Un inverno in Corea (2024). Tra animazione e realtà, un’opera prima matura

Recensione, trama e cast del film Un inverno in Corea (2024). Opera prima di Koya Kamura che mescola animazione e realtà per raccontare identità e fragilità.

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Un inverno in corea (2024) - © 2024 - OFFSHORE - Immagine ricevuta per uso editoriale da Wanted Cinema
Un inverno in corea (2024) – © 2024 – OFFSHORE – Immagine ricevuta per uso editoriale da Wanted Cinema

Trailer di “Un inverno in corea”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Koya Kamura, regista franco‑giapponese nato e cresciuto a Parigi, si è formato alla Film University di Parigi VII e alla Keio University di Tokyo. Dopo i primi incarichi in Francia presso il gruppo VIACOM e un periodo alla Walt Disney Company come produttore creativo e regista, ha esordito alla regia nel 2019 con il cortometraggio Homesick, girato nella zona off‑limits di Fukushima e premiato in diversi festival internazionali, con una selezione ai César nel 2021. Il suo primo lungometraggio, Un inverno in Corea (Hiver à Sokcho), è l’adattamento del romanzo Winter in Sokcho di Elisa Shua Dusapin, pubblicato in Italia con il titolo Inverno a Sokcho. Sul rapporto con il testo Kamura dichiara: «Leggendo il libro, ho sentito un legame profondo e sfumato con il personaggio principale e con l’universo dell’autrice. Questa chimica si è rafforzata quando ho incontrato Elisa, mentre adattavo questa storia in un’opera intima che riecheggiava la mia storia personale».

Scritto dal regista insieme alla romanziera e a Stéphane Ly‑Cuong, il film racconta l’incontro sulla fredda costa di Sokcho tra Soo‑Ha (Bella Kim), giovane donna franco‑coreana che lavora nella cucina di un piccolo albergo, e Yan Kerrand (Roschdy Zem), illustratore francese in cerca d’ispirazione: tra piatti condivisi, disegni e gesti minuti nasce un legame fragile che spinge la protagonista a interrogarsi sull’identità, sul corpo e su un padre mai conosciuto.

Opera franco‑coreana di tono intimo e contemplativo, il film è stato presentato in anteprima internazionale nella sezione Platform Prize al Toronto International Film Festival 2024 e successivamente proiettato in numerosi festival cinematografici, da San Sebastián a Monaco fino a San Francisco, ottenendo il premio per la miglior regia al Bergamo Film Meeting. La pellicola viene distribuita nei cinema italiani da Wanted Cinema a partire dall’11 dicembre 2025.

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Trama di “Un inverno in corea”

Nella cittadina portuale di Sokcho, non lontana dalla zona demilitarizzata di confine tra le due Coree, avviene l’incontro tra Soo‑Ha (Bella Kim) — giovane studentessa di letteratura che si mantiene lavorando come cuoca e cameriera in una vecchia pensione, in vista del matrimonio con il fidanzato Jun‑Oh — e Yan Kerrand (Roschdy Zem), illustratore francese noto ma riservato, giunto in cerca di alloggio e di ispirazione per una nuova serie di disegni. 

La provenienza e i modi particolari di Yan risvegliano in Soo‑Ha interrogativi sulla propria identità e sul padre, un marinaio francese mai conosciuto di cui la madre evita di parlare. Nel rigido inverno della cittadina si instaura, con fatica, tra i due, un dialogo scarno in lingua francese, incentrato sul cibo, sulla pittura e sul luogo circostante: Soo‑Ha si trova così a fare da cicerone al turista francese, rivelandogli i segreti della cittadina e, parallelamente, le proprie fragilità e paure. Così, in un territorio rarefatto e segnato dalla devastazione prende forma un legame atipico e fragile tra due persone cresciute ai lati opposti del mondo: un rapporto che cambierà per sempre la vita di Soo‑Ha.

Recensione di “Un inverno in corea”

Un inverno in Corea è senza ombra di dubbio un lungometraggio interessante che si poggia su un’ottima base tecnica e registica: non si ha la minima sensazione di trovarsi di fronte a un’opera prima, segno che Koya Kamura conosce bene le regole del gioco cinematografico. Il regista si cimenta in un racconto profondamente interiore e poco spettacolare, e sceglie di mescolare il linguaggio del reale con quello dell’animazione. Il disegno, curato dall’animatrice Agnès Patron, assume un peso specifico all’interno del racconto: è attraverso lo stile dell’animazione che entriamo in contatto con l’interiorità del pittore francese e, soprattutto, con il malessere e i sogni della protagonista, Soo‑Ha. Proprio in queste sequenze narrative, in cui le tavolozze realizzate da Yan Kerrand prendono vita sullo schermo e in cui assistiamo alla figura di una donna, talvolta obesa talvolta magra, che compare e scompare entro uno spazio nero, emergono le sfumature interiori di Soo‑Ha: sono le stesse che il pittore intravede nella giovane donna durante i loro dialoghi, quando traspaiono timori e desideri. L’animazione non è altro che il punto di vista dell’uomo sulla giovane ragazza. 

Nel dare maggior potenza espressiva a queste sequenze d’animazione è fondamentale la colonna sonora, composta da Delphine Malaussena, che realizza una partitura originale basata sulla commistione tra strumenti etnici e classici, suoni musicali e rumori ambientali, i quali si integrano perfettamente con lo stile visivo dell’animazione. Il mixaggio tra strumenti e rumori è essenziale per conferire forza espressiva alle sequenze animate, ispirate a uno stile impressionista e realizzate con la tecnica dell’inchiostro e del pastello, con richiami evidenti alle avventure di Tintin e a Corto Maltese — fumetti volutamente citati all’interno della pellicola dallo stesso pittore francese. Dunque, la colonna sonora e animazione, lavorando in sinergia, creano un senso di inquietudine e malinconia e guidano lo spettatore attraverso lo spettro emotivo della protagonista. Da segnalare, a livello musicale, i brani “Envol” e “Soo-ha”, due composizioni che racchiudono tutta l’emotività della protagonista. 

Grazie alla bravura registica, pur senza grandi svolte autoriali, le scene d’animazione si integrano con naturalezza a quelle del reale, non risultando fuori luogo ma costituendo un arto fondamentale del corpo narrativo. Peccato però che queste sequenze siano, di fatto, le uniche a trasmettere emozione nella pellicola. Il film tende a perdersi nella sua intimità e nella delicatezza con cui tratteggia il mondo della protagonista: l’assenza di forti sbalzi emotivi esternati (se non nel finale), unita a una figura maschile burbera e molto riservata — al termine della storia sappiamo poco di più sul pittore rispetto all’inizio — rende il ritmo a tratti statico e lento. Questa carenza di espressività contribuisce a un senso di apatia che, per certi versi, si può ricondurre alla protagonista stessa, soprattutto nella sua dimensione sentimentale. Così, per uno spettatore abituato a pellicole più dinamiche, la visione può risultare faticosa. Si sarebbe potuto rendere più efficace l’emotività dei personaggi anche al di fuori delle sequenze animate; tuttavia, va riconosciuto che questa delicatezza emotiva è parte integrante della natura dei protagonisti. Di conseguenza, lo spettatore si emoziona soprattutto nelle sequenze animate e in pochi altri momenti, riducendo indubbiamente l’emotività del film ma in questo modo il cineasta rimane fedele ai suoi personaggi alquanto chiusi e riservati, che vivono le loro emozioni in maniera segreta e non invadente, in particolar modo il pittore. 

Al di là della scarsa carica emotiva che attraversa il film — più suggestivo che realmente coinvolgente — la criticità principale risiede nella sceneggiatura: l’opera è infatti sovraccarica di spunti e tematiche potenzialmente interessanti, ma il duo di sceneggiatori non riesce a svilupparli con la necessaria profondità, lasciando molte idee accennate più che esplorate. In primo luogo, il rapporto della protagonista con il padre mai conosciuto costituisce il nucleo emotivo più evidente: l’arrivo del viandante francese riapre in Soo‑Ha ferite antiche e non elaborate, e la sua reazione — trasformare il turista in una figura paterna, osservarlo, seguirlo, desiderare la sua vicinanza — viene mostrata con chiarezza comportamentale ma senza un adeguato lavoro psicologico che ne giustifichi l’irrazionalità. Sarebbe servito maggiore spazio per mostrare come il vuoto affettivo si sia costruito nel tempo e come la proiezione sullo straniero risponda a bisogni profondi e contraddittori. Questo tema della ricerca genitoriale è probabilmente l’unico affrontato con una certa coerenza narrativa, ma anche qui la sceneggiatura si limita a segnare tappe emotive senza scavare nelle motivazioni interiori, perdendo così l’occasione di trasformare il conflitto personale in un arco di crescita più convincente. Il rapporto madre‑figlia, pur presente e narrativamente rilevante, resta trattato con una punta di superficialità: i momenti in cui la verità sul padre emerge avrebbero richiesto un confronto più lungo e sfaccettato tra le due donne, capace di mettere a fuoco rancori, omissioni e compromessi generazionali; la scelta di accelerare o di accennare questi snodi riduce l’impatto drammatico e impedisce un pieno sviluppo delle dinamiche familiari.

Sul piano tematico il film si colloca in parte nel filone del cosiddetto film turistico: i protagonisti si muovono sul territorio, la cultura locale e il cibo occupano uno spazio narrativo significativo e il paesaggio diventa quasi un personaggio. Nonostante ciò, questa dimensione territoriale resta in larga misura estetica e frammentaria: la rappresentazione del luogo si limita a scorci — la zona portuale, la strada verso il lavoro — senza offrire una mappatura più ampia o un’immersione culturale che giustifichi la scelta del setting come elemento strutturante della storia. Anche l’inserimento della questione della zona demilitarizzata e del conflitto tra Corea del Nord e Corea del Sud appare episodico e poco sviluppato: la tematica viene evocata per pochi minuti, senza un vero approfondimento storico o umano, come se fosse un elemento di contesto piuttosto che una leva drammaturgica capace di incidere sulle scelte dei personaggi. È un’occasione mancata: l’intreccio avrebbe potuto beneficiare di un confronto più serrato tra memoria collettiva e vissuto individuale.

Un altro tema ricorrente è quello dell’estetica e della pressione sociale sui canoni di bellezza: fin dai primi minuti, con il soprannome “spillungona”, il film mette in scena la dissonanza tra il corpo della protagonista e gli standard locali, mostrando come la chirurgia estetica sia diventata pratica diffusa e criterio di integrazione sociale. Le proposte di intervento — avanzate dal fidanzato, dalla madre e dalla zia — rivelano una rete di giudizi e aspettative che comprimono l’identità di Soo‑Ha; tuttavia anche qui la trattazione resta parziale: il film segnala il problema ma non ne esplora le radici culturali, economiche e psicologiche, né mette a fuoco le conseguenze a lungo termine sulla soggettività femminile. La questione del corpo si intreccia con quella del cibo e dell’alimentazione: la protagonista, magra e spesso a digiuno, mostra un rapporto conflittuale con il cibo che culmina in un episodio di abbuffata finale, letto come gesto di disperazione più che come esito di un percorso interiore; sarebbe stato utile un lavoro più calibrato sul tema del controllo, della vergogna e della relazione tra immagine corporea, relazione con il cibo e appartenenza sociale.

È l’aspetto fisico a giocare un ruolo cruciale nella ricerca della propria identità? Soo-Ha, consapevole delle sue caratteristiche fisiche distintive, come i grandi occhi chiari o la statura alta, deve subire la pressione sociale di conformarsi a standard di bellezza distorti, molto presenti nella Corea del Sud. Affronto il tema della chirurgia estetica, un vero e proprio fenomeno nella società sudcoreana. Questa pressione influisce sul suo rapporto con il proprio corpo, provocando disturbi alimentari e sottolineando la complessità di riuscire ad accettarsi in una società con aspettative rigide. Senza ricorrere alla chirurgia, le nostre abitudini alimentari diventano l’unico modo per esercitare un “controllo” illusorio, e anzi pericoloso, sul nostro corpo. La nostra identità è plasmata dal modo in cui ci vede chi ci circonda? Soo-Ha naviga tra le aspettative di sua madre, del suo ragazzo Jun-Oh e di Kerrand, un uomo più anziano che diventa una figura paterna per lei e finisce per suscitare interrogativi sulla sua identità. Sua madre, protettiva ma silenziosa sul passato, si rifiuta di condividere la storia della loro famiglia. Jun-Oh riflette le norme sociali e la pressione estetica, mentre Kerrand, attraverso il suo sguardo di artista e di persona con una propria visione della società, offre a Soo-Ha una prospettiva nuova ma inquietante su se stessa.

Note di regia

Complessivamente, la narrazione privilegia l’effetto e la suggestione visiva rispetto all’analisi psicologica e sociale: molte tematiche vengono introdotte — ricerca del padre, conflitto madre‑figlia, identità culturale, estetica, territorialità, memoria storica — ma poche vengono sviluppate fino a una conclusione soddisfacente, creando una sensazione di dispersione drammaturgica. Dal punto di vista strutturale il film guadagna in atmosfera e in momenti di forte immagine, ma perde in coesione tematica; una sceneggiatura più selettiva, che scegliesse alcuni nuclei da approfondire e li seguisse con maggiore rigore psicologico e contestuale, avrebbe probabilmente reso la pellicola più incisiva. Infine, va riconosciuto il valore di alcune scelte: l’attenzione alla territorialità, la presenza del cibo come elemento identitario e la volontà di mettere al centro questioni di identità sono scelte valide e potenzialmente feconde; il rammarico è che queste scelte restino spesso sulla superficie, lasciando lo spettatore con la sensazione di aver visto un film ricco di promesse non del tutto mantenute

In conclusione

Un inverno in Corea è un’opera prima che sorprende per la solidità tecnica e registica, ma che lascia la sensazione di un film più suggestivo che realmente coinvolgente. Koya Kamura dimostra padronanza del linguaggio cinematografico e riesce a integrare con naturalezza animazione e realtà, creando momenti visivamente potenti e di grande atmosfera. Nonostante ciò, la sceneggiatura appare sovraccarica di spunti non sviluppati fino in fondo: la ricerca del padre, il conflitto madre‑figlia, la pressione estetica e la territorialità restano accennati più che approfonditi. L’emotività si concentra quasi esclusivamente nelle sequenze animate, mentre il resto della narrazione soffre di lentezza e di una certa apatia.

Note positive

  • Integrazione naturale tra animazione e scene reali
  • Colonna sonora originale e suggestiva di Delphine Malaussena
  • Sequenze animate di grande forza visiva ed emotiva

Note negative

  • Sceneggiatura dispersiva e sovraccarica di spunti non sviluppati
  • Temi sociali e culturali accennati ma non approfonditi
  • Ritmo lento e statico, con poca emotività fuori dalle sequenze animate

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora e sonoro
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.6
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.