L’ultimo inquisitore: Goya e la rivoluzione

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L'ultimo inquisitore locandina

L’ultimo inquisitore

Titolo originale: Goya’s Ghosts

Anno:2006

Paese: Spagna

Genere:Drammatico

Produzione:Kanzaman, Saul Zaentz Company, Xuxa Producciones

Distribuzione: Medusa Film

Durata: 117 min

Regia:Milos Forman

Sceneggiatura:Milos Forman, Jean-Claude Carrière

Montaggio:Adam Boome

Fotografia:Javier Aguirresarobe

Musiche:José Nieto , Varhan Bauer

Attori:Javier Bardem, Natalie Portman, Stellan Skarsgård, Randy Quaid

Trailer americano de L’ultimo inquisitore

Trama de L’ultimo inquisitore

Nell’anno della rivoluzione francese, il 1972, la Santa Inquisizione incrimina la giovane musa del pittore della corte spagnola, Francisco Goya, questo per salvarla andrà a chiedere aiuto a un monaco.

Recensione de L’ultimo inquisitore

L’ultimo inquisitore è l’opera che segna in pratica il congedo di Miloš Forman dalla scena cinematografica mondiale, eppure le ragioni della sua singolarità albergano soprattutto nel legame fra la storia narrata dallo schermo e le esperienze di vita del regista ceco naturalizzato americano (ma forse sarebbe meglio dire “hollywoodiano”). Andiamo con ordine. Forman, che appartiene alla folta schiera d’intellettuali e artisti emigrati dal proprio Paese dopo la “Primavera di Praga”, lesse negli anni Cinquanta un libro sull’Inquisizione spagnola e vi trovò fatti e sentimenti ben noti a chi serbava il ricordo degli orrori hitleriani e, in simultanea, era calato in
quelli del Comunismo reale. Ciò che poi accadde in seguito lo riferiamo con le sue parole:

Un argomento che volevo affrontare un giorno, e che mi tornò alla memoria negli anni Ottanta. Per la prima volta mi recai al “Museo del Prado” a Madrid e vidi i dipinti di Goya. Vidi le memorie di quel libro che lessi trent’anni prima venire illustrate da questo Goya. Tu vedi ogni cosa là, tu vedi i tribunali dell’Inquisizione, le camere di tortura, i manicomi, le prigioni. Tu vedi tutto quanto dipinto da Goya. E così che io mi trovai improvvisamente a cercare di mettere insieme questi due elementi, mi sembrava come una cosa stimolante da provare.

Miloš Forman – I fantasmi di Goya, in Ars et furor – Periodico di cultura artistica e di informazione, Anno III, nº 9/10, Maggio/Agosto 2007

Nel 2006, finalmente, gli echi del passato e le suggestioni più moderne si coagulano in materia filmica: quel che ne viene fuori è un prodotto non fortunatissimo al botteghino ma, anche per il curriculum del suo artefice, dalla maggior parte dei critici ben accolto.

Analisi de L’ultimo inquisitore

Cominciamo da una nota amara, ovvero il titolo italiano. C’è poco da fare: i casi di “nomenclatura” fuorviante si rivelano sempre di gran lunga superiori ai loro opposti, tanto che l’abitudine di avviare la critica di un qualunque film segnalando ciò somiglia oramai a un vizio di moda. Eppure il dettaglio non è di scarsa rilevanza, poiché l’opera è già multicentrica di suo, oltre che non ben coesa sotto certo aspetti sui quali ritorneremo, e la più importante delle indicazioni fornite allo spettatore dovrebbe andarle incontro invece che crearle nuovi ostacoli. Il titolo originale del lungometraggio girato in lingua inglese è Goya’s Ghosts, come in pratica annunciato dal regista medesimo prima ancora che le scritte di presentazione inizino a riempire lo schermo. Vediamo appunto subito quali sono i “fantasmi” del genio d’Aragona, di cui ci vengono mostrate parecchie incisioni derivanti per lo più dai cicli La Tauromaquia e Los Caprichos, quest’ultimo passato alla storia in particolar modo per il foglio 43, ossia il celebre El sueño de la razón produce monstruos. È qui, nei suoi cinque minuti inaugurali, che giace la chiave di lettura del film. Siamo nel 1792, epoca in cui gli effetti del 14 luglio parigino si espandono pian piano per l’Europa intera, e l’Inquisizione spagnola, che da tempo ha attenuato le proprie misure punitive, decide, su suggerimento del membro Lorenzo Casameres (un Javier Bardem come sempre credibile), di ritornare a infondere nel popolo il timor sacro di Dio, obiettivo che, tradotto in soldoni, preannuncia un utilizzo degli strumenti di tortura assiduo come negli anni più bui. Il tutto, paradosso, avviene per “colpa” di Goya, che Casamares, personaggio immaginario, difende dagli attacchi di religiosi ovviamente scandalizzati dalle incisioni. Gli incubi dell’artista sono di un’atrocità indubbia che lui medesimo, a quanto pare, spiega così in un manoscritto conservato al Prado:

La fantasia abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili: unita a lei è madre delle arti e origine delle meraviglie.


Goya, sostiene Casamares, esprime solo il male che tempesta il pianeta, ma il compito di far pulizia spetta ai padri dell’alto Ufficio. Ecco: da qui in poi i fantasmi del titolo, prima già in cammino, si metteranno invece a correre fino alla tragica esplosione del periodo che va dal 1808 al 1814, periodo in cui la Spagna sputò sangue per riconquistare l’indipendenza rubatale dai cavalli di Bonaparte. Al termine della contesa bellica, difatti, vedranno la luce altri capolavori goyani come Los desastres de la guerra e Las pinturas negras.

Nel film c’è un salto temporale di quindici anni, più o meno il medesimo, in base a ciò che abbiamo scritto sopra, interposto fra i giorni della giovinezza durante i quali Forman lesse dell’Inquisizione e il 1968, culmine in Cecoslovacchia della repressiva politica di stampo sovietico. A dominare la scena è dunque la psiche di Goya in rapporto al vero (un Goya interpretato, dobbiamo dirlo, da uno Stellan Skarsgǻrd che con le menti alterate va a nozze), così non c’è da stupirsi che il pittore in carne e ossa, con le sue reazioni immediate e comprensibili, rimanga relegato sullo sfondo. Tutto questo si collega alla biografia di Don Francisco, che fu al servizio dei re di Spagna e non si inimicò mai nessuno, ma, in simultanea, dipinge pure quella che è un po’ la posizione di molti artisti in tempi di oscurantismo e/o di conformismo di regime, ossia: vivere sempre a lato, perfino rispetto a se medesimi; discernere l’esistenza pratica dall’attività creatrice più autentica; sperare che in futuro la riabilitazione non manchi…

Lorenzo Casamares, inquisitore perfido che sfugge alla condanna a morte e ritorna nella Penisola Iberica da procuratore capo del governo di Parigi, il tutto dopo avere ingravidato una prigioniera dei Padri la quale è proprio una modella di Goya (una Natalie Portman double face), non è altro che un espediente filmico, una fantasia, un’allucinazione. O meglio: non è altro che un fantoccio, in spagnolo Pelele, nome di un dipinto di Goya e pure della canzoncina popolare che alcuni bimbi
intonano mentre il cadavere dello stesso Casamares, giustiziato in seguito alla cacciata da Madrid
dei francesi, è condotto via da un carro. Più chiaro di così…

In mezzo al significato c’è un’intera storia, una trama da Novelas ejemplares di Cervantes che però non ci sentiamo di sciorinare poiché, dispiace un po’ dirlo, la trattazione è da “Polpettone”, come si suole definire certi intrecci. Miloš Forman non ha mai abiurato gli artifici spettacolari di Hollywood, ma negli altri suoi film, da Ragtime in poi basati sempre sulle biografie di personaggi realmente esistiti, le molteplici fila della narrazione erano tenute assieme con più maestria e con meno concessioni al gusto moderno da soap opera. Un vero peccato, insomma, anche perché il cast è ottimo e la fotografia ancora una volta preziosissima.

La tendenza al feuilleton storico-cinemotagrafico, del resto, è oramai diffusa a macchia di leopardo: serva da prototipo, per citare un titolo che ci ricollega a Natalie Portman, L’altra donna del re, del 2008. Quali gli attributi di questa sorta di genere? Ne indichiamo tre: la fuoriuscita rara da interni raffinati e lussuosi, come in Beautiful; il ritmo incalzante e perennemente al servizio di assai comuni intrighi; la bravura di uno o più attori che, oltre a reggere la baracca, le conferiscono perfino un tocco di “autorialità”/interesse culturale.

Il giudizio complessivo su L’ultimo inquisitore di Miloš Forman è comunque da intendersi in maniera meno severa: il Cineasta c’è; gli sprazzi in cui lo schermo diviene il collettore d’istanze varie pure. Il problema è l’anno di edizione dell’opera, forse…

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