Occhi senza volto (1960). Un horror diluito tra censura e suggestione visiva

Recensione, trama e cast del film horror francese Occhi senza volto (1960), adattamento dell'omonimo romanzo di Jean Redon

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Trailer di “Occhi senza volto”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Nel 1959, all’interno della collana Angoisse delle edizioni Fleuve Noir, venne pubblicato il romanzo horror Les Yeux sans visage, opera prima dello scrittore francese Jean Redon, ex giornalista, pubblicista cinematografico e sceneggiatore. Quasi immediatamente dopo l’uscita del romanzo, il produttore Jules Borkon ne acquistò i diritti, offrendo la regia dell’adattamento cinematografico a Georges Franju, co-fondatore della Cinémathèque Française. Per il suo secondo lungometraggio, Franju collaborò nuovamente con figure di fiducia, già coinvolte nei suoi precedenti lavori, tra cui il direttore della fotografia Eugen Schüfftan e il compositore Maurice Jarre, vincitore di tre premi Oscar per le colonne sonore di Lawrence d’Arabia (1962), Il dottor Zivago (1965) e Passaggio in India (1984).

Girato nei sobborghi parigini e presso i Boulogne Studios, Occhi senza volto fu una co-produzione internazionale tra la francese Maurice Champs-Élysées Productions e l’italiana Lux Film. Presentato in anteprima mondiale a Parigi il 2 marzo 1960, il film suscitò numerose polemiche per le sue sequenze dal forte impatto orrorifico, causando addirittura lo svenimento di sette spettatori durante la proiezione al Festival del Cinema di Edimburgo nello stesso anno. Se in Francia e in Italia, dove il film uscì il 3 maggio 1960, la distribuzione avvenne senza tagli di censura, diversa fu la sorte negli Stati Uniti. Qui, rilasciato nel 1962 con il titolo The Horror Chamber of Dr. Faustus per volere della Lopert Pictures, il film subì numerose modifiche: un nuovo montaggio, un doppiaggio alterato e svariati tagli, tra cui la scena dell’eterotrapianto e momenti di umanità del dottor Génessier con un piccolo paziente. Inoltre, negli USA il lungometraggio fu distribuito con il metodo della doppia programmazione, accoppiato con The Manster (1959), un film fantascientifico horror diretto da George P. Breakston e Kenneth G. Crane.

Questa strategia distributiva non portò però al successo al botteghino, e il film francese non ottenne riconoscimenti significativi né in Francia né in Italia né in america, dove venne stroncato dalla critica dell’epoca. Tuttavia, nel corso del tempo, Occhi senza volto è stato rivalutato, fino a diventare un classico del cinema horror.

Trama di “Occhi senza volto”

Una notte, una donna getta il corpo senza vita di una giovane nelle acque della Senna. Poco dopo, il professor Génessier, noto chirurgo di fama internazionale, tiene una conferenza sui suoi innovativi studi nel campo dei trapianti di tessuti. La sua calma apparente viene improvvisamente scossa quando viene convocato all’obitorio, dove la polizia gli mostra un cadavere sfigurato per chiedergli di identificarlo. Senza manifestare grandi segni di turbamento, Génessier conferma che quel corpo privo di vita è effettivamente quello della sua figlia scomparsa.

Durante il funerale, il professore riceve le condoglianze dei presenti, affiancato dal fidanzato della presunta defunta, Jacques Vernon (anch’egli medico), e dalla sua fidata segretaria, Louise. Tuttavia, un segreto oscuro grava sulla situazione: è stata proprio Louise a liberarsi del corpo della giovane donna, gettandolo nel fiume. Terminata la cerimonia funebre, Génessier si ritira nei suoi appartamenti e si dirige verso una stanza segreta. Qui si trova Christiane, sua figlia, il cui volto è stato orribilmente deturpato in un grave incidente automobilistico di cui il padre si sente responsabile. Dopo l’incidente, Christiane è costretta a vivere nascosta dietro una maschera che cela le sue cicatrici, evitando ogni contatto con il mondo esterno, eccetto il padre e Louise. La sua vita è ormai ridotta a un’esistenza di segregazione e isolamento.

Il corpo ritrovato dalla polizia, dunque, non è quello di Christiane, ma appartiene a Simone, una delle vittime degli esperimenti falliti del professor Génessier. Ossessionato dall’idea di restituire un volto normale alla figlia, il chirurgo conduce esperimenti estremi e inumani, sacrificando giovani donne per prelevare loro la pelle necessaria. La salvezza di Christiane, nella visione del dottore, si ottiene a costo della distruzione di altre vite.

Dopo il fallimento del tentativo con Simone, Louise si mette alla ricerca di una nuova vittima e individua Edna, una giovane ignara delle reali intenzioni della donna. Con un pretesto, Louise la convince a seguirla nella villa del professor Génessier. Una volta lì, Edna viene narcotizzata e preparata per il successivo esperimento chirurgico. Nel frattempo, Christiane osserva impotente, combattuta tra l’orrore per le azioni del padre e la speranza che questa operazione possa finalmente ridarle una nuova vita.

Recensione di “Occhi senza volto”

Il romanzo da cui è tratta la storia contiene numerosi momenti dal gusto gore, capaci di spaventare e scuotere profondamente il lettore, immergendolo in una narrazione sanguinosa, ricca di passaggi che descrivono torture sugli animali perpetrate da scienziati pazzi. Il produttore Jules Borkon, consapevole della sensibilità della società degli anni ’50, sapeva bene che una trasposizione fedele al lato più crudo del romanzo sarebbe stata impossibile in Europa, dove la censura colpiva ferocemente il cinema dell’orrore. Questo genere era spesso vittima di blocchi distributivi o di numerosi tagli al montaggio.

Per evitare che le autorità censoree di paesi come Inghilterra, Germania e Francia ostacolassero la distribuzione del film, Borkon chiese agli sceneggiatori Pierre Boileau e Thomas Narcejac, insieme al regista Georges Franju, di modificare l’approccio narrativo. Il loro obiettivo era ridimensionare il lato più profondamente inquietante e gore presente nel romanzo di Jean Redon. Gli sceneggiatori, già noti per aver scritto lo script di Vertigo (1958) per Alfred Hitchcock, si concentrarono su una rilettura più sfumata e, nei limiti del possibile, umana della figura del dottor Génessier, che nel romanzo originale era rappresentato come un personaggio molto più oscuro e diabolico.

Questa scelta, pur comprensibile nel contesto storico europeo, dove la censura limitava fortemente la libertà creativa, lascia tuttavia trasparire una certa mancanza di coraggio da parte di Borkon e del team creativo. Il timore di incappare in restrizioni censorie sembra aver portato a un’eccessiva mitigazione degli elementi orrorifici del film. Sebbene fosse logico attenuare il gore per evitare di sconvolgere il pubblico di fine anni ’50, si sarebbe potuto osare maggiormente, mantenendo almeno un minimo di elementi gore nella pellicola.

Altri film dello stesso anno dimostrano che questa strada era percorribile senza compromettere la distribuzione. La maschera del demonio di Mario Bava (1960), Psyco di Alfred Hitchcock (1960) e L’occhio che uccide di Michael Powell (1960) rappresentano esempi di opere che, nonostante le restrizioni censorie, hanno saputo conservare un’atmosfera inquietante e, in alcuni casi, momenti dal gusto marcatamente gore. In particolare, il film di Bava si distingue per l’audacia con cui affronta il genere horror, dimostrando che era possibile bilanciare efficacemente le esigenze narrative con i limiti imposti dalla censura.

Nonostante ciò, alcuni critici e spettatori dell’epoca hanno provato tensione, spavento e disgusto durante la visione del film, rimanendo scioccati dalla sua componente gore. Tuttavia, dubito che uno spettatore abituato al cinema gore del ventunesimo secolo possa provare emozioni simili dinanzi a questo lungometraggio, la cui oscurità appare oggi fortemente diluita in una narrazione con numerose debolezze. Sul piano della costruzione narrativa, i personaggi risultano spesso bidimensionali e superficiali — dai poliziotti alle vittime, fino agli stessi carnefici. Sul fronte dell’inquietudine, al di là della scena dell’intervento chirurgico e del momento in cui viene mostrato il volto sfigurato di Christiane, sono pochi i momenti capaci di generare reale tensione o trepidazione emotiva.

La storia, pur avendo un potenziale enorme, non è pienamente sviluppata. Dallo script alla resa visiva e registica, il film fatica a coinvolgere lo spettatore e a immergerlo nel mondo narrativo proposto. La causa principale di questa problematica è da attribuire a una scrittura poco approfondita dei personaggi, in particolare di Christiane. La giovane protagonista è tratteggiata in modo superficiale, senza un vero approfondimento della sua interiorità o della sua vita al di là della malattia. Ad esempio, il suo rapporto con il padre, con la segretaria di lui, la sua quotidianità e i suoi pensieri rimangono inesplorati, privando il pubblico di qualsiasi possibilità di sviluppare empatia nei suoi confronti.

Nonostante queste carenze, la presentazione iniziale del personaggio di Christiane risulta interessante e suggestiva. Nei primi minuti della pellicola, lo spettatore è incuriosito dalla narrazione: inizialmente si crede che Christiane sia morta, per poi scoprire la verità sulla sua condizione, ovvero che a causa di un incidente, il suo volto è rimasto orribilmente sfigurato. La regia, nel momento della sua introduzione, gioca abilmente con le inquadrature, evitando di mostrare immediatamente il volto della ragazza, aumentando l’attesa e la nostra curiosità (vediamo il suo volto effettivo solo una volta). Quando finalmente ci appare nella prima scena, la sua faccia è coperta da una maschera bianca che la rende simile a una bambola di porcellana, conferendo al personaggio un’aura inquietante. Questo senso di turbamento, però, si affievolisce rapidamente nel corso della pellicola, lasciando spazio a un racconto che perde progressivamente la sua carica emotiva e visiva.

Il mad doctors

Il lungometraggio può essere tranquillamente ascritto al filone dei mad doctors, un genere di grande successo nei primi decenni del cinema fino agli anni ’70. Tra i capostipiti di questo filone troviamo figure iconiche come il Dottor Caligari ne Il gabinetto del dottor Caligari, il Dottor Mabuse nei film di Fritz Lang, e i celeberrimi Dr. Victor Frankenstein e Dr. Jekyll, quest’ultimo protagonista dell’iconico film del 1941 Dr. Jekyll e Mr. Hyde.

Il Dottor Génessier condivide molte caratteristiche con questi personaggi: una follia latente e un amore quasi ossessivo per la scienza, che lo spinge a sfidare le regole della morale comune. Per lui, il progresso scientifico giustifica qualsiasi azione, anche quelle che richiedono di sporcarsi le mani di sangue, trascendendo ciò che è giusto o sbagliato. Tuttavia, mentre gli altri rappresentanti di questo filone sono diventati figure iconiche nella storia del cinema, il Dottor Génessier risulta meno memorabile. La causa principale di questa mancata iconicità risiede nell’assenza di una vera introspezione psicologica: il personaggio non viene sviluppato in modo tale da permettere al pubblico di comprenderne a fondo la complessità o le motivazioni personali. Noi lo comprendiamo ma la storia lo descrive superficialmente.

L’importanza di Occhi senza volto nella storia del cinema

Nonostante alcune debolezze nella sceneggiatura, Les Yeux sans visage di Georges Franju si è guadagnato un posto di rilievo nella storia del cinema grazie alla sua carica innovativa e alla capacità di esplorare temi complessi come l’identità, la perdita e il rapporto tra umano e mostruoso. Le carenze narrative, quali una limitata introspezione psicologica dei personaggi e un elemento poliziesco che risulta a tratti macchinoso, non intaccano il valore pionieristico dell’opera, che ha ispirato innumerevoli registi a livello internazionale.

Con Occhi senza volto, Franju ha tracciato un nuovo paradigma per il cinema dell’orrore e del fantastico, spingendo il genere verso territori più sofisticati. La pellicola non intende effettivamente spaventare, ma esplora con delicatezza l’alienazione e il desiderio di trascendere i limiti fisici imposti dalla natura. Centrale è l’uso della maschera, un elemento visivo e simbolico che diventerà ricorrente in opere successive, rappresentando il conflitto tra apparenza ed essenza. La storia del dottor Génessier, un chirurgo ossessionato dalla perfezione e disposto a compiere atroci esperimenti per ridare un volto alla figlia sfigurata, ha aperto la strada a una lunga tradizione cinematografica incentrata sul “corpo violato” e sull’eterno confronto tra etica scientifica e amore ossessivo.

Tra i primi a raccogliere l’eredità di Occhi senza volto vi è il cinema italiano con Seddok, l’erede di Satana (1961), diretto da Anton Giulio Majano. Questo film riprende il tema dello scienziato pazzo, ma lo declina in un contesto diverso, attingendo anche all’estetica gotica italiana. Poco dopo, Jesús Franco omaggia esplicitamente l’opera di Franju con Gritos en la noche (1962), dimostrando l’immediata risonanza internazionale della pellicola. L’influenza di Occhi senza volto si estende oltre il cinema di genere. Titoli come Corruption (1968) di Robert Hartford-Davis e I violentatori della notte (1988) di Jess Franco riprendono i temi dell’identità frammentata e dell’ossessione scientifica, arricchendo il filone con elementi più estremi e controversi. Pedro Almodóvar, con La pelle che abito (2011), offre forse l’omaggio più sofisticato. Il regista spagnolo adatta il tema della trasformazione fisica e dell’identità a un contesto contemporaneo, mantenendo il tono tragico e onirico che caratterizzava l’opera di Franju, ma riuscendo a rendere il tutto più tridimensionale. La figura dello scienziato è qui trasformata in un moderno demiurgo, il cui potere sulla carne diventa una metafora delle dinamiche di controllo e oppressione.

Riflessione sul “mostruoso umano” in Occhi senza volto

Occhi senza volto sovverte le convenzioni del cinema horror tradizionale, spostando l’attenzione dal mostro come entità esterna a una riflessione sul “mostruoso” come parte integrante della condizione umana. La protagonista, Christiane, sfigurata e costretta a vivere dietro una maschera, non rappresenta il mostro nel senso classico. La sua condizione la rende vittima di una tragedia personale, un dramma che il padre, il dottor Génessier, cerca di risolvere con metodi estremi. In questa dinamica, il film propone un’inversione dei ruoli: il vero “mostro” non è Christiane, ma Génessier, il cui amore distorto per la figlia lo porta a compiere azioni mostruose. Tuttavia, Franju non presenta Génessier come un semplice villain, nonostante una pochezza di approfondimento narrativo riferita al personaggio. Il suo amore, pur distorto, lo rende un personaggio tragico, intrappolato tra il desiderio di salvare la figlia e le sue azioni eticamente inaccettabili, un conflitto che solleva la questione del “mostruoso” come parte dell’essere umano.

La maschera di Christiane non solo nasconde il suo volto sfigurato ma diventa un potente simbolo del dualismo umano: la lotta tra ciò che si mostra agli altri e ciò che si cela dentro di sé. Sebbene la maschera la isoli, rendendola quasi disumana, essa rappresenta anche la sua lotta per mantenere un’identità che trascende l’aspetto fisico. Il volto nascosto diventa un simbolo di prigionia, ma anche di resistenza, una scelta di protezione e al tempo stesso un atto di separazione dal mondo. Quando, nel finale, Christiane decide di ribellarsi, la maschera non è più solo uno strumento di protezione ma un mezzo per riconquistare la sua umanità.

Il film di Franju rappresenta il “mostruoso” all’interno di un contesto apparentemente normale. Le atrocità compiute dal dottor Génessier si svolgono in un ambiente quotidiano e ordinario, lontano dalle atmosfere gotiche tradizionali, facendo sembrare che l’orrore possa annidarsi anche nei luoghi più familiari. Questo contrasto tra normalità e mostruosità rende ancora più inquietante l’idea che il “mostruoso” non sia un’eccezione, ma una possibilità sempre presente nell’umano, nascosta in ogni angolo della vita quotidiana. Occhi senza volto ci invita, dunque, a riflettere non solo sui limiti etici della scienza, ma anche sulle pressioni sociali che spingono i personaggi verso il baratro, un baratro che nasce dal desiderio di perfezione e dall’ansia di controllo. La pellicola suggerisce che il “mostruoso” è, in fondo, un riflesso delle nostre stesse paure, del nostro rifiuto dell’imperfezione e della nostra paura di essere emarginati o respinti. Christiane diventa il simbolo di una condizione universale: quella dell’individuo costretto a celare la propria vulnerabilità, a vivere dietro una maschera che lo isola, ma che, allo stesso tempo, lo costringe a confrontarsi con l’umanità che cerca di negare.

In conclusione

Gli Occhi senza volto (1960) è un film che, pur mostrando una regia suggestiva e un’interessante premessa narrativa, soffre di un’eccessiva mitigazione degli elementi più crudi e di una caratterizzazione debole dei personaggi. La scelta di attenuare il lato gore per evitare le maglie della censura europea degli anni ’50 risulta comprensibile, ma ha finito per privare la pellicola di un impatto emotivo più incisivo. Rimane, tuttavia, un’opera affascinante per il contesto storico e per alcune intuizioni visive di Georges Franju.

Note positive

  • Rappresentazione del mostruoso
  • Regia suggestiva di Georges Franju
  • Introduzione iniziale intrigante di Christiane

Note negative

  • Riduzione eccessiva degli elementi gore
  • Caratterizzazione superficiale dei personaggi
  • Assenza di coraggio da parte degli sceneggiatori e del regista

Review Overview
Regia
Elementi visivi
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozioni
SUMMARY
3.4
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.