Intervista a Marie Amiguet su La Pantera delle Nevi (2021)

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Sinossi: Su un altopiano tibetano, tra valli inesplorate e impervie vallate si trova uno degli ultimi santuari del mondo selvaggio dove vive una fauna rara e sconosciuta. Vincent Munier, uno dei fotografi di fauna selvatica più famosi al mondo, accompagna l’avventuriero romanziere Sylvain Tesson (Nella foresta della Siberia) nella sua ultima missione. Per diverse settimane, i due esploreranno queste valli alla ricerca di animali unici e cercheranno di avvistare il leopardo delle nevi, uno dei più rari e difficili felini da avvicinare.

La regista franco-svizzera Marie Amiguet si è formata come biologa e ha poi conseguito un master in cinema naturalistico (IFFCAM). Con Jean-Michel Bertrand ha girato La Vallée des Loups. Nel 2017 ha incontrato Vincent Munier con cui ha lavorato a Silence des Bêtes, una protesta contro il bracconaggio delle linci. In seguito, è partita per un’avventura in Tibet per filmare questo incontro tra uno scrittore e un fotografo.

Come ti è venuta l’idea di accompagnare Vincent Munier nella ricerca del leopardo in questa spedizione in particolare?

Vincent aveva visto il mio lavoro, in particolare il film La Vallée des Loups che ho realizzato con Jean-Michel Bertrand, e nel 2017 mi ha proposto questo progetto in Tibet. Non avrei mai potuto rifiutare un’avventura sulle alture del Tibet con uno scrittore che ammiro enormemente e Vincent, il fotografo che, come tutti sanno, nel frattempo, è diventato il mio compagno. Anche se, già all’epoca, ero preoccupata dell’impatto ambientale del nostro viaggio.

Dove siete andati esattamente?

Siamo andati nella parte orientale del Tibet, sugli altopiani che si trovano in media a 4.500 metri di altitudine, con cime che raggiungono i 6.000 metri. Il paesaggio è molto secco, molto arido. I vasti paesaggi si estendono a perdita d’occhio.

Quanto sono durate le riprese?

Sylvain, Vincent, Léo-Pol Jacquot, l’assistente alla regia, e io abbiamo fatto due soggiorni più lunghi di tre settimane, ma ci sono stati anche viaggi più brevi. Tuttavia, Vincent aveva già raccolto un’enorme quantità di video di fauna selvatica durante i suoi 5 viaggi precedenti, nei quali era solo o con amici naturalisti. Il suo primo viaggio risale al 2011.

Cosa eravate andati a filmare? Il leopardo delle nevi? Il famoso fotografo naturalista sulle tracce del leopardo? Un incontro “in vetta” tra lo scrittore con il dono della parola e il silenzioso maestro dell’attesa?

L’ho scritto sul mio taccuino prima di partire: volevo effettivamente filmare l’incontro tra due uomini provenienti da mondi molto diversi. Ero curiosa di scoprire che tipo di fuochi d’artificio sarebbero stati provocati da questo incontro, con, da un lato, Vincent, un uomo molto ricettivo nei confronti della natura, ossessionato dalla bellezza e di fatto un uomo di poche parole, e dall’altro questo scrittore estremamente loquace che vive la vita appieno. Mi piace filmare le persone appassionate e cercare di capire cosa spinge questi esseri umani eccezionali. Detto questo, non avevo idee prefissate. Non avevo fatto alcuno scouting di location e mi sono rifiutata di mettere in scena qualcosa. Quindi, dovevo semplicemente essere pronta a tutto ciò che si sarebbe presentato.

Come ha scelto i momenti in cui potevi filmare come desideravi senza intralciare il lavoro di Vincent? La tua macchina fotografica passava sempre in secondo piano quando il fotografo aveva già fatto tutte le foto di cui aveva bisogno?

È vero che Vincent, quando parte da solo, pensa solamente a fotografare. A malapena si prende il tempo di dormire un po’. Ma questa volta aveva in mente altre cose. Il suo obiettivo era condividere questa ricerca. E dal momento in cui ha deciso di portare con sé Sylvain, si è trovato in una modalità di lavoro diversa. Ha messo un po’ in secondo piano la fotografia. Il suo obiettivo era l’incontro da sogno tra Sylvain e il leopardo, così ci ha dato tutto lo spazio di cui avevamo bisogno. Ciò significava che bisognava essere doppiamente discreti. In primo luogo, per non disturbare i soggetti umani ed soprattutto per non disturbare la fauna selvatica che erano venuti a osservare… Ma io so cosa significa stare in attesa e so come essere discreta. Come loro mi sdraiavo a pancia in giù a terra, strisciavo quando dovevo muovermi, mi sono tenuta fuori dai piedi rimanendo dietro di loro o accanto a loro, trasformandomi in una specie pietra, immobile. In questo modo, ho filmato tutto ciò che accadeva e nulla è stato scritto. Questo significava anche, ovviamente, che non potevo andare avanti e indietro tra scatti e controscatti. Durante il nostro secondo soggiorno, nel 2019, sono riuscita ad anticipare un po’ i tempi, il che significa che ho potuto riprenderli da di fronte mentre si muovevano verso di me, mettendo un po’ di distanza tra di noi.

Ci sono stati momenti in cui la telecamera non era ben accetta?

Solitamente sono abbastanza veloce nel cogliere quando potrei essere d’intralcio, ma la presenza della telecamera non sembrava infastidirli. Si sono comportati in modo molto naturale, completamente presi dalla loro osservazione. In realtà non so come siano riusciti a farlo.

Anche se spettava a Vincent fotografare e filmare la fauna selvatica, hai anche registrato sequenze di animali selvatici?

A questo proposito, avevamo molto materiale che Vincent aveva portato dai suoi precedenti viaggi in Tibet, ma abbiamo aggiunto alcuni momenti girati durante il secondo viaggio, in particolare per la scena con gli orsi. Il mio obiettivo era davvero filmare i ragazzi, anche quando il leopardo è arrivato la prima volta. Sapevo che le telecamere di Léo-Pol e di Vincent stavano riprendendo le scene della fauna selvatica. Vivere l’incontro con il leopardo attraverso l’emozione negli occhi di Sylvain è stato ancora meglio che vedere l’animale dal vivo.

Marie Amiguet - Durante le riprese de La Pantere delle nevi - Foto di Vincent Munier
Marie Amiguet – Durante le riprese de La Pantere delle nevi – Foto di Vincent Munier

Può parlarci delle condizioni climatiche che avete affrontato durante le riprese?

Non posso negare che siano state difficili. A febbraio, la temperatura media al mattino è di -18°C, anzi -25°C. Un giorno, quando abbiamo dormito in tenda a 4.800 metri di altitudine, il termometro segnava -35°C, ma perché era la temperatura più bassa che poteva segnare! Naturalmente eravamo ben equipaggiati, ma ho dovuto trovare delle soluzioni per poter filmare. Soprattutto perché avere le dita molto fredde è un vero handicap per me. Per questo motivo, ho limitato il numero d’impostazioni della telecamera in modo da non dover togliere i guanti, oppure ho usato dei cuscinetti riscaldanti. Ho dovuto tenere conto anche del vento, che era molto frequente e forte e sollevava molte polveri sottili! Questo è stato un problema per l’attrezzatura e, in più, la polvere tra le mani e i denti rendeva il lavoro più difficile, oltre il fatto che era un viaggio in cui non avevamo acqua per lavarci quindi era un disagio molto più sgradevole del freddo.

A volte sembrava che le ore passate ad aspettare la comparsa di un animale fossero interminabili?

No, al contrario, quel tempo sembrava fin troppo breve. Soprattutto perché dovevo considerare il mal di montagna. Solo dopo circa 3 o 4 settimane ci si inizia a sentir bene, ed è allora che bisogna tornare giù! In ogni caso, durante i miei viaggi, ho capito che è fondamentale prendersi il proprio tempo. Soprattutto, non voglio viaggiare per “spuntare le caselle” ma per vivere pienamente il momento, scambiare, imparare e condividere. Ho voluto approfittare di ogni minuto di quell’esperienza, l’incontro con i nomadi, ad esempio, che ci hanno permesso di vivere con loro per 8-10 giorni, è stato tutto ciò di cui avevo bisogno per rendere il mio viaggio un successo!

Quali riferimenti avevi in mente quando eri in montagna?

A dire la verità ho semplicemente seguito la corrente. Quando siamo partiti, non avevo in mente nessun riferimento particolare, ho letto a malapena Tintin in Tibet prima di partire (risate)! Avevo letto i libri di Sylvain, conoscevo il lavoro di Vincent e so di amare ciò che è imprevedibile. Ma finché il lavoro non è finito, si possono solo avere dei dubbi.

Cosa vi ha incantato di più? Cosa vi ha aperto gli occhi? Quali paure hai affrontato?

Per quanto riguarda l’incanto, ho percepito ancora una volta la sensazione dell’immensità del paesaggio nel quale sei immerso e quanto come essere umano non sei davvero niente, o davvero molto insignificante. È un’esperienza che avevo già sperimentato nel sud dell’Algeria e anche in mare quando ho attraversato
l’Atlantico, ma da allora non mi era più capitato.

Un tema sul quale ho aperto gli occhi, è stato soprattutto l’impatto della politica cinese sulla cultura nomade tibetana, il governo la sta sradicando. Per esempio, abbiamo appreso che i tibetani non hanno il diritto di usare i portapacchi sulle loro auto perché vogliono assicurarsi che non intraprendano lunghi viaggi e alla popolazione locale non è permesso ricevere gli stranieri. Infine, più che una paura, mi ripetevo sempre una domanda: che significato avrà quello che stiamo facendo? Perché andare in Tibet oggi? Se è per parlare di avventura, sensazioni, tutto questo non ha alcun interesse. Sarà utile solo se il nostro film contribuirà a stimolare il dibattito e a sensibilizzare su quanto poco spazio oggi lasciamo alla fauna selvatica, credo che un cambiamento di paradigma sia urgente e necessario.

Il leopardo sembra davvero voler partecipare alla tensione della storia. Ha deciso di apparire proprio quando vi stavate preparando a lasciare il campo e il Tibet, come un vero e proprio sceneggiatore di un thriller. È stato un caso fortuito?

Si, soprattutto perché non immaginavo nemmeno che l’avremmo visto! Lo vedevo totalmente inaccessibile, era solo foto in un libro e per me era sufficiente. E poi è arrivata e che momento è stato… Ma la cosa forse più impressionante è che è stato questo vecchio leopardo, probabilmente il più malconcio di tutto il Tibet, che ha scelto d’incontrare Sylvain… C’era qualcosa di mistico in questo incontro.

Oggi, dopo tutto quello che ha vissuto lì e dopo i lunghi mesi trascorsi a montare il film, cosa rappresenta per te quel leopardo delle nevi?

È l’animale totem per eccellenza. Il che, paradossalmente, rappresenta anche un pericolo: è una di quelle specie che è così emblematica da poter eclissare tutte le altre. Ecco perché abbiamo scelto l’ultimo scatto, che è semplicemente una piccola coda rossa, per ricordare che tutta la fauna selvatica deve essere preservata e che dobbiamo prestare attenzione, vale per il leopardo come per un semplice lombrico. Resta il fatto che questo felino imperturbabile, che ci osserva discretamente dall’alto, è come una sentinella silenziosa sulla cima di un mondo che si sta danneggiando in modo irreversibile. È l’emblema di tutta quella diversità (animale, ma anche culturale) che sta scomparendo, coinvolta negli sconvolgimenti del nostro tempo. Incarna il concetto stesso di rarità; tipo di rarità a cui ci si può avvicinare, certo, ma molto cautela, per non disturbarla.

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