Quicksand (2019). Colpevole o vittima?

Recensione, trama e cast della serie Quicksand (2019). Miniserie svedese tra adolescenza, crimine e disagio emotivo.

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Hanna Ardehn in Quicksand - Credit Johan Paulin / Netflix
Hanna Ardehn in Quicksand – Credit Johan Paulin / Netflix

Trailer di “Quicksand”

Informazioni sulla stagione e dove vederla in streaming

Prodotta da FLX per Netflix, Störst av allt (letteralmente Il più grande di tutti) è la prima serie originale svedese realizzata per la piattaforma americana fondata da Reed Hastings e Marc Randolph. Il titolo è stato modificato in Quicksand (Sabbie mobili) per la distribuzione in Italia e in parte dell’Europa.

La miniserie, di genere drammatico-poliziesco, è liberamente ispirata all’omonimo romanzo del 2016 della scrittrice di Stoccolma Malin Persson Giolito, vincitore del Premio dell’Accademia svedese di narrativa poliziesca come miglior romanzo del 2016, oltre ad aver ottenuto il prestigioso Glass Key Award, assegnato annualmente al miglior romanzo poliziesco nordico.

Composta da sei episodi della durata di circa 40 minuti ciascuno, la serie è stata distribuita su Netflix il 5 aprile 2019. La regia è firmata da Per-Olav Sørensen (Julestorm – La tempesta di Natale, 2022; Natale con uno sconosciuto, 2019–2025) e Lisa Farzaneh. Nel 2019, Quicksand ha ricevuto il Kristallen Award come miglior dramma televisivo dell’anno, e Hanna Ardéhn è stata premiata per la miglior interpretazione femminile in una produzione televisiva. 

Trama di “Quicksand”

Nel quartiere benestante di Djursholm, a Stoccolma, una sparatoria sconvolge la tranquillità del luogo: all’interno di una classe di un liceo privato, frequentato perlopiù da ragazzi agiati, si consuma un evento tragico e inaspettato.

All’arrivo sulla scena del crimine, la polizia si trova di fronte a Maja Norberg, studentessa diciottenne in stato confusionale, drogata e seduta a terra con le mani e il volto sporchi di sangue. Accanto a lei, un fucile giace sul pavimento. La ragazza, priva di qualsiasi ferita e con indosso sangue non suo, viene immediatamente arrestata e accusata di omicidio, venendo rinchiusa in una cella d’isolamento, dove trascorrerà l’intero periodo delle indagini e del processo.

Cosa è successo davvero all’interno di quella classe? Maja ha davvero ucciso i suoi compagni di scuola? Cosa può averla spinta a compiere un gesto tanto estremo?Prima di quella tragica mattina, Maja, una ragazza con ottimi voti e con un futuro luminoso, si era innamorata di Sebastian Fagerman, figlio di una delle famiglie più influenti della città. La loro relazione, inizialmente intensa e travolgente, si trasforma ben presto in un legame tossico e disturbante, segnato da dipendenza affettiva, abuso e isolamento. Il loro rapporto si intreccia con le tensioni familiari e sociali che li circondano. Sullo sfondo, emergono le disuguaglianze di classe, la fragilità adolescenziale e il peso delle aspettative, mentre la narrazione si interroga sul confine sottile tra colpa e vittima.

Recensione di “Quicksand”

Che cosa è accaduto quella mattina all’interno del prestigioso liceo di Djursholm? Cosa ha spinto la giovane Maja, una ragazza promettente, a compiere un gesto tanto atroce, uccidendo la sua migliore amica e il suo stesso ragazzo?

Queste sono le domande che la miniserie svedese pone al centro della sua narrazione, costruendo una drammaturgia che tenta di rintracciare una qualsiasi forma di risposta dietro un atto tanto mostruoso quanto reale: l’uccisione dei propri compagni di scuola. Un atto che, purtroppo, non appartiene solo alla finzione cinematografica o televisiva, ma si manifesta anche nella realtà, dove giovani uomini e donne si ritrovano ad abbracciare armi da fuoco e a uccidere i propri coetanei all’interno del luogo stesso dell’istruzione — la scuola.

Quicksand, però, non intende concentrarsi esclusivamente su questo tragico fenomeno. Piuttosto, tenta di comprendere e analizzare le motivazioni profonde che si celano dietro l’atto stesso di uccidere un altro essere umano. Lo fa attraverso una narrazione che mescola con intelligenza il dramma adolescenziale al poliziesco, alternando atmosfere romantiche e più spensierate a lunghe scene ambientate all’interno del carcere, durante intensi interrogatori e le sedute del tribunale — quell’aula di legge chiamata a emettere la sentenza definitiva sul caso.

La serie, senza ombra di dubbio, non possiede una narrazione particolarmente avvincente, peccando soprattutto nella costruzione psicologica dei personaggi e nel delineare per ciascuno di loro un arco di trasformazione poco o nulla originale. Il racconto termina, infatti, nella predicibilità più estrema, tanto per la protagonista quanto per Samir Said, personaggio attraverso cui gli sceneggiatori tentano di rappresentare le disparità sociali in Svezia, senza riuscire però a proporre una riflessione realmente interessante. In questo senso, la serie si limita a ricalcare i classici stereotipi, affidandosi a una drammaturgia alquanto convenzionale, incapace di distanziarsi da ciò che abbiamo già visto e rivisto in innumerevoli produzioni seriali.

Quicksand punta tutto su una indagine psicologica della sua protagonista al fine di farci comprendere cosa conduce un essere umano a ritrovarsi in situazioni oscure e impensabili fino a poco prima. La serie, tratta dal romanzo di Malin Persson Giolito – ha così l’arduo compito di portare a galla il pensiero e le emozioni di Maya raccontandola dentro la sua caduta vertiginosa in un tunnel oscuro e profondo e, contemporaneamente, narrandola all’interno del suo limbo in cui si ritrova dopo la sparatoria al liceo (la cella d’isolamento). La serie decide di raccontare Maja Norberg senza utilizzare la sua voce interiore e senza far udire i suoi pensieri al pubblico, ma mostrando tutto a livello visivo e interpretativo, contrariamente a quanto avviene nel romanzo dove la narrazione in prima persona è uno strumento potente: Maja racconta la sua storia dal banco degli imputati, e lo fa con una voce ambigua, ironica, fragile, a tratti disturbante. È proprio questa voce che costruisce la sua tridimensionalità, che ci permette di cogliere le sfumature del suo dolore, della sua rabbia, del suo senso di colpa. L’assenza di questa voce nella serie e l’incapacità di trasmettere l’interiorità della protagonista solo dalla sua interpretazione priva di forza il personaggio, che diviene così più banale e bidimensionale.

Evidenziato ciò e nonostante la serie non presenti una narrazione particolarmente avvincente, né una vera e propria imprevedibilità, il prodotto audiovisivo in questione riesce comunque a catturare l’attenzione dello spettatore fin dal suo incipit — l’arresto di Maja sulla scena del crimine — creando sin da subito una tensione latente e una curiosità intrinseca. Il merito di questo coinvolgimento è da attribuire all’impostazione drammaturgica del progetto seriale, indubbiamente azzeccata, che si muove costantemente tra presente e passato: da un lato, la vita di Maja nella cella d’isolamento, spoglia e claustrofobica; dall’altro, la sua esistenza precedente, quella vissuta tra i corridoi del liceo, dove era ancora una ragazza amata da tutti e dove il suo futuro appariva luminoso e promettente. Attraverso questa struttura narrativa, il pubblico si ritrova coinvolto nel desiderio di scoprire cosa sia realmente accaduto in quel liceo e quali dinamiche psicologiche abbiano condotto Maja a ritrovarsi in quella situazione: abbracciando un fucile e sparando cinque colpi, con cui ha ucciso la sua migliore amica Amanda Steen e il suo fidanzato Sebastian Fagerman. Una suddivisione drammaturgica ben congeniata non supportato però da un adeguata scrittura dei vari personaggi, propio per via di alcune scelte effettuate in fase di sceneggiatura. Difatti la serie sceglie di distanziarsi dal romanzo prendendo un altra strada narrativa, abbracciando un approccio più visivo e distaccato, rinunciando alla voce interiore — e con essa, alla possibilità di esplorare in profondità la mente della protagonista. Le scene ambientate nella cella, che nel romanzo rappresentano momenti di intensa riflessione e tensione psicologica, risultano nella trasposizione televisiva spesso piatte, prive di quella densità emotiva che rende Maja un personaggio vivo, contraddittorio, e profondamente umano.

Questo silenzio narrativo finisce per depotenziare la sua figura, lasciando allo spettatore il compito di interpretare gesti, sguardi, esitazioni — ma senza gli strumenti necessari per farlo pienamente. Nel confronto tra romanzo e serie emerge una divergenza di intenti evidente: il libro ci invita a entrare nella mente di Maja, a dubitare di lei, a empatizzare e respingerla allo stesso tempo. La serie, invece, ci mostra Maja dall’esterno, ci invita a osservarla, ma non ci permette di comprenderla fino in fondo. Tale cambio di prospettiva è una scelta che comporta conseguenze narrative importanti: se da un lato rende la storia più accessibile e visivamente efficace, dall’altro sacrifica parte della sua profondità psicologica, privando il racconto di quella complessità che nel romanzo rappresenta il suo nucleo più autentico. Nonostante ciò, la serie riesce in parte a compensare la mancanza di introspezione attraverso la narrazione del passato. I flashback che ricostruiscono la relazione tra Maja e Sebastian rappresentano il cuore pulsante della storia, e qui emerge con forza il tema della dipendenza emotiva, della manipolazione, dell’abuso.

Fin dalla prima puntata, lo spettatore intuisce che qualcosa non torna nella natura stessa del caso: la storia d’amore tra i due adolescenti, apparentemente intensa e travolgente, si rivela progressivamente come una spirale tossica, in cui Maja viene risucchiata. Sebastian, figlio di una famiglia ricca e profondamente disfunzionale, è dominato da un padre autoritario e da dinamiche familiari oppressive. Il suo comportamento instabile, violento e autodistruttivo trascina Maja in un vortice di isolamento e sofferenza, privandola di punti di riferimento e rendendola sempre più vulnerabile. Non si tratta solo di una ragazza innamorata: Maja è una giovane intrappolata in un contesto che la consuma, che la spinge verso il baratro. La sua fragilità non è debolezza, ma il risultato di una pressione psicologica costante, di un amore che si trasforma in prigione, e di una mancanza di aiuto da parte di chi la circonda. È proprio questa solitudine emotiva che la trascina verso il punto di rottura.

Un finale banale

La serie lascia spazio a interrogativi morali e psicologici profondi: Maja è colpevole o vittima? Ha agito per disperazione, per autodifesa, o per una forma distorta di amore? Queste domande restano sospese, e proprio questa sospensione alimenta il senso di inquietudine che permea l’intera narrazione. Tuttavia, il problema centrale risiede nella gestione del climax: lo spettatore arriva alla conclusione effettiva troppo presto, intuendo già nei primi episodi la dinamica della sparatoria e il ruolo di Sebastian come artefice del piano. Il processo, che dovrebbe rappresentare il culmine emotivo e narrativo, si sviluppa in modo lineare e privo di ambiguità, lasciando poco spazio alla tensione e al dubbio.

Il finale, pur cercando di ricomporre i frammenti della verità attraverso le testimonianze in aula, si rivela privo di forza, risultando prevedibile e banale. La scena conclusiva, in cui Maja viene assolta e torna alla vita quotidiana, non riesce a restituire la complessità del percorso emotivo e psicologico che l’ha condotta fino a quel punto. Le testimonianze — come quella di Samir, che mostra un video di Maja in stato confusionale durante la festa, o quella di Labbe, che la accusa duramente — non aggiungono nuove prospettive, ma confermano ciò che lo spettatore ha già intuito: Maja ha agito in un contesto di estrema pressione, ma non è la mente dietro la strage.

La tensione costruita con cura nei primi episodi si dissolve in una chiusura che non approfondisce le ambiguità morali, né restituisce il senso di disorientamento che il romanzo riesce a mantenere fino all’ultima pagina. Nel libro, la voce di Maja — ironica, fragile, a tratti disturbante — accompagna il lettore in un viaggio interiore che non offre risposte definitive. La serie, invece, opta per una risoluzione più netta, che sacrifica la complessità in favore della chiarezza. Il risultato è un epilogo che lascia un senso di incompletezza, un vuoto narrativo che pesa sull’intera opera e che ridimensiona l’impatto emotivo di una storia che, per sua natura, avrebbe meritato un finale più sfumato, più inquieto, più fedele alla sua premessa.

In conclusione

Quicksand è una miniserie che parte da un evento scioccante per indagare le fragilità dell’adolescenza, le dinamiche tossiche dell’amore e il peso della solitudine. Pur riuscendo a coinvolgere lo spettatore con una struttura narrativa efficace e una tensione iniziale ben costruita, la serie non riesce a mantenere la complessità psicologica del romanzo da cui è tratta. Il finale, troppo lineare e privo di ambiguità, smorza l’impatto emotivo di una storia che avrebbe meritato maggiore profondità.

Note positive

  • Struttura narrativa efficace tra presente e passato

Note negative

  • Mancanza della voce interiore della protagonista
  • Personaggi poco approfonditi psicologicamente
  • Finale prevedibile e privo di ambiguità

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.3
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.