La ragazza del coro (2025). Spiritualità e sessualità

Recensione, trama e cast del film La ragazza del coro (2025). Urska Djukic racconta la scoperta del corpo e del desiderio in un contesto cristiano repressivo.

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La ragazza del coro (2025) - ©SPOK Films - Immagine ricevuta per uso editoriale da Tucker Film
La ragazza del coro (2025) – ©SPOK Films – Immagine ricevuta per uso editoriale da Tucker Film

Trailer di “La ragazza del coro”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Urška Djukić, regista e artista visiva slovena nata nel 1986 a Lubiana, ha intrapreso il suo percorso formativo presso l’Academy of Arts di Nova Gorica, dove ha affinato uno stile personale che fonde animazione, documentario e sperimentazione narrativa. La sua carriera ha conosciuto una svolta internazionale con il cortometraggio Granny’s Sexual Life, opera che ha conquistato oltre cinquanta riconoscimenti in tutto il mondo, tra cui il prestigioso European Film Academy Award come miglior cortometraggio nel 2022 e il César per il miglior corto d’animazione nel 2023.

Tra i suoi lavori precedenti si distingue The Right One, segmento del film collettivo SEE Factory Sarajevo mon amour, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes nel 2019. Nello stesso anno, Djukić è stata selezionata per la 39ª edizione della Residenza della Cinéfondation di Cannes, programma dedicato allo sviluppo di nuovi talenti internazionali. Durante questa esperienza ha iniziato a lavorare al suo primo lungometraggio, La ragazza del coro, co-sceneggiato con Maria Bohr, progetto che ha ricevuto il riconoscimento come miglior film in lavorazione al Festival di Les Arcs nel dicembre 2023.

Kaj ti je deklica, titolo originale del lungometraggio, significa letteralmente “Come va, ragazza?” ed è noto a livello internazionale anche con il titolo Little Trouble Girls, ovvero Piccole ragazze problematiche. In Italia, il film è stato distribuito con un titolo ulteriore e divergente: La ragazza del coro. Questa pluralità di titoli riflette la natura sfaccettata dell’opera, oltre che una tendenza eccessiva, da parte dei vari peaesi di modificare i titoli delle pellicole per ricercare di ottenere una maggior attrattiva da parte del pubblico. Scelta a tratti discutibile. 

Presentato in anteprima mondiale il 14 febbraio 2025 all’interno della sezione Perspectives del 75° Festival Internazionale del Cinema di Berlino, il film ha ottenuto una candidatura al Teddy Award, riconoscimento dedicato alle opere che esplorano tematiche LGBTQIA+ con sensibilità e originalità. Kaj ti je deklica è stato selezionato inoltre come candidato sloveno nella categoria miglior lungometraggio internazionale alla 98ª edizione degli Academy Awards. Il film viene distribuito nei cinema italiani dal 9 ottobre 2025 grazie alla casa di distribuzione Tucker Film — fondata nel 2008 dal CEC di Udine e da Cinemazero di Pordenone. 

Trama di “La ragazza del coro”

Lucia ha sedici anni. È una ragazza introversa e sensibile, cresciuta in una famiglia profondamente religiosa, dove il semplice atto di truccarsi è considerato peccaminoso, così come lo è il sesso e tutto ciò che lo riguarda. Frequenta il coro di una scuola cattolica femminile, un ambiente altrettanto rigido, dove le regole — esplicite e implicite — scandiscono ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio. Per Lucia, il canto, inizialmente vissuto come esercizio di disciplina, si trasforma in qualcos’altro: un linguaggio del corpo, un impulso sessuale ed emotivo, che sfugge al suo stesso controllo.

Questo cambiamento è innescato dalla presenza di Ana-Maria, sua coetanea e compagna di coro, dal carattere diametralmente opposto. Ana-Maria è sicura di sé, carismatica, estroversa, non incline al senso di colpa cristiano quando commette “peccati” o coltiva pensieri “carnali”. Tra le due nasce un’amicizia intensa, fatta di complicità e di attrazione, nuove e sconosciute almeno per Lucia, ancora bambina dal punto di vista sessuale. L’incontro con Ana-Maria apre una breccia nel suo mondo interiore, conducendola verso un territorio emotivo inesplorato, dove il turbamento e il desiderio si mescolano in una confusione identitaria.

I sentimenti che emergono — gelosia, fascinazione, bisogno di riconoscimento — costringono Lucia a interrogarsi su questioni profonde e destabilizzanti: a chi appartiene il proprio corpo? Quali sono i confini tra amicizia e attrazione? Come si gestisce il conflitto tra ciò che si prova e ciò che ci viene insegnato a reprimere?

Recensione di “La ragazza del coro”

La scintilla che ha innescato il progetto è arrivata nel 2018, mentre assistevo al concerto di un coro femminile sloveno. Sentendo cantare quelle ragazze giovanissime, i miei occhi si sono immediatamente riempiti di lacrime: sono rimasta profondamente colpita dalla potenza delle loro voci, voci che oscillavano sul filo del risveglio della femminilità, al punto che ho dovuto trattenere le mie emozioni per evitare di scoppiare a piangere durante l’esibizione. C’erano anche tre sacerdoti seduti tra il pubblico: si sono commossi quanto me e ho capito che tutto questo era molto significativo. Insomma, non potevo fare altro che esplorare le nostre risposte emotive attraverso il linguaggio del cinema.

Note di regia

La sessualità repressa, la scoperta del corpo e dell’identità femminile: sono queste le tematiche che sembrano attraversare con coerenza la filmografia di Urška Djukić. E sarà probabilmente questo il focus drammaturgico su cui si concentreranno i suoi lavori post-2025. Osservando il suo percorso autoriale, emerge una tensione costante tra memoria e desiderio, tra condizionamento sociale e risveglio individuale. Nel 2021, insieme all’artista visiva Émilie Pigeard, Djukić ha diretto il cortometraggio d’animazione Granny’s Sexual Life, scritto con Maria Bohr, che si basa sulle testimonianze di quattro donne anziane che riflettono sulla loro giovinezza in un contesto storico sloveno segnato da forti disuguaglianze di genere. Le loro voci si fondono in quella di nonna Vera, personaggio simbolico che racconta con precisione la propria vita sessuale, soffermandosi sulla scoperta del corpo e sulla consapevolezza della propria identità. La voce di Vera diventa voce collettiva, e parlare — in quel contesto — è già un atto di resistenza, un modo per riappropriarsi della propria storia e trasformare il dolore in consapevolezza.

Questa riflessione sulla sessualità, filtrata attraverso la memoria, trova un corrispettivo tematico nel lungometraggio La ragazza del coro, dove la scoperta del corpo e del desiderio avviene nel presente, attraverso l’esperienza di Lucia, una sedicenne che vive in un ambiente scolastico cattolico. Lucia non ha ancora attraversato le tappe biologiche e affettive della maturazione, ma l’incontro con Ana-Maria — coetanea carismatica — e con un operaio del convento di Cividale innesca in lei un moto interiore, un impulso emotivo e fisico che non sa come gestire. Questo risveglio è reso ancora più complesso dalla cultura cristiana in cui è cresciuta, permeata da un senso di peccato che condiziona la percezione del corpo e del desiderio.

In entrambe le opere, il corpo femminile è al centro della narrazione: non come oggetto, ma come spazio di esperienza, di conflitto e di trasformazione. Vera racconta ciò che è stato, Lucia vive ciò che sta diventando. Le due storie si parlano attraverso il tempo, mostrando come le dinamiche di genere, la pressione sociale e la difficoltà di esprimere il desiderio siano questioni persistenti, che attraversano generazioni e accompagnano l’evoluzione dell’identità umana. La voce femminile, in questo contesto, è il mezzo attraverso cui le protagoniste cercano di affermarsi, rompendo il silenzio e conquistando uno spazio di libertà. In Granny’s Sexual Life, è la voce della memoria. In La ragazza del coro, è la voce del presente, incarnata nel canto di Lucia, che da esercizio collettivo si trasforma in espressione personale. Attraverso il canto, Lucia comincia a percepire il proprio corpo, a riconoscere il desiderio, a interrogarsi su chi è e cosa sente.

La ragazza del coro, rispetto al cortometraggio d’animazione Granny’s Sexual Life, si concentra in modo più diretto e viscerale sulla paura dell’accettazione della sessualità e sulla confusione identitaria che questa può generare in chi la scopre. In particolare, nel caso di Lucia, adolescente cresciuta in un contesto rigido e moralista, l’emergere di emozioni nuove e inattese nei confronti della sua compagna di coro — una ragazza — entra in netto contrasto con l’educazione cristiana ricevuta, dove l’amore e l’attrazione sono concepiti esclusivamente come unione tra uomo e donna. Accanto a questi impulsi fisici, ovvero una pulsione animalesca naturale verso Ana-Maria, apparentemente ricambiata, Lucia si scopre attratta anche da un operaio del convento, un uomo che lei osserva da lontano, mangiandolo con lo sguardo. Le emozioni che prova in sua presenza sono le stesse che sperimenta accanto all’amica del coro: turbamento, desiderio, fascinazione. Ma mentre Ana-Maria sa esattamente chi è e cosa vuole, Lucia si muove in un territorio incerto, dove ogni emozione è contaminata dal senso di colpa e dalla paura del peccato.

Il film, attraverso una narrazione di formazione, racconta la confusione di una giovane ragazza che si scopre improvvisamente bisessuale, immersa in un universo sociale e simbolico profondamente connesso al sacro, alla Madonna, alla sfera cristiana. Questo contesto amplifica la tensione tra ciò che Lucia sente e ciò che le è stato insegnato a reprimere. La sessualità, nella sua forma più autentica, viene percepita come una trasgressione, come qualcosa di peccaminoso e dunque da nascondere, da temere. Proprio a causa di questa frattura interiore — alimentata anche dall’ambiente circostante — Lucia cade in una spirale di smarrimento, raccontata con grande sensibilità dalla regista attraverso l’espediente del coro e dell’uso della voce. Se all’inizio del film la vediamo cantare con sicurezza e gioia, nell’ultimo atto la sua voce si spezza: è sottile, rotta, incrinata. La rigidità fisica che la blocca è il riflesso del suo disagio interiore, della lotta tra il desiderio e la colpa, tra il corpo che si risveglia e la mente che lo condanna. Il canto, che all’inizio era esercizio collettivo e spirituale, diventa così metafora del conflitto interiore: uno spazio in cui la voce non riesce più a fluire, perché ciò che vuole esprimere è ancora indicibile. In questo senso, La ragazza del coro non è solo un racconto di formazione, ma un’indagine profonda sul rapporto tra fede, identità e desiderio, dove il corpo femminile diventa campo di battaglia tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere.

Eleganza visiva e tensione interiore: il corpo e il sacro in La ragazza del coro

La regista Urška Djukić, senza mai cadere nel rischio di una rappresentazione didascalica o eccessivamente esplicita della sessualità, sceglie un approccio visivo elegante, onirico e sofisticato, dove il senso di scoperta del corpo e delle emozioni non passa attraverso il dialogo, ma attraverso il sonoro e il linguaggio della macchina da presa. Il film costruisce una grammatica visiva che racconta il desiderio senza nominarlo, lasciando che siano gli sguardi, i gesti e le inquadrature a parlare. Le riprese del coro, in particolare, sono emblematiche: sia quelle che si concentrano sullo sguardo di Lucia rivolto alla compagna Ana-Maria, sia le riprese ravvicinate delle bocche delle ragazze, creano una tensione sensoriale impregnata di sessualità. Il canto, da esercizio collettivo, diventa esperienza corporea, trasformazione emotiva, risveglio pulsionale. Ogni nota, ogni respiro, ogni vibrazione vocale racconta ciò che Lucia sta vivendo, ciò che la sta mutando. Accanto a queste scene, il film propone inquadrature poetiche connesse al senso stesso della sessualità. La prima immagine del film — che sembra aprirsi su un quadro vaginale, con la macchina da presa che si avvicina lentamente a un elemento decorativo, accompagnata da un sottofondo di sospiri — stabilisce subito il tono. Così come la scena dell’ape che penetra nel fiore, metafora elegante e naturale dello sbocciare della protagonista, del suo passaggio da innocenza a consapevolezza.

La forza del film risiede proprio nella sua capacità di raccontare eventi ed emozioni profonde senza eccessi, attraverso una regia poetica e misurata, capace di restituire la complessità del risveglio sessuale senza ricorrere alla parola. Questo è reso possibile anche grazie all’ottima performance della giovanissima Jara Sofija Ostan, che interpreta Lucia con intensità e delicatezza, riuscendo a incarnare il turbamento, la curiosità, la paura e il desiderio con una recitazione di sottrazione, fatta di sguardi, posture e silenzi. Ciò che invece appare meno riuscito — pur interessante — è l’elemento onirico-religioso, che affiora a tratti nel corso del film in modo dissonante. In particolare, la voce uditiva che Lucia sembra sentire (forse una personificazione del diavolo?) e la sequenza finale, prima dei titoli di coda, dove la sceneggiatura si immerge in un onirismo religioso poco decifrabile, rischiano di spezzare la coerenza narrativa. Questo segmento, per quanto visivamente curato, stona con il realismo emotivo che ha sostenuto la pellicola fino a quel momento.

Le scene oniriche sul finale, ambientate tra il lago e una grotta, con al centro un gruppo di suore e Lucia, sono oggettivamente ben girate e ben montate. La loro inquietudine visiva è efficace, ma la loro funzione narrativa appare ambigua, forse non del tutto adatta alla conclusione della storia. Proprio nel momento di massima crisi interiore della protagonista, il film sembra tagliarsi, lasciando sospesa la narrazione lineale e tradizionale che aveva costruito con precisione fino a quel punto. Più riuscito — anche se non esente da perplessità — è l’elemento della voce interiore, un rantolo basso e inquieto che Lucia percepisce nei momenti in cui le pulsioni prendono il sopravvento. È un suono che non spiega, ma evoca. Un segnale che qualcosa dentro di lei sta cambiando, che il corpo sta parlando, che il desiderio sta emergendo — e che la coscienza, educata al peccato, non sa come contenere. Questo suono, che si insinua tra le pieghe del racconto, funziona come metafora acustica del conflitto interiore. Non è una voce esterna, né una presenza demoniaca esplicita, ma un’eco profonda, una vibrazione che accompagna il risveglio sessuale e la disgregazione dell’identità cristallizzata. È il corpo che reclama spazio, è la mente che vacilla, è la fede che non basta più a contenere ciò che si muove dentro.

In conclusione

La ragazza del coro conferma l’interesse di Urska Djukic per la sessualità femminile come spazio di conflitto, scoperta e trasformazione. Dopo Granny’s Sexual Life, dove la memoria diventa strumento di riappropriazione identitaria, questo nuovo lavoro si concentra sul presente, raccontando il risveglio emotivo e corporeo di una giovane donna in un contesto cristiano repressivo. La regista slovena costruisce un racconto di formazione che evita il didascalismo, affidandosi a un linguaggio visivo e sonoro poetico, dove il corpo e la voce diventano strumenti di narrazione. Il film esplora la tensione tra desiderio e dogma, tra pulsione e colpa, tra libertà e controllo, restituendo con eleganza la confusione e la fragilità di chi si scopre diversa in un mondo che non ammette deviazioni. Pur con alcune incertezze nella gestione dell’onirismo religioso, l’opera si distingue per la sua coerenza stilistica e per la forza espressiva della protagonista.

Note positive

  • Regia elegante e visivamente sofisticata
  • Approccio poetico alla scoperta della sessualità
  • Uso efficace del sonoro e della voce come strumenti narrativi
  • Performance intensa e credibile di Jara Sofija Ostan
  • Inquadrature simboliche e cariche di tensione emotiva

Note negative

  • Elemento onirico-religioso poco chiaro e non ben integrato

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
4.1
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.