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Eel
Titolo originale: Hé mán / 阿鰻
Anno: 2025
Nazione: Taiwan
Lingua: cinese
Genere: drammatico
Casa di produzione: Static Film & Visual Art Production
Distribuzione italiana: –
Durata: 102 minuti
Regia: Chu Chun-Teng
Sceneggiatura: Chu Chun-Teng
Fotografia: Nguyen Vinh Phuc
Montaggio: Alulu Kuo, Chu Chun-Teng
Musiche: Tôn Thất An
Attori: Devin Pan, Misi Ke, Chin-Yu Pan, Bella Chen, Mei-Hou Wu
Trailer di “Eel”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
Il regista e artista visivo taiwanese Chu Chun-Teng ha studiato regia e direzione della fotografia in accademia, realizzando come cortometraggio di fine percorso The House of Sleeping Beauty (2006), ispirato all’omonimo romanzo di Yasunari Kawabata. Il corto ha ottenuto un buon riscontro da parte della critica, ricevendo svariati riconoscimenti internazionali e venendo selezionato in prestigiosi festival cinematografici come il Clermont-Ferrand e il Singapore Film Festival. Nel 2010 ha concluso il suo percorso accademico conseguendo un Master in Belle Arti presso il Goldsmiths, University of London, dove ha approfondito le pratiche dell’arte contemporanea. Da allora, il suo lavoro si è sviluppato lungo un asse multidisciplinare che include cinema, expanded cinema e installazioni, con una forte attenzione ai temi dell’identità individuale, delle strutture sociali e dei conflitti politici — argomenti che emergono con forza nelle sue installazioni artistiche.
È però nel 2025 che Chu Chun-Teng si riaffaccia al mondo della settima arte, realizzando Hé mán (noto a livello internazionale con il titolo tedesco Eel), sua opera prima in un lungometraggio. La pellicola è stata presentata in anteprima mondiale il 19 febbraio alla Berlinale, dove ha partecipato in concorso nella selezione Perspectives 2025. Il film è stato successivamente proiettato in numerosi festival cinematografici: dall’Hong Kong International Film Festival al Taipei Film Festival, fino a giungere al Lucca Film Festival, dove è stato selezionato nel concorso ufficiale e proiettato per la prima volta in Italia il 24 settembre 2025 alle ore 15 presso il Cinema Centrale di Lucca.
Trama di “Eel”
In un’isola ai margini di Taipei, in un luogo quasi dimenticato dal mondo, dove il tempo sembra sospeso tra passato e presente e il caldo opprimente consuma lentamente il corpo e la volontà dei suoi abitanti, vive Liang (Devin Pan), un giovane uomo che abita in una baracca affacciata sul mare. Lavora presso una discarica, immerso ogni giorno tra rifiuti e silenzi, e soffre di sonnambulismo: ogni notte si ritrova a vagare per le strade in uno stato di incoscienza, come se cercasse qualcosa che non riesce a nominare.
La sua esistenza è scandita da gesti ripetitivi e rituali minimi: si lava nel mare, condivide incontri e pasti frugali con la nonna e un amico, e si rifugia in una solitudine che sembra averlo anestetizzato. Il ricordo del padre, ormai morto, lo tormenta come un’ombra costante, alimentando un senso di impotenza e immobilità. Liang non riesce a immaginare una via d’uscita: il sogno di lasciare l’isola e migliorare la propria condizione economica e personale si è spento da tempo.
Un giorno, mentre nuota in una palude ai margini del villaggio, scopre tra le acque torbide il corpo di una giovane donna vestita di rosso, apparentemente morta affogata. La salva, la porta con sé, e da quel momento la sua vita cambia. La donna, enigmatica e silenziosa, si trasferisce nella sua baracca, instaurando con Liang una relazione ambigua e tormentata, fatta di attrazione, distanza e incomprensioni. La sua presenza altera gli equilibri emotivi del giovane, risvegliando desideri sopiti e paure profonde.
La loro convivenza si trasforma in un confronto tra due solitudini che si sfiorano senza mai fondersi del tutto. In questo spazio sospeso — tra mare e palude, tra memoria e desiderio — Liang è costretto a confrontarsi con ciò che ha sempre evitato: il dolore, l’amore e la possibilità di cambiare.
Recensione di “Eel”
Alcune volte esistono lungometraggi eccessivamente didascalici, che non lasciano minimamente spazio al non detto, dove le parole pronunciate dai personaggi e il modo di riprendere dei registi chiarisce tutto, rendendo fin troppo semplice la comprensione della drammaturgia. Così facendo, si priva il pubblico della meraviglia di immaginare, di vedere altro al di là della narrazione, sottraendogli il gusto di lasciarsi trascinare dal rumore e dalle atmosfere narrative. Altre volte, invece, lo spettatore si ritrova dinanzi a narrazioni che fanno del non detto il loro punto di forza, costruendo drammaturgie incentrate su simbolismi e movimenti onirici, entro strutture poco o nulla verbose, che impediscono al pubblico di comprendere chiaramente la narrazione e il messaggio che il cineasta intende trasmettere. In questi casi, lo spettatore è chiamato a lavorare d’immaginazione, lasciandosi guidare dal sonoro e dalle immagini visive — elementi che lo catapultano in un universo emotivo e psicologico, nel tentativo di dare un senso a ciò che sta osservando sullo schermo. La comprensione stessa di un’opera può variare, in parte, da spettatore a spettatore. Il cinema di David Lynch è l’emblema più commerciale di questo tipo di cinematografia. Ma va asserito che fare questo tipo di cinema non è affatto semplice, poiché c’è il rischio di perdersi dentro una narrazione eccessivamente aratoria e poco o nulla comprensibile, dove il cineasta si cimenta più in un gioco di stile che in qualcosa di realmente capace di scuotere lo spettatore.
L’opera prima di Chu Chun-Teng non appartiene al cinema didascalico — tutt’altro. Si dimostra un racconto audiovisivo pregevole e interessante, che merita, senza ombra di dubbio, una visione. Tuttavia, va evidenziato come l’opera filmica presenti al suo interno numerose pecche di sceneggiatura, che rendono la narrazione — seppur intaccata da onirismo e simbolismi culturali e religiosi — più comprensibile a un conoscitore della cultura taiwanese che a chi non ne possiede familiarità. La costruzione narrativa, difatti, si perde in un’ambiguità esagerata e poco chiara, dove anche elementi che avrebbero meritato un maggiore approfondimento drammaturgico lineare non vengono volutamente spiegati. È il caso del rapporto del protagonista con la figura paterna: un elemento che appare cruciale per comprendere il personaggio e i suoi problemi sociali, ma che il racconto liquida in una sola riga, senza svilupparlo ulteriormente, lasciando questo legame all’immaginazione e non alla chiarezza. Anche nei film “ non classici” servono alcuni punti chiari e fermi.
In queste problematiche di scrittura rientra anche la scarsità di approfondimento dei personaggi secondari: dall’amico/fratello fino alla nonna, due figure che, se sviluppate, avrebbero potuto arricchire la narrazione, creando una commistione efficace tra narrazione classica e narrazione sospesa. Quest’ultima funziona molto bene nel caso del personaggio femminile, enigmatico e folle, una figura che forse comprendiamo solo nel finale — un epilogo interessante che, se si osserva attentamente il film, era stato seminato fin dai primi minuti, quando la macchina da presa inquadrava un cartello con la scritta: “persona scomparsa”. Ricordo che ogni ripresa, ogni inquadratura, se si parla di un regista autoriale, assume sempre un valore narrativo.
Liang e l’ombra di sé: simbolismi animali e identità sospesa
La pellicola presenta, indubbiamente, alcune pecche narrative, con critiche sociali poste dal cineasta che non risultano del tutto chiare. Tuttavia, pur nella mancanza di approfondimento del background dei due personaggi — in particolare di Liang — il regista riesce a descrivere con efficacia il tormento interiore dei protagonisti, costruendo un racconto intimista che trova una chiave di lettura nella frase di apertura, tratta da Uccelli migranti di Rabindranath Tagore: “Non vedi ciò che sei, vedi la tua ombra.” Una riflessione sull’identità frammentata, che si riflette solo in ciò che è distorto, proiettato, sfuggente.
Liang incarna questa condizione con una forza visiva e simbolica che attraversa l’intera narrazione. Il suo sonnambulismo — camminare di notte in stato dormiente — è una metafora potente: non è pienamente presente a se stesso, si muove come un’ombra, guidato da impulsi che non comprende, immerso in una realtà che non riesce a decifrare. Vive in una baracca sul mare, lavora in una discarica, si lava nell’acqua, ma non riesce a liberarsi da un senso di immobilità esistenziale. La sua vita è fatta di gesti minimi, di rituali che non lo trasformano, ma lo mantengono in uno stato di sospensione.
In questo contesto, l’anguilla che compare spesso nel corso del film assume un valore simbolico profondo e direttamente connesso al protagonista. Liang, come l’animale che abita le acque torbide e si muove tra ambienti diversi, vive in uno stato di transizione permanente: tra veglia e sonno, tra desiderio e rassegnazione, tra isolamento e contatto. L’anguilla diventa il suo doppio silenzioso, un riflesso della sua identità fluida e sfuggente, della sua incapacità di radicarsi o di emergere con chiarezza. Come l’anguilla, Liang scivola tra le pieghe del paesaggio e della narrazione, senza mai afferrarsi del tutto. Anche il maiale, altro animale presente nel film, contribuisce a questa costruzione simbolica: legato alla terra, al consumo, alla materia, rappresenta l’opposto dell’anguilla. Se quest’ultima è movimento, ambiguità e sopravvivenza, il maiale è stasi, peso, carne. La presenza di entrambi gli animali suggerisce un contrasto interno al protagonista: da un lato il desiderio di fuggire, di mutare, di dissolversi; dall’altro la condanna a restare, a incarnare un’esistenza che lo imprigiona.
La figura della donna misteriosa, trovata mezza affogata nella palude, può anch’essa essere letta come una proiezione di questa ombra: una presenza ambigua che lo destabilizza, lo attrae e lo costringe a confrontarsi con ciò che ha sempre evitato. La loro relazione, fatta di silenzi, di gesti interrotti, di tensioni non risolte, è il riflesso di un’identità che cerca di emergere, ma che resta intrappolata nella propria ombra. In questo senso, il film non racconta solo una storia di solitudine e desiderio, ma una meditazione visiva sull’identità, sulla memoria e sulla possibilità — o impossibilità — di trasformarsi. Liang non è ancora ciò che potrebbe essere: è solo la sua ombra, come l’anguilla che scivola tra le acque, senza mai fermarsi.
Emozione intermittente e potenziale visivo
La mancanza di una tensione emotiva costante non è solo una debolezza strutturale, ma diventa parte integrante della grammatica espressiva del film. L’emozione, infatti, non è distribuita in modo uniforme: emerge solo in frammenti intensi, come le scene passionali tra i protagonisti o quella in cui i due conversano mentre trovano i vestiti nella discarica — momenti in cui il corpo, il desiderio e la materia si impongono sulla rarefazione narrativa. In queste sequenze, la figura della donna misteriosa, interpretata con magnetismo da Bella Cheng, assume una funzione catalizzatrice: è lei a trascinare la scena, a destabilizzare l’equilibrio visivo e psicologico, a incarnare il perturbante. La sua presenza scenica non è solo attoriale, ma coreografica: ogni gesto, ogni sguardo, ogni silenzio è carico di tensione. La sua violenza non è gratuita, ma inscritta in una logica simbolica che la rende folle e rituale, come se fosse portatrice di un ordine altro, arcaico, che sfida la linearità narrativa. È in lei che il film trova la sua energia emotiva più pura, anche se intermittente.
La narrazione, nel suo complesso, soffre però di una scrittura trattenuta, che gioca sul non detto anche dove sarebbe necessario un chiarimento drammaturgico. Il ritmo, per quanto coerente con l’atmosfera sospesa, risulta a tratti soporifero, non per lentezza ma per assenza di variazione emotiva. Si ha l’impressione che il film voglia restare in una zona liminale, tra sogno e realtà, senza mai scegliere davvero dove collocarsi. In questo contesto, la fotografia diventa il vero motore narrativo. Con la sua poesia visiva, ci trasporta in un’isola che non è solo geografica, ma mitica: un luogo che sembra appartenere a un tempo altro, fatto di religiosità, simboli e riti. Le inquadrature non descrivono, evocano. La luce non illumina, sospende. I colori non definiscono, sfumano. È in questa dimensione che il film trova la sua forza: non nel racconto, ma nella visione.
In conclusione
L’opera prima di Chu Chun-Teng si colloca all’interno di una cinematografia che privilegia il non detto, la sospensione e il simbolismo. La narrazione si sviluppa in modo frammentario, con una struttura che evita il dialogo e si affida alla forza evocativa delle immagini e del sonoro. Il protagonista, Liang, incarna un’identità fluida e sfuggente, riflessa in simboli animali e in gesti quotidiani che non conducono alla trasformazione, ma alla permanenza in uno stato liminale. La figura femminile, enigmatica e perturbante, agisce come catalizzatore scenico, mentre la fotografia costruisce un universo visivo che trascende il tempo e lo spazio. Il film non cerca una comprensione immediata, ma propone una meditazione sull’identità, sulla memoria e sulla possibilità di emergere dall’ombra.
Note positive
- Fotografia evocativa e sospesa
- Costruzione visiva coerente con il tono onirico
- Presenza scenica magnetica della protagonista femminile
Note negative
- Sceneggiatura ambigua e poco sviluppata
- Personaggi secondari non approfonditi
- Critiche sociali non chiaramente articolate
- Ritmo narrativo privo di variazioni emotive
- Alcuni momenti avevano bisogno di una narrazione più chiara
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Regia |
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Fotografia |
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Sceneggiatura |
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Colonna sonora e sonoro |
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Interpretazione |
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Emozione |
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SUMMARY
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3.3
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