L’amore in città (1953). Le donne degli anni ‘50 e la durezza della vita

Recensione, trama e cast del film L’amore in città (1953). Film collettivo sull’amore e la condizione femminile nell’Italia del dopoguerra.

Trailer di “L’amore in città”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

L’amore in città (1953) rappresenta un esperimento produttivo e autoriale unico nel panorama del cinema italiano del dopoguerra. Concepito da Cesare Zavattini, Marco Ferreri e Riccardo Ghione come il primo numero di una “rivista cinematografica” pubblicata su pellicola, il progetto nasce con l’intento di raccontare ed esplorare, in maniera autentica, la realtà sociale del tempo, attraverso lo sguardo di alcuni tra i più importanti cineasti della nuova generazione, quella degli anni ’50, nata dopo la Seconda guerra mondiale. L’idea era quella di realizzare una serie di film collettivi, ciascuno composto da episodi autonomi ma legati da un tema comune — in questo caso, l’amore — affidati a registi diversi. Tuttavia, L’amore in città rimase l’unico numero mai realizzato di questa ambiziosa iniziativa.

La produzione fu affidata alla Roma Faro Film, con Zavattini, Ferreri e Ghione come principali promotori. Il film coinvolse sette giovani registi: Michelangelo Antonioni (Cronaca di un amore, 1950; La signora senza camelie, 1953), Federico Fellini (Luci del varietà, 1950; Lo sceicco bianco, 1952), Alberto Lattuada (Il delitto di Giovanni Episcopo, 1947; Il mulino del Po, 1949), Carlo Lizzani (Achtung! Banditi!, 1951; Ai margini della metropoli, 1953), Francesco Maselli (Tibet proibito, 1949; Finestre, 1950), Dino Risi (Vacanze col gangster, 1952; Il viale della speranza, 1953) e lo stesso Zavattini, noto soprattutto come sceneggiatore di film come Darò un milione (1935) e 4 passi fra le nuvole (1942).

Ognuno di loro firmò un episodio, ma il coordinamento tra le varie parti fu minimo. Zavattini, in una riflessione successiva, riconobbe che la mancanza di un’idea centrale condivisa e di una visione unificata indebolì il progetto, rendendolo frammentario e disomogeneo. I registi lavorarono in autonomia, con contatti sporadici tra loro, e questo si rifletté nella varietà stilistica e metodologica degli episodi: alcuni girati in stile documentaristico, altri con attori professionisti e una messa in scena più teatrale.

Dal punto di vista distributivo, il film — rilasciato nei cinema italiani il 27 novembre 1953 — fu affidato alla DCN (Distribuzione Cinematografica Nazionale), ma la sua uscita fu segnata da difficoltà e controversie. Le prime copie destinate all’estero furono censurate, con l’eliminazione del segmento di Carlo Lizzani dedicato alla prostituzione. La ricezione critica fu fredda, e il pubblico non rispose positivamente. Solo pochi intellettuali, come André Bazin, ne colsero il valore sperimentale e l’originalità del formato. Altri critici, invece, misero in dubbio l’autenticità delle testimonianze filmate, accusando il film di manipolare la realtà e di guidare eccessivamente i non-attori coinvolti.

Trama di “L’amore in città”

In una città che pulsa di desideri e contraddizioni, l’amore si manifesta nelle sue forme più fragili e tormentate. Attraverso una serie di episodi ambientati nella Roma degli anni ’50, sei cineasti italiani esplorano le pieghe nascoste dell’affettività urbana, dove la passione si confonde con la solitudine e il bisogno di legami si scontra con la durezza della realtà sociale.

È un racconto di sensualità e del gioco stesso di attrazione tra uomo e donna, ma anche un racconto di miserabili e disgraziate: di tentati omicidi in nome dell’amore; di giovani donne abbandonate dai propri amanti e promessi sposi dopo gravidanze indesiderate; di madri costrette ad abbandonare i figli a causa della loro condizione sociale, reiette e invisibili agli occhi della società; di adolescenti spinte verso il matrimonio dalla famiglia e dalla pressione sociale, dove il vincolo coniugale rappresenta, per molte, l’unica via di fuga dalla povertà.

Recensione di “L’amore in città”

L’amore in città non è certamente una grande pellicola, soffrendo di diverse problematiche interne di progettazione più che di regia o di sceneggiatura — problematiche che persino Cesare Zavattini, ideatore del progetto filmico e regista dell’episodio Storia di Caterina, riconobbe nel tempo, puntando il dito sulla mancanza di omogeneità all’interno del lungometraggio. Il film intendeva raccontare l’amore dal punto di vista femminile nella società romana degli anni ’50, ma finisce per raccontare, piuttosto, la condizione delle donne in quel contesto storico, mentre l’amore — quello romantico e intenso — rimane sullo sfondo, marginale rispetto alla narrazione.

Al posto di storie d’amore vere e proprie, troviamo per lo più vicende tragiche di donne scottate dall’amore, che, a causa di uomini meschini, si ritrovano a tentare il suicidio o a diventare donne di strada, reiette sociali costrette a sbarcare il lunario per sopravvivere — spesso e volentieri — insieme ai loro figli. In L’amore in città, dunque, l’amore positivo e idilliaco è completamente assente, fatta eccezione per un unico capitolo: Paradiso per tre ore, diretto con maestria da Dino Risi. Ambientato in una sala da ballo che ogni domenica, dalle 17:00 alle 20:00, ospita l’arte del corteggiamento, il cortometraggio mostra giovani donne che tentano di sedurre giovani uomini, i quali cercano di apparire piacenti alle ragazze che, un giorno, potrebbero diventare le loro mogli.

Questo episodio, decisamente più spensierato, possiede un’impostazione drammaturgica e registica completamente opposta rispetto ai corti precedenti, come Amore che si paga di Carlo Lizzani e Tentato suicidio di Michelangelo Antonioni. Si tratta di due cortometraggi dal taglio giornalistico, incentrati sul racconto di persone reali, riprese attraverso l’obiettivo della macchina da presa. Né LizzaniAntonioni utilizzano attori: preferiscono raccontare pezzi di vita autentici, affidandosi alla voce di chi ha vissuto quelle esperienze. Così Lizzani intervista sette prostitute romane, narrando le loro storie di abbandono e inganno, e costruendo una critica sociale verso una realtà che le ha costrette a vivere ai margini. Antonioni, in linea con il suo percorso filmico, affronta il tema del suicidio, portando sullo schermo cinque storie di giovani donne che hanno tentato di togliersi la vita dopo essere state abbandonate dal partner. Una narrazione che, per certi versi, richiama quella de I vinti, pellicola coeva allo stesso cortometraggio Tentato suicidio.

Se Lizzani e Antonioni rifiutano completamente il linguaggio della fiction, abbracciando una prospettiva giornalistica e raccontando le storie attraverso una voce esterna — quella di un reporter invisibile che intervista donne reali, le quali interpretano semplicemente sé stesse — Dino Risi e Federico Fellini adottano invece un approccio drammaturgico diametralmente opposto. Entrambi scelgono di impiegare attori professionisti, allontanandosi così da un’osservazione diretta della società contemporanea. La realtà non viene mostrata per ciò che è, ma ricreata in modo artificioso, in contrasto con la scelta di Antonioni, che fa rivivere alle sue protagoniste il dramma del tentato suicidio, quasi come in una seduta psicoanalitica.

Fellini, ad esempio, realizza il cortometraggio Agenzia matrimoniale, un racconto interessante ma talvolta assurdo — soprattutto per la motivazione del protagonista — mettendo nei panni dei protagonisti due attori professionisti come Antonio Cifariello e Livia Venturini, quest’ultima nota per i suoi ruoli in La strada di Fellini e Non ci resta che piangere di Benigni e Troisi. Anche in Paradiso per tre ore di Risi troviamo attori professionisti, come Luisella Boni, già vista in La trovatella di Milano di Giorgio Capitani (1956) e in Fanciulle di lusso di Bernard Vorhaus (1953). 

Se il corto di Fellini, pur essendo più vicino alla fiction, conserva alcuni elementi comuni con i precedenti — come l’uso della voce over, che in questo caso coincide con il pensiero del protagonista, e la descrizione della condizione femminile miserabile — il cortometraggio di Risi si distacca completamente da quanto visto finora. Privo di dialoghi e battute, Paradiso per tre ore racconta esclusivamente il gioco della seduzione tra un ballo e l’altro, concentrandosi non sui miserabili, ma su una classe sociale leggermente più agiata. Il corto vive nella musica e nel movimento, e può essere paragonato solo all’ultimo episodio del film, Gli italiani si voltano di Lattuada, un siparietto visivo e musicale che mette in scena il gioco della sessualità: le eleganti donne degli anni ’50 camminano per strada, scrutate dagli uomini che si perdono a fissarne gambe, petto e il fondoschiena, tentando talvolta un approccio con queste belle donne che lì attraggono profondamente. In questo cortometraggio, Lattuada — mostrando il suo talento registico — crea una sequenza visiva ironica e leggera, una scena che, nel 2025, non potrebbe più essere realizzata. I cambiamenti di costume e di atteggiamento degli uomini e delle donne, insieme a una maggiore sensibilità sociale, renderebbero oggi tale rappresentazione potenzialmente maschilista, anche per la presenza di uomini invadenti (come la scena finale del film stesso). Eppure, la sequenza rappresenta con efficacia la mentalità dell’Italia degli anni ’50, un’epoca profondamente distante da quella odierna, sia per valori che per dinamiche relazionali. 

Nel realizzare il suo cortometraggio, Alberto Lattuada fa uso — almeno in parte — di attori professionisti, costruendo appositamente dei siparietti ironici. Tra i volti noti presenti nel segmento da lui diretto, Gli italiani si voltano, troviamo Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Giovanna Ralli, Marco Ferreri e Valeria Moriconi, solo per citarne alcuni. Questa scelta si pone in netta contrapposizione con i primi due episodi del film e con Storia di Caterina, probabilmente il cortometraggio più intenso — insieme al primo — tra quelli presentati in L’amore in città.

In Storia di Caterina, Francesco Maselli e Cesare Zavattini, pur con alcune divergenze stilistiche e rinunciando a una narrazione giornalistica, raccontano la tragica vicenda di Caterina Rigoglioso, che interpreta sé stessa nel rievocare l’episodio più doloroso della sua vita: l’abbandono del figlio a causa della sua estrema povertà. Il corto si configura come una commistione tra documentario e finzione, dove la protagonista — diversamente da quanto accade in Tentato suicidio di Antonioni, basato su interviste — assume il ruolo di attrice della propria storia.

La sua interpretazione, intensa e profondamente umana, ha reso questo episodio uno dei più discussi dell’intera pellicola, per il forte coinvolgimento emotivo e per la scelta coraggiosa di farle rivivere un trauma così profondo. Alcuni critici dell’epoca misero in dubbio l’autenticità della scena, ritenendola eccessivamente costruita. Tuttavia, la presenza di Caterina Rigoglioso rimane uno degli elementi più potenti e memorabili del progetto. 

L’amore in città si configura come un’opera collettiva che, pur nascendo da un’intenzione nobile e innovativa — quella di raccontare l’amore nella società italiana del dopoguerra attraverso lo sguardo di diversi registi — finisce per tradire le proprie premesse, risultando un lungometraggio privo di unità narrativa e di coerenza ritmica, nonostante la presenza di cortometraggi ben diretti e di indubbio valore.

La frammentazione interna, dovuta alla diversità stilistica e ideologica degli autori coinvolti, genera un effetto di discontinuità che compromette la fluidità dell’esperienza visiva. Ogni episodio sembra muoversi secondo logiche autonome, con registri che oscillano dal grottesco al drammatico, dal documentario all’inchiesta, senza un filo conduttore capace di armonizzare le voci in un discorso complessivo.

La mancanza di un tema portante ben sviluppato — che vada oltre la generica esplorazione dell’amore negativo — si traduce in una narrazione episodica e dispersiva, incapace di costruire una tensione interna o di offrire una progressione emotiva. Il ritmo del film ne risente: si passa da momenti di intensa partecipazione, come in Storia di Caterina, a segmenti più leggeri o caricaturali, come quelli diretti da Lattuada, senza una modulazione che accompagni lo spettatore in un percorso coerente.

La macchina da presa, pur cercando di catturare frammenti di verità attraverso interviste e ricostruzioni, si muove in modo disordinato e esitante, come se il film stesso non sapesse dove andare. In questo senso, L’amore in città non è tanto un’opera corale quanto una raccolta di voci isolate, ciascuna impegnata a raccontare una propria idea di amore, ma incapace di dialogare con le altre.

Il risultato è un film che, pur offrendo spunti di grande interesse e momenti di autentica intensità, manca di una visione d’insieme, lasciando lo spettatore con la sensazione di aver assistito a un esperimento incompiuto, più stimolante per ciò che promette che per ciò che effettivamente realizza.

In conclusione

La disorganicità di L’amore in città non si limita alla varietà stilistica dei singoli episodi, ma si manifesta soprattutto nella sua incapacità di costruire un arco narrativo coerente, capace di guidare lo spettatore attraverso un percorso emotivo e concettuale. Il film, pur presentandosi come un’indagine sull’amore nella società romana degli anni ’50, non riesce a definire con chiarezza cosa intenda per “amore”, né a svilupparne una visione unitaria. Il sentimento che dovrebbe essere al centro del racconto si dissolve in una serie di declinazioni frammentarie, spesso dolorose, talvolta grottesche, che finiscono per raccontare più la miseria sociale e la condizione femminile che l’amore in sé. Questa ambiguità tematica si riflette direttamente sul ritmo del film, che appare spezzato, incerto, incapace di mantenere una tensione narrativa costante.

Note positive

  • La regia dei singolo cortometraggi

Note negative

  • Mancanza di coerenza narrativa e stilistica
  • Assenza di un tema portante ben sviluppato
  • Alternanza discontinua tra fiction e documentario
  • Ritmo altalenante e struttura episodica dispersiva
  • Narrazione frammentata e poco armonizzata

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.2
Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.