
I contenuti dell'articolo:
Un film parlato
Titolo originale: Um filme falado
Anno: 2003
Paese: Portogallo, Francia, Italia
Genere: Drammatico
Durata: 96 minuti
Regia: Manoel de Oliveira
Sceneggiatura: Manoel de Oliveira
Fotografia: Emmanuel Machuel
Montaggio: Valérie Loiseleux
Attori: Leonor Silveira, Filipa de Almeida, John Malkovich
Diretto dal regista spagnolo, Manoel de Oliveira, Un film Parlato è un lungometraggio drammatiche a tinte turistiche, presentato nella sezione principale della Mostra del cinema di Venezia 60ª.
Trama di Un film parlato
2001, Luglio. Una professoressa di storia dell’Università di Lisbona, in compagnia della propria figlia, compie una crociera sul Mediterraneo alla scoperta delle tradizioni delle civiltà del passato che hanno vissuto sulle rive di questo mare. La bambina incuriosita su queste leggende e mitologie fa varie domande alla madre che cerca sempre di rispondere in maniera semplice e comprensibile alla bambina di otto anni.
Recensione di Un film parlato
Il cinema di Manoel de Oliveira è pieno di vedute architettoniche e scultoree; una veduta in cui lo sguardo in movimento si pone nell’osservare uno spazio fisso e immobile e proprio questa componente stilistica è preponderante in Un film Parlato in cui sono presenti molte vedute architettoniche e di sculture, che riflettano e lavorano sulla tensione tra corporeo e incorporeo, tra immobilità e mobilità, tanto che le statue sembrano talvolta prendere vita, guardare i personaggi, presentare una sorta di commento muto e incomprensibile di ciò che sta succedendo sulla scena. Nella pellicola la macchina da presa si muove semplicemente per cogliere uno spazio immobile, come quello di una scultura facendo soffermare la nostra attenzione sullo sforzo e sull’esistenza di una cultura, in un movimento congelato nel tempo, come se la scultura andasse a parlarsi di un tempo inaccessibile alla nostra percezione ma è come se questa struttura si andasse a muovere in un tempo infinito, un tempo a cui non abbiamo più accesso ma di cui stiamo catturando e vedendo un istante di azione in movimento che possiamo solamente immaginare ed evocare. La scala temporale non è quella dei secondi e dei minuti, ma quella dei secoli e dei millenni, ed è come se la macchina da presa si sforzasse di cogliere o di restituire in qualche modo questa scala temporale enorme, inaccessibile alla nostra.
Lo sguardo sulla veduta spesso precede il personaggio stesso come se queste immagini, che sono immagini di fenomeno turistico, è come se pre – esistessero già alla visita dei personaggi per la loro celebrità e diffusione nella cultura contemporanea, di proliferazione e di diffusione esponenziale delle immagini; è come se Oliveira ci vuole riflettere sull’ormai povertà di senso che queste immagini hanno acquisito, tanto che la loro esperienza può essere rappresentata ancor prima, come se queste immagini fossero già conosciute prima ancora di avere da parte dei personaggi un’esperienza diretta. La madre dice alla figlia “guarda” puntando il dito verso il monumento, ma poi la figlia e la madre guardano attraverso una riproposizione virtuale, attraverso un libretto turistico; essendo nel 2003; in questo scena la forza digitale è già in atto e la forza dell’immagine digitale è sul punto di superare la forza degli sguardi di ogni altra forma di esperienza visiva. Paradossalmente le due donne sono in un luogo fisico e reale e finiscono col guardare delle immagini, non per guardare ciò che sta di fronte ai loro occhi, ma hanno bisogno di mediare la loro esperienza attraverso delle immagini, come tanti turisti che invece di guardare i monumenti sentono immediatamente il bisogno e la necessità di prendere in mano una macchina fotografica e una telecamera e ottenere subito l’immagine di quello che stanno vedendo. Un film parlato è una sorta di confronto e di messa in dubbio di fluidità continua tra uno sguardo che è mosso da un intento conoscitivo ma è sempre pronto al rischio di diventare uno sguardo turistico, distratto, che non è in grado di apportare nessuna conoscenza, ma di confermare delle conoscenze che sono già possedute, come nel caso della madre che non è in grado di leggere quello che vede se non alla luce di quello che già sa, prima ancora di aver visitato i luoghi. Il film è una mesa in crisi dello sguardo visivo e di quello cinematografico.
Scena di Un film parlote Le rovine del tempio di Apollo in Un film parlato Il sacerdote guida di Un film Parlato
La composizione simbolica di Un film Parlato
Come spesso succede in De Oliveira si tratta di un’inquadratura mal costruita dal punto di vista della composizione tradizionale, così come si studia nell’ambito del design o dell’illustrazione, perché i personaggi sembrano occupare una porzione di spazio sproporzionata rispetto al movimento, e c’è un chiaro decentramento del corpo dei personaggi che sono tagliati, che sembra che stanno camminando quasi sospesi nel vuoto, ed è chiaramente uno squilibrio compositivo ricercato per sottolineare l’impossibilità di trovare una conciliazione fra la dimensione monumentale e il tempo che essa evoca, e invece la dimensione umana nel tempo entro cui sono inscritti i due personaggi; come se il tempo evocasse tempi ed esperienze incommensurabili rispetto ai personaggi, i quali sembrano sparire di fronte all’enormità e all’immensità della Storia. Il passaggio di questi turisti troppo vicini alla macchina da presa aumenta ancora il nostro senso di disagio compositivo rispetto a questa immagine, e il senso di sproporzione che c’è dalla dimensione civitas, umana di questa inquadratura e la presenza invece dell’urbs. La comparsa di un primo personaggio guida; un prete ortodosso. Anche il personaggio guida continua a offrire attraverso la parola una dimensione lineare e razionale della storia, ma è incapace invece di descrivere e racchiudere la dimensione stratificata e multi-temporale.
L’immagine della città per alcuni secondi che ci restituisce la dimensione di multi – temporalità del presente in cui le rovine di duemilacinquecento anni fa si sovrappongono e si mescolano con il tempo della civiltà presente. I raccordi seguono la direzione dell’indice del sacerdote che indica questi vari monumenti da vedere, ed è come se lo sguardo è subordinato alla parola. Poi a un certo punto la cinepresa abbandona il sacerdote e i suoi discorsi di storia e di cultura, e segue la bambina che sembra distrarsi, producendo qualcosa di strano, che introduce lo spettatore a una dimensione che rimane incerta tra il reale e il fantastico, creando una sorte di sospensione temporale e narrativa. Lo sguardo della bambina sembra attratto da questa cultura di un sileno di cui nessuno parla, e non sappiamo del ruolo che questa statua poteva avere, ma semplicemente è attrazione pura per gli occhi della bambina. E subito dopo uno scavalcamento di campo di un’inquadratura che ci mostra il sacerdote dal punto di vista opposto, spostato di 180 gradi rispetto al punto di vista precedente, guardando verso sinistra, e non più verso destra, e soprattutto i personaggi femminili sembrano spariti. E’ come se il sacerdote stesse parlando da solo. Non vediamo più i due personaggi femminili come se fossero scomparsi, o per un effetto, una sorta di magia dello sguardo del Sileno che dissolve come nel film di Melies le due protagoniste, o come una sorta di effetto ironico; nel momento in cui nel film viene evocato lo spirito santo i due personaggi si dissolvono come se fosse avvenuto una sorta di paradossale miracolo. E infatti l’immagine successiva è una veduta della città di Atene come stratificazione di antico e moderno, di urbs e civitas, all’interno della quale è come se i due personaggi si fossero dispersi, e fossero entrati in una sorta di breccia spazio temporale, come se vediamo una sorta di Interstellar, di fantascienza, collocato però nel mondo contemporaneo.