
I contenuti dell'articolo:
Fino alle montagne
Titolo originale: Bergers
Anno: 2024
Genere: Drammatico
Casa di produzione: Micro Scope, Avenue B Productions
Distribuzione italiana: Officine UBU
Durata: 113 minuti
Regia: Sophie Deraspe
Sceneggiatura: Sophie Deraspe, Mathyas Lefebure
Fotografia: Vincent Gonneville
Montaggio: Stéphane Lafleur
Musiche: Philippe Brault
Attori: Félix-Antoine Duval (Mathyas), Solène Rigot (Élise), Guilaine Londez (Cécile Esprinoux), Michel Benizri (Ahmed), David Ayala (Dudu), Véronique Ruggia Saura (Agnès Tellier), Younès Boucif (Nassim), Bruno Raffaelli (Gérard Tellier), Aloïse Sauvage (Clotilde)
Trailer di “Fino alle montagne”
Informazioni sul film e dove vederlo in streaming
Dopo aver studiato filosofia, Mathyas Lefebure intraprende una carriera nel mondo della pubblicità e del marketing, una vita che, però, gli sta sempre più stretta. Sentendo il bisogno di un cambiamento radicale, decide di abbandonare tutto: lascia il Canada, sua terra natia, e si trasferisce in Francia, dove diventa pastore di pecore in Provenza, trascorrendo un decennio nei pascoli di montagna.
Il 27 settembre 2006, Lefebure pubblica il suo primo romanzo, “D‘où viens-tu, berger?”, in cui racconta, in forma romanzata, il suo percorso di formazione per diventare pastore, narrando la sua trasformazione interiore e identitaria a contatto con una vita tanto semplice quanto complessa. Nel 2024, “D‘où viens-tu, berger?” diventa un lungometraggio diretto dalla cineasta canadese Sophie Deraspe (Antigone, 2019; Bête noire / Dark Soul, 2021; Motel Paradis, 2012), con una sceneggiatura firmata sia dalla regista che dall’autore del romanzo.
Stavo scrivendo durante il mio primo anno da pastore, quando vivevo l’esperienza dell’alpeggio, della montagna. Non sapevo ancora che quello che stavo scrivendo sarebbe diventato un libro. E verso la fine dell’alpeggio, dove avevamo scattato un sacco di foto, ho avuto un’epifania sulla cima. Stava nevicando. C’è stata una trasformazione interiore. È stato allora che è diventato un romanzo. Ho vissuto questa epifania come qualcosa da condividere. Era troppo forte per essere solo vissuta senza essere raccontata. Era un’idea vaga, ma cinematografica. Dopo che il romanzo è stato pubblicato, molte persone mi hanno detto: “ma questo romanzo è un film”. Deve essere un film… Un documentario? Ho esplorato la possibilità, un’estate sulle Alpi con una telecamera, filmando tutto, la vita quotidiana, le pecore, i cani. Ma c’era questa voce che diceva, no. Poi una serie di incontri fortunati e coincidenze lo hanno trasformato in Fino alle montagne. – Cit. Mathyas Lefebure
Il lungometraggio, dal titolo originale “Bergers”, viene presentato in anteprima internazionale per i distributori cinematografici al Cannes Film Market nel 2024. In seguito, il film debutta al Toronto International Film Festival il 6 settembre 2024, dove ottiene il premio come miglior film canadese. Successivamente, viene nominato finalista per il Rogers Best Canadian Film Award ai Toronto Film Critics Association Awards 2024, l’equivalente canadese dei David di Donatello italiani. Per quanto riguarda la distribuzione cinematografica, il film è stato rilasciato nelle sale canadesi a partire dal 15 novembre 2024, mentre in Italia è stato distribuito nei cinema dal 29 maggio 2025, grazie a Officine UBU.
Trama di “Fino alle montagne”
Mathyas, giovane pubblicitario canadese, decide di abbandonare la frenetica vita di Montréal per realizzare il suo sogno: diventare pastore sulle montagne dell’Alta Provenza. Spinto dal desiderio di riconnettersi con la natura, arriva in Francia senza alcuna esperienza, portando con sé un’immagine idealizzata della vita rurale. Tuttavia, ben presto si scontra con la dura realtà del mestiere, ben più complessa di quanto avesse immaginato.
Oltre alle difficoltà burocratiche nel regolarizzare la propria posizione nel paese che lo ospita, Mathyas deve affrontare le sfide quotidiane di una professione che richiede dedizione e resistenza. La gestione del gregge e la convivenza con gli altri pastori si rivelano faticose, tra animali malati, predatori e condizioni ambientali imprevedibili. La visione romantica con cui aveva intrapreso il suo percorso si infrange di fronte alla concretezza di un lavoro che mette alla prova corpo e spirito, dove la morte è una presenza costante.
Nel suo percorso, Mathyas incontra Élise, una giovane impiegata comunale affascinata dal suo sogno. Tra i due nasce una corrispondenza letteraria, in cui Mathyas racconta la sua esperienza da pastore, romanticizzando gli eventi. Lo scambio epistolare si interrompe quando Élise decide di licenziarsi dal suo lavoro per seguirlo. Da questo momento, nonostante iniziali difficoltà, la sua presenza diventa un sostegno fondamentale per Mathyas, aiutandolo a ritrovare fiducia in sé stesso e nella sua scelta di vita, messa a dura prova dalla brutalità del mestiere.
Insieme, i due ottengono l’affidamento di un gregge e affrontano una sfida ancora più grande: la transumanza. Conducendo più di 800 pecore attraverso le maestose Alpi di Provenza, intraprendono un viaggio che li mette alla prova e li trasforma profondamente. In questo paesaggio selvaggio e mutevole, Mathyas ed Élise affrontano sia la bellezza che la durezza della natura, dove la montagna è al tempo stesso maestra e minaccia. Il loro percorso si trasforma in un’esperienza di ricostruzione non solo personale, ma anche esistenziale, mentre imparano a vivere in simbiosi con un mondo in continua evoluzione.
Recensione di “Fino alle montagne”
Abbandonare tutto e ricominciare altrove. Fuggire dal quotidiano, dalle regole sociali e burocratiche tossiche che soffocano l’esistenza. Fuggire dal caos cittadino, da una vita frenetica scandita da smog e rumore incessante, dove il nostro sé rischia di svanire, di dissolversi, portandoci a perdere la nostra identità e, con essa, la felicità interiore. Uomini e donne schiacciati da un sistema oppressivo, intrappolati in una realtà che non lascia spazio al respiro, automi incasellati in un’esistenza alquanto schematizzata dal sistema capitalistico che schiaccia e distrugge il nostro io interiore. In questo contesto sociale la fuga diventa l’unico atto di ribellione possibile, l’unica strada verso la propria rinascita interiore.
Chi più, chi meno, almeno una volta nella vita, ha sentito il desiderio di abbandonare tutto. Di liberarsi dagli schemi sociali, smarcandosi da una società che impone regole schiaccianti, per riscoprire un contatto profondo con il proprio io interiore e con la semplicità della vita. Un ritorno al mondo naturale, a quella connessione che l’uomo moderno—l’uomo capitalista—ha smarrito, ricostruendo la propria esistenza attorno alla tecnologia, che si è trasformata nel nuovo epicentro e nel dio del mondo.
Nel contesto sociale attuale, sempre più persone avvertono il desiderio di sottrarsi alla vita canonica per ritrovare la libertà, per riscoprire sé stessi e rinascere. Tuttavia, pochi hanno il coraggio di agire concretamente e di mettere a rischio tutto per abbracciare un percorso di vita non convenzionale. È il caso di Mathyas Lefebure, protagonista di “Fino alle montagne”, che decide di rinnegare il suo passato di uomo di città canadese, lasciandosi alle spalle una carriera nel marketing e nella pubblicità per intraprendere un viaggio nella rurale Provenza, in cerca di lavoro come pastore. Secondo la sua visione, questa esperienza gli permetterà di riscoprire il suo vero sé, riconnettendosi con la Madre Terra, ovvero la natura. Ma il viaggio si rivelerà molto diverso da quello che Mathyas aveva immaginato. Vittima di una idealizzazione eccessiva della vita contadina, il giovane canadese vede nella ruralità una fuga dal mondo sociale e dalla frenesia urbana, senza però comprendere a fondo cosa significhi davvero vivere in quel contesto, sia dal punto di vista lavorativo che umano.
Non tutti i pastori e contadini incarnano l’immagine romantica della vita agreste: in loro convivono frustrazione, povertà e ignoranza, e la realtà si rivela ben più aspra di quanto lui avesse previsto—una durezza che finirà per intaccare anche la sua personalità, trasformandolo profondamente. Così, soprattutto nella prima metà della pellicola, il sogno di Mathyas si tramuta in un incubo interiore: il viaggio, anziché condurlo alla riscoperta di sé, lo spinge verso la perdizione, facendolo crollare emotivamente.
Si ritrova a vivere un’esistenza spoglia, segnata da momenti di dolcezza—come la nascita di un agnellino—e da istanti di morte, diventando testimone di numerosi episodi di maltrattamento animale. Il film mostra, con precisione e crudezza, come alcuni allevatori—qui rappresentati dai personaggi di Gérard Tellier (Bruno Raffaelli) e Ahmed (Michel Benizri)—considerino il bestiame non come esseri viventi, ma esclusivamente come merce da cui trarre profitto, maltrattandoli fisicamente e verbalmente.
In questo mondo dominato da un lavoro estenuante e da una brutalità emotiva spesso insostenibile, l’alcol diventa il suo unico rifugio e compagno di solitudine, trasformandolo in un uomo consumato e spento. A salvarlo da questo crollo interiore sarà Élise, personaggio di invenzione non presente nel romanzo del 2006, che riporterà luce nella sua vita.
Il libro in sé è diverso dalla mia storia. È la storia di molti pastori, con percorsi di vita sconvolti, che si lanciano in una professione mitica, senza alcuna esperienza. Ci sono molti “mix” tra realtà e finzione. Una sceneggiatura non ha altra scelta che condensare l’azione di un libro. Nel caso di Fino alle montagne, questo ha funzionato. E Sophie ha liberamente inventato il personaggio di Elise, una magnifica pastorella. – Cit. Mathyas Lefebure
La forza della pellicola, dal punto di vista drammaturgico, risiede nella sua capacità di affrontare il tema in modo approfondito, evitando una trattazione superficiale. Il film indaga la vita pastorizia sotto molteplici punti di vista, offrendo allo spettatore uno sguardo realistico e intenso su cosa significhi realmente abbracciare questa esistenza.
La narrazione mostra sia i pregi di questo stile di vita—la connessione con la natura e il senso di libertà—sia gli aspetti più duri e implacabili. Dalla solitudine interiore alla fatica di un mestiere che impone una dedizione assoluta, il lavoro del pastore si rivela un impegno costante, una professione che richiede attenzione e vigilanza giorno e notte per proteggere il bestiame da un destino nefasto. La regista e sceneggiatrice, supportata dal vero Mathyas Lefebure, riesce a offrire una rappresentazione esaustiva e priva di idealizzazioni, evitando di cadere nei cliché e negli stereotipi eccessivamente poetici sulla vita rurale. Il film scruta questa realtà nella sua duplice essenza: da un lato la bellezza e la poesia del rapporto con la natura e gli animali; dall’altro la brutalità della sopravvivenza, con una natura spietata e con la crudezza di alcuni esseri umani, come emerge chiaramente nella prima metà del racconto.
Nella seconda parte del lungometraggio, con l’entrata in scena di Élise, il tono della narrazione assume una sfumatura più idilliaca, concentrandosi maggiormente sugli aspetti positivi del lavoro di pastore. Le sequenze dedicate alla transumanza celebrano la grandezza di questa esperienza, senza però dimenticare le difficoltà e i pericoli, messi in evidenza, per esempio, nelle scene del temporale e dell’incontro con i lupi.
Nel film, seppur in modo discreto, emerge una realtà spesso trascurata: la crescente difficoltà dei piccoli imprenditori della pastorizia di fronte alle complessità della burocrazia statale e alla pressione fiscale. Se da un lato il mondo rurale offre un’apparente libertà dai vincoli sociali più stringenti della vita urbana, dall’altro le regole amministrative e le imposizioni economiche non risparmiano nemmeno chi sceglie di dedicarsi a un mestiere antico e profondamente legato alla terra.
Mathyas, nel suo percorso di trasformazione, deve affrontare non solo le sfide pratiche del lavoro pastorale—la gestione del gregge, la solitudine, la durezza del clima e i rischi legati alla natura—ma anche gli ostacoli burocratici. Ottenere le autorizzazioni necessarie, accedere ai sussidi destinati agli agricoltori, conformarsi alle normative sanitarie per la gestione degli animali: tutto ciò rende il suo progetto di vita più complesso di quanto avesse immaginato.
Questa dimensione del racconto si inserisce in un quadro più ampio, in cui la pastorizia tradizionale è sempre più schiacciata da un sistema che favorisce le grandi produzioni industriali, a discapito dei piccoli allevatori. Anche la transumanza, pur essendo un’antica pratica di gestione del bestiame, oggi deve fare i conti con regolamentazioni più stringenti, costi elevati e difficoltà nell’accesso ai pascoli. Il film, senza trasformare questa tematica nel fulcro della narrazione, suggerisce dunque un contrasto tra il desiderio di una vita semplice e autentica e le difficoltà concrete di preservare questa scelta in un mondo sempre più regolamentato.
A livello drammaturgico, l’unica pecca nella scrittura del film è l’assenza di un approfondimento sul background del protagonista. Se da un lato seguiamo il suo viaggio di formazione, dall’altro non veniamo mai a conoscenza delle reali motivazioni che lo hanno condotto alla sua crisi esistenziale. La narrazione ci presenta la sua scelta di vita come un dato di fatto, senza esplorare le cause profonde che lo hanno spinto a compiere questo strappo. Si tratta di una lacuna marginale, considerando che il film, per il resto, funziona molto bene sia a livello interpretativo che narrativo. La regia e la fotografia riescono a fondere con grande equilibrio elementi del cinema documentario e della finzione: dalla modalità di ripresa delle ambientazioni naturalistiche e delle scene dedicate al bestiame, fino alla scelta registica di impiegare attori non professionisti per i ruoli secondari. Questi elementi contribuiscono a conferire alla pellicola un tono autentico e immersivo, capace di restituire la realtà pastorale con una sensibilità che evita le eccessive idealizzazioni.
La realtà e l’autenticità che volevamo ottenere non sono sempre compatibili con i vincoli del cinema. Quindi, tutta l’organizzazione con veri pastori, veri allevatori e ovviamente vere mandrie che hanno un loro modo di lavorare legato alle stagioni, agli spostamenti territoriali, ai cicli di riproduzione… tutto ciò si è rivelato estremamente complesso da coordinare con le riprese! A un certo punto abbiamo pensato che non ce l’avremmo fatta. Ma la volontà e la creatività dei nostri collaboratori hanno reso possibile tutto questo. André-Line Beauparlant è stata straordinaria: ama le grandi sfide nel suo lavoro di scenografa, ma ha anche una sensibilità documentaristica, un amore per le persone e un modo di relazionarsi con loro che si sono rivelati indispensabili per il successo di questo progetto. Le persone dovevano voler fare questo film con noi tanto quanto noi avevamo bisogno che lo facessero. È stato sia il lavoro di fiction più complesso che ho dovuto impostare, sia quello più vicino al documentario. La realtà è lì, è così ricca, ci può regalare scene incredibili, quindi dobbiamo solo essere flessibili e abbastanza attenti da catturarle. Allo stesso tempo, dovevamo essere abbastanza preparati per assicurarci che non si trasformasse tutto in caos. È un metodo che ho usato nei film precedenti. Amo affidarmi al mio istinto, lavorando in climi imprevedibili e con animali che devono essere guidati. Una mandria, con un pastore molto bravo e un cane, va più o meno dove vuoi, ma non è garantito, e non possono fare esattamente quello che vuoi tu. Come regista, il mio ruolo è essere pronta, avere fiducia, e poi infondere questa fiducia nella mia troupe, in modo che sappiano che la cosa importante è essere lì, attenti e all’erta, per cogliere l’attimo. Ciò che trovo straordinario è che la realtà è spesso più ricca di ciò che osiamo scrivere. – Dichiarazione della regista
Pur mescolando documentario e realismo, il film si distingue per una forte impronta fiabesca, evidente fin dalle primissime scene. Questo aspetto viene costruito con grande attenzione dalla cineasta, che, attraverso scelte musicali mirate, conferisce alla narrazione un’atmosfera sospesa tra il concreto e l’onirico. Le composizioni sonore evocano, da un lato, il mondo contadino e la semplicità della vita pastorale; dall’altro, attingono a elementi tipici del cinema fiabesco, con melodie che suggeriscono un viaggio iniziatico, un’avventura dal sapore quasi mitico.
Questa fusione tra realtà e immaginario è accentuata dalla fotografia, che cattura panorami alpini di rara bellezza, trasformando il lungometraggio in un’esperienza visiva immersiva. I campi lunghi sulle montagne, la luce che accarezza le distese erbose, il movimento armonioso del gregge: tutto concorre a creare una dimensione che trascende la pura documentazione, elevando l’esperienza pastorale a una vera e propria epopea. Il risultato è un film che, pur raccontando una storia radicata nella realtà contemporanea, lascia emergere una sensazione di fiaba. Questo effetto non nasce da una narrazione artificiosa, ma dalla capacità di cogliere il lato poetico e simbolico della vita rurale, suggerendo che, nonostante le difficoltà, esiste ancora spazio per sogni, trasformazioni e rinascite.
Nella sceneggiatura avevo già delle idee per grandi temi sinfonici, musiche che hanno attraversato i secoli, come il mestiere del pastore. Le composizioni di Philippe Brault si sono ispirate ai grandi nomi e alle epoche della musica classica. C’è qualcosa nella colonna sonora che suscita quasi immediatamente delle emozioni, un’elevazione che funziona molto bene con la grandiosità del paesaggio e la sua iscrizione in una temporalità sospesa. Penso che contribuisca all’aspetto “favolistico” della storia: entriamo nel sogno montano di Mathyas attraverso la musica. Lo accompagna attraverso i vari atti della storia. Ci sono momenti in cui i suoni sono un po’ più contemporanei, ma è comunque musica in armonia con la roccia, il vento o le campanelle al collo delle pecore, e che ci trasporta in un mondo quasi magico. – Dichiarazione della regista
In conclusione
Fino alle montagne è una riflessione autentica e intensa sul desiderio di fuga e rinascita, raccontato attraverso il percorso di Mathyas Lefebure, un uomo che sceglie di abbandonare la vita urbana per riscoprire sé stesso nella natura. Il film evita la rappresentazione romantica e idilliaca della vita pastorale, mostrando con estrema lucidità sia la bellezza di questo mondo, sia le difficoltà che lo caratterizzano—dalla solitudine alla durezza del lavoro, fino ai maltrattamenti sugli animali. La regia e la fotografia, capaci di fondere elementi documentaristici con la finzione, restituiscono un ritratto visivamente potente e immersivo, mentre la sceneggiatura riesce a bilanciare introspezione e narrazione sociale.
Note positive
- Approccio realistico e non idealizzato alla vita pastorale
- Regia e fotografia che mescolano documentario e finzione con efficacia
- Colonna sonora
Note negative
- Mancanza di approfondimento sul background del protagonista
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Regia |
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Fotografia |
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Sceneggiatura |
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Colonna sonora e sonoro |
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Interpretazione |
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Emozione |
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SUMMARY
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4.2
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