale, soprattutto per quanto riguardo l’uso del colore e l’idea stessa che il colore non sia solo un’attrazione da film commerciale ma che può divenire parte di quello che è il cinema d’autore.

Il colore di Deserto Rosso

L’uso del colore da parte di Antonioni è un uso particolare, non quell’uso attrattivo della technicolor dei film di Via col vento, o dei film italiani di Totò a colori, non è neanche simile all’espressionismo fortemente marcato di Godard del 1963. L’approccio del colore è già un approccio ampiamente moderno e nuovo rispetto ai codici classici dell’uso del colore, che si fa significato e che da un senso alle immagini, che preconizza (presagisce) e anticipa l’idea di una rielaborazione digitale o post produttiva dell’immagine, ma ovviamente Antonioni non lavora in queste direzioni. Gli ambienti a un certo punto cambiano colore, come se si fosse intervenuti in post produzione a modificare i connotati cromatici dell’immagine.

A un certo punto c’è una scena dove i due protagonisti dovevano camminare vicino a un bosco e Antonioni aveva pensato di girare davanti a un bosco bianco; questa camminata prevista non fu attuata, perché il giorno in cui si doveva girare la scena, invece della nebbia, c’era il sole e allora l’idea che lo spettatore avrebbe avuto se avesse guardato quella scena, era la sensazione che si trattasse di un bosco innevato, e non quella voluta dal regista di spiazzarlo con colori che dovevano essere assolutamente artificiali.

L’incipit del film e i titoli di testa sono un gioco di sfocatura dell’immagine, la fabbrica è sfocata, con lampi di fumo che escono, tutto in maniera nebulosa e confusa. In Blow up l’immagine cinematografica non restituisce qualcosa di chiaro e comprensibile, ma come l’arte concettuale è nebulosa poco chiara, sfuocata. Dopo questo inizio c’è la camminata di una donna e suo figlio, le uniche due macchie colorate, lei di verde, lui di marrone, una specie di simbolo della natura, marrone (pianta), mentre il resto è uniformemente grigio, ma è direttamente il profilmico, ovvero quello che si ha davanti alla cinepresa, che è trattato in questo modo. Queste scene naturali in cui il colore è alterato e uniformato rientrano in questa idea di darci uno sguardo alterato sulle cose e sul paesaggio, dei luoghi naturali.

Analisi di Deserto Rosso

Nel contesto della storia il protagonista del film è lo sguardo, e una delle battute infatti è “Guardare e vivere è la stessa cosa”, è il medesimo atto. Una delle domande che si fa lo spettatore vedendo Deserto Rosso, è chi sta guardando in questo momento, chi è il soggetto che vede questa immagine. Questo tipo di domande è ancora più accentuato del fatto che potremo guardare a questo film come a una specie di Horror negato, vediamo che la protagonista ha una recitazione estremamente vicina a un personaggio di un film dell’orrore, con sguardo ed espressioni spaventate, però non c’è niente di orrorifico in quello che la circonda. Una delle caratteristiche dell’horror è quello di sapere con certezza chi sta guardando, ottenendo così l’effetto d’impaurire lo spettatore, che assume lo sguardo di un personaggio catapultandolo nella sua realtà, o anche del persecutore, che magari vede il protagonista, che a sua volta però non vede lui (Il silenzio degli innocenti); così si crea l’empatia con lo spettatore tramite lo sguardo. Qui invece abbiamo l’incertezza di chi sta guardando, e l’horror che attraversa il film è tutto interno alla testa della protagonista, e qualche volta grazie all’uso del colore vediamo e capiamo la sua percezione.

Il libro del Pierotti, La seduzione dello spettro, evidenzia come da uno studio di uno psicologo tedesco della prima metà del 900, ci sono tre modi di colore: Colori superficie (il legno ha le sfumature del marrone, il metallo del grigio, i colori che percepiamo a illuminazione normale. Le forme che hanno dei colori naturali); Colori Filmari (colori del cielo, del mare, elementi che non consentono di avere una corrispondenza tra la forma e il colore, sono elementi che non hanno una forma e un colore ben definito); Colori Volume (Che si lasciano attraversare, danno una sensazione 3d, e vanno a modificare la percezione di ciò che c’è dietro questo elemento; la nebbia che modifica la percezione, i vetri, qualsiasi corpo trasparente che modifica la percezione cromatica di ciò che c’è dietro questo corpo). Esistono anche i colori della memoria (tipi di colore che noi siamo abituati ad associare a un determinato elemento, e che ci vengono in mente quando questo elemento viene mostrato in un modo cromaticamente diverso di come ci aspettiamo che lo sia).

Antonioni fa un tipo di scelta che lo avvicina moltissimo alle scelte cromatiche del pittore Giorgio Morandi, pittore che ha disegnato nella sua vita nature morte (frutta, bottiglie), virando dalla policromia alla monocromia, e quando i due protagonisti escono dal negozio, questa strada ha un colore predominante sul grigio polvere, e c’è un banchino di frutta che ha il colore grigio polvere, e si avvicina ai colori di Morandi; ovviamente è una percezione alterata, non naturale. Antonioni quindi anticipa la possibilità d’intervenire sul colore, cosa che faranno nel cinema contemporaneo, ma con gli effetti speciali e il digitale, quindi lavorando sul profilmico (ciò che sta davanti alla macchina da presa), ma in post – produzione a sequenze completate. L’uso del colore in questo film è assolutamente moderno.

Antonioni gioca sugli spazi facendo sparire pareti, e modificando non soltanto il punto di vista, ma la percezione dello spazio. Con la notte, montaggio sovraimpressione, overlapping, e anche in questo film, quando confessa che ha tentato il suicidio (non era un incidente, “l’incidente”), e questo overlapping, montaggio sovraimpressione, è contestuale allo scavalcamento di campo, e anche nell’Avventura lo scavalcamento di campo sarà importante per il cambiamento di rapporto tra i due personaggi.

  1. Violazione scardinamento dello spazio, dell’unità spaziale della scena
  2. Sovraimpressione del montaggio e Scavalcamento di campo; La stessa corsa della protagonista verso la macchina, prima ripresa alle spalle, poi di fronte, e il montaggio sovraimpresso che lei fa due volte lo stesso movimento.

La donna di Deserto Rosso

Antonioni usa il colore non naturale, per descrivere lo stato d’animo, colorando un oggetto o gli oggetti, ad es. la stanza rosa. Antonioni è convinto della maggior sensibilità che ha la donna rispetto all’uomo, ed è utilizzata per mostrare agli spettatori i cambiamenti epocali che sono avvenuti in Italia e nel mondo industrializzato degli anni 50 – 60, che riguardano anche il rapporto dell’uomo con se stesso. Il deserto rosso è l’altra faccia de La Notte, la donna come termometro sensibile che subisce e soffre l’industrializzazione della società e l’individualismo violento che nasce dai consumi, la solitudine e la distruzione della famiglia, con suo marito Ugo impegnato in fabbrica, poi parte per Londra e se ne va. (Anche se alla fine del film, e nell’inquadratura finale ci dà l’idea della guarigione di Giuliana, della sua accettazione, con  la frase degli uccellini che sanno dove è il veleno, e lì non ci vanno; poi l’inquadratura della fabbrica non è più sfocata, fuori fuoco come all’inizio, e quindi mi viene da pensare che lo spettatore che è cieco di fronte a questo problema dell’inquinamento, seguendo il percorso della malattia di Giuliana, nella sua percezione, riesca poi a convivere e ad avere una maggiore consapevolezza di questo problema). Antonioni sul fattore dell’incidente dice di avere fatto un errore narrativo; nel film asserendo che è dall’incidente che lei non riesce più a ingranare, ma Antonioni voleva dirci che Giuliana aveva tentato il suicidio con un incidente per disperazione, perché si sentiva già sola, abbandonata dal marito, in una posizione di totale inutilità esistenziale; nella piattaforma parla a Corrado del suicidio, ma non ci dice che l’incidente è stato causato da lei che si era buttata contro un camion intenzionalmente per farla finita. Ha subito la violenza di una società intera industrializzata che divide le coppie, produce egoismo e solitudine, declina la figura squallida dell’uomo di affari che allunga le mani a tutte le donne e parla di se stesso come se fosse un grande signore, mentre è uno dei più volgari che ci sia. Appaiono tanti segnali di colore, non della pazzia o del delirio della protagonista, ma di un mondo che va verso l’inquinamento, la falsità totale dei rapporti umani, e il discorso dell’inquinamento (Il Primo rapporto scientifico è del 1972).

Il cineasta intuisce otto anni prima che molte cose del mondo si stanno perdendo e inquinando. Il film non appare più soltanto come fu definito allora come la visione del mondo di una protagonista impazzita e delirante, ma di una persona che sta male per determinate ragioni, per questo grosso cambiamento totale a cui non riesce a far fronte, un rovesciamento di Lidia. Il regista ci mostra la distruzione dell’ambiente da parte dell’industria.

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