Un sogno chiamato Florida: La “spensieratezza” dell’infanzia

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Un sogno chiamato Florida

Titolo originale: The Florida Project

Anno: 2017

Paese: Stati Uniti d’America

Genere: drammatico

Produzione: Cre Film, Freestyle Picture Company, June Pictures

Distribuzione: Cinema Distribuzione

Durata: 111 min.

Regia: Sean Baker

Sceneggiatura: Sean Baker, Chris Bergoch

Fotografia: Alexis Zabe

Montaggio: Sean Baker

Musiche: Lorne Balfe

Attori: Willem Dafoe, Bria Vinaite, Brooklynn Prince, Valeria Cotto, Christopher Rivera, Caleb Landry Jones, Macon Blair, Sandy Kane

Trailer italiano di Un sogno chiamato Florida

Il regista indipendente classe 1971 Sean Baker (già autore dell’apprezzato Tangerine, 2015), regala uno straordinario lungometraggio ambientato nella periferia di Orlando. Il film, presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2017, ha ottenuto ben 128 candidature nei vari festival cinematografici, tra cui spiccano quelle della pellicola e di Sean Baker (come miglior regista) agli Independent Spirit Awards, e soprattutto quella di Willem Dafoe all’Oscar nella categoria miglior attore non protagonista. Tuttavia, Un sogno chiamato Florida è particolare anche per le riprese. Dalla scena relativa alla vendita di profumi davanti a un hotel di lusso (completamente girata, all’insaputa delle persone, con una telecamera nascosta), alla sequenza finale realizzata attraverso un iPhone 6.

Trama di Un sogno chiamato Florida

Moonee (Brooklynn Prince), Scooty (Christopher Rivera) e Jancey (Valeria Cotto) sono tre bambini che abitano nella colorata ma decadente periferia di una delle più popolose città della Florida. Nonostante le difficoltà (economiche e non) delle rispettive famiglie, il trio, grazie a quel bellissimo spirito che contraddistingue l’infanzia, riesce a eludere i problemi, scovando ogni giorno qualcosa con cui divertirsi. A controllarli, più ancora dei loro genitori, c’è Bobby (Willem Dafoe), manager del Magic Castle Hotel, la “casa” della simpatica Moonee e di sua madre Halley (Bria Vinaite), una ragazza afflitta dai debiti che, pur non facendo mancare l’affetto nei confronti della propria figlia, si avvicina pericolosamente a quel mondo illegale che è solo fonte d’illusioni e causa d’indimenticabili drammi.  

Recensione di Un sogno chiamato Florida

Spiegare la ragione per cui Un sogno chiamato Florida possa essere considerato un eccellente film, tra i migliori della stagione cinematografica 2017, non è certamente una pratica ardua. Del resto, basta guardare alcune sequenze dell’opera di Sean Baker per comprendere quanto tale lungometraggio sia originale e intimo, quanto riesca a restituire uno “spaccato” della società moderna, anche quella meno presente sui notiziari. Ma allo stesso tempo, con un’azione opposta, quanto appaia simpatico e persino nostalgico. Sì, nostalgico per l’infanzia che descrive, il “mondo” in cui agiscono Moonee, Scooty e Jancey (ottimamente interpretati da Brooklynn Prince, Christopher Rivera e Valeria Cotto), tre bambini la cui qualità principale è trovare il gioco laddove non c’è, oppure il divertimento nelle piccole cose, quasi un paradosso data la vicinanza con Disney World.

Ma tale (stridente) accostamento, in grado di condurre lo spettatore verso una riflessione particolarmente profonda, non è l’unico presente nel film. Perché Baker, come un moderno Howard Hawks, “gioca” con spazi e colori, provoca le consuetudini (anche registiche), dirotta la telecamera verso un folle inseguimento sulle tracce di Moonee, Scooty e Jancey. Il colore lilla che caratterizza il “castello” di Bobby (che infatti è denominato Magic Castle Hotel), non è solo una pittura che ricopre un edificio dall’aspetto quasi cartonato, ma anche un rimando alla “primavera” della vita, quella che stanno vivendo i tre piccoli amici, con un significato secondario che conduce invece alla razionalità. La stessa che Bobby tenta di trasmettere ad Halley, una madre alla deriva, anche se non esclusivamente per colpe proprie.

Bria Vinaite, protagonista di un’ottima prova attoriale (come ovviamente Willem Dafoe), rappresenta infatti una ragazza ripudiata dalla società, certamente non particolarmente responsabile, ma nemmeno priva di amore nei confronti di Moonee. Che al contrario cura come meglio può e protegge anche con la forza, trasmettendole quel sentimento che soltanto una madre può essere capace di fare. Ed è commovente, per lo spettatore, assistere a ciò che Halley s’inventa per rendere felice Moonee, quasi fosse il quarto membro di quel gruppetto di bambini. Il ritorno dal supermercato col carrello e il pranzo nel ristorante di un resort di lusso provano tale aspetto, rendendo la forza d’animo di Halley ma anche la sua fragilità, indotta dalla paura di perdere Moonee per via degli assistenti sociali.

E Bobby è proprio qui in mezzo. Un (solitario) simbolo rassicurante all’interno di un caleidoscopio contraddistinto da trash televisivo, fast food, insegne alla Learning from Las Vegas (Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenou, 1972), pericoli di vario genere e cattive strade. Quelle che imbocca Halley, disorientando la vita di Moonee e rendendo quasi doloroso l’aiuto di Bobby. Ma ricordandoci quanto le difficoltà della vita possano condurre verso un baratro, solitamente dimenticato dai mass media ma non dal promettente Sean Baker.

Note positive

  • L’interpretazione corale del cast
  • La regia di Sean Baker
  • La capacità (originale) di sceneggiare una storia profondamente umana

Note negative

  • Nessuna da segnalare  
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