Volveréis – Una storia d’amore quasi classica (2024). Il romanticismo dal sapore metacinematografico che omaggia la nouvelle vague. 

Recensione, trama e cast del film Volveréis – Una storia d’amore quasi classica (2024), un anti-romance verboso, filosofico e circolare, dal 12 giugno 2025 al cinema.

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Volveréis – Una storia d’amore quasi classica (2024) – Regia di Jonás Trueba – © Los Ilusos Films, Les Films du Worso – Distribuzione italiana: Wanted Cinema – Immagine concessa per uso editoriale.
Volveréis – Una storia d’amore quasi classica (2024) – Regia di Jonás Trueba – © Los Ilusos Films, Les Films du Worso – Distribuzione italiana: Wanted Cinema – Immagine concessa per uso editoriale da Echo Group

Volveréis – Una storia d’amore quasi classica

Titolo originale: Volveréis

Anno: 2024

Nazione: Spagna

Genere: Commedia, Sentimentale, Drammatico

Casa di produzione: Los Ilusos Films

Distribuzione italiana: Wanted Cinema

Durata: 114 minuti

Regia: Jonás Trueba

Sceneggiatura: Jonás Trueba, Itsaso Arana

Fotografia: Santiago Racaj

Montaggio: Marta Velasco

Musiche: Chano Domínguez

Attori: Itsaso Arana (Ale), Vito Sanz (Alex), Fernando Trueba, Jon Viar, Andrés Gertrúdix

Trailer di “Volveréis – Una storia d’amore quasi classica”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Conosciuto in Francia con il titolo Septembre sans attendre, Volveréis (letteralmente “Ritornerai”) è una commedia sentimentale a tinte drammatiche, presentata in anteprima internazionale il 20 maggio 2024 al Festival di Cannes, all’interno della sezione Quinzaine des Réalisateurs, dove si è aggiudicata il premio come Miglior opera europea.

Alla regia troviamo il cineasta spagnolo Jonás Trueba, figlio del celebre attore Fernando Trueba, che partecipa anche al film nel ruolo del padre del protagonista. Jonás Trueba, già autore apprezzato dalla critica per opere come Todas las canciones hablan de mí (2010), Quién lo impide: Sólo somos (2018), La virgen de agosto (2019) e Quién lo impide (2021), firma qui non solo la regia ma anche la sceneggiatura, co-scritta con Itsaso Arana e Vito Sanz, entrambi anche attori protagonisti della pellicola.

Da segnalare anche un piccolo cameo di Francesco Carril, attore feticcio di Trueba, che appare nei panni di sé stesso durante le riprese sul set della serie romantica Dieci Capodanni di Rodrigo Sorogoyen.

Il film ha ricevuto, tra il 2024 e il 2025, numerosi riconoscimenti, tra cui una Menzione Speciale al Festival Internazionale del Cinema di Guadalajara 2024 nella categoria Miglior Lungometraggio di Finzione Iberoamericano, oltre a diverse nomination ai Premi Feroz 2025, ai Premi Lumière 2025 e ai Premi Goya 2025.

Per quanto riguarda la distribuzione italiana, Volveréis è arrivato nelle sale il 12 giugno 2025, preceduto da un’anteprima nazionale tenutasi il 10 maggio, alla presenza del regista, in occasione della 18ª edizione di La Nueva Ola – Festival del Cinema Spagnolo e Latinoamericano di Roma.

Trama di “Volveréis – Una storia d’amore quasi classica”

Dopo quindici anni passati insieme, Ale (una regista) e Alex (un attore) decidono di separarsi in modo amichevole, scegliendo di celebrare questo importante passaggio organizzando una grande festa con amici e familiari — una scelta bizzarra che lascia tutti sorpresi. 

In una Madrid sospesa tra ricordi e nuove prospettive, mentre pianificano l’evento, i due si confrontano con le questioni pratiche della separazione, come la ricerca di una nuova casa e la divisione dei propri oggetti, oltre ai loro turbamenti interiori. Intanto, Ale sta portando avanti la post-produzione del suo film, che ha proprio Alex nel ruolo del protagonista.

Nel corso dei preparativi, i ricordi condivisi riemergono dal passato insieme a sentimenti contrastanti che affiorano in un presente fragile e non ancora definito. Ale e Alex dovranno così interrogarsi sulla natura del loro legame e sul senso profondo di un nuovo inizio possibile.

Recensione di “Volveréis – Una storia d’amore quasi classica”

Un film concettualmente affascinante e indubbiamente originale. Un lungometraggio che è semplice solo in apparenza, ma che si rivela, al contrario, un’opera estremamente autoriale, intellettuale, filosofica e — per certi versi — complessa. Volveréis – Una storia d’amore quasi classica sembra raccontare una storia lineare, senza esserlo davvero: al suo interno pulsa una circolarità nascosta, un certo disordine che riflette il caos quotidiano dell’esistenza reale, in un lungometraggio dove realtà e finzione si mescolano e si confondono tra loro. 

Con questo film anti-romantico, Jonás Trueba costruisce una narrazione volutamente non immediata, che richiede tempo e attenzione per essere assorbita. La comprensione profonda dell’opera e del suo impianto filosofico non arriva subito: per coglierne davvero il senso — a tratti persino bizzarro — è necessaria un’attenzione quasi maniacale da parte dello spettatore e indubbiamente più visione filmiche.  È infatti nella verbosità della pellicola, nei dialoghi incessanti e stratificati, che si manifesta l’intenzione concettuale e drammaturgica del regista. Un flusso costante di riferimenti, sia cinematografici che filosofici e concettuali, da Truffaut al film 10 di Blake Edwards (1979), da Nietzsche a Kierkegaard — quest’ultimo particolarmente evocato nella sua riflessione sull’amore della ripetizione, elemento fondante della poetica cinematografica di Trueba e nucleo pulsante di questa pellicola.

L’amore della ripetizione è in verità l’unico amore felice, perché non comporta come l’amore del ricordo l’inquietudine della speranza, né l’angosciosa fascinazione della scoperta, e nemmeno la tristezza malinconica del ricordo. Invece, la peculiarità dell’amore ripetizione è la beata sicurezza del momento, la speranza.  – Cit. Kierkegaard

La riflessione kierkegaardiana sull’amore della ripetizione trova in Volveréis – Una storia d’amore quasi classica non solo un’eco, ma una vera e propria incarnazione narrativa. Kierkegaard, nel suo saggio La ripetizione (1843) — libro mostrato nel corso della narrazione — afferma che l’unico amore davvero felice è quello fondato su una ripetizione consapevole: non nostalgia del ricordo, né ebbrezza della scoperta, ma una presenza che si rinnova, libera dall’ansia del futuro e dalla malinconia del passato.

Nel film di Jonás Trueba, Ale e Alex decidono di separarsi dopo quindici anni di relazione, ma lo fanno con un’apparente e disarmante serenità, arrivando persino a organizzare una festa per festeggiare la loro rottura, una sorta di “non matrimonio”. Eppure, ciò che segue — a livello narrativo e concettuale — non è una frattura, bensì una trasformazione del legame: i due continuano, più o meno, a lavorare insieme, a condividere gesti quotidiani, a vivere una forma di intimità nuova, che non ha più bisogno di definizioni convenzionali e che sfugge a ogni canone sociale tradizionale.

Questa dinamica riflette con coerenza l’idea kierkegaardiana secondo cui la ripetizione, una filosofia più o meno accettabile da parte dello spettatore, non è una mera replica del passato, ma un atto esistenziale che consente di abitare il presente con consapevolezza e presenza. In Volveréis, l’amore non si consuma nel dramma della rottura — pur attraversando scene di malinconia e disorientamento da parte dei protagonisti — ma si rigenera in una forma nuova, più matura, meno idealizzata e forse proprio per questo più realistica. La separazione diventa così un ritorno: non al passato, ma a una versione più autentica di sé e dell’altro. Un ritorno a qualcosa che, proprio perché trasformato, si fa nuovo.

La nouvelle vague in Trueba

Con Volveréis – Una storia d’amore quasi classica, Jonás Trueba adotta uno stile apparentemente sobrio, quasi documentaristico, rifacendosi per certi versi al mumblecore americano — sottogenere indipendente nato nei primi anni Duemila — e strizzando l’occhio in modo evidente alla trilogia dell’amore di Richard Linklater, da cui riprende quella verbosità intellettuale che ha reso celebre il regista di Prima dell’alba. Ma le radici più profonde affondano nella Nouvelle Vague, in particolare nella cinematografia di François Truffaut: non a caso, nel film appare la tomba del regista dei 400 colpi, in un momento che è tanto omaggio quanto dichiarazione d’appartenenza a quel cinema francese nato alla fine degli anni ’50 dall’irrequietezza critica dei Cahiers du Cinéma.

Come i film della Nouvelle Vague, anche l’opera di Trueba rifiuta la classica struttura in tre atti: non spiega le motivazioni della separazione (non è ciò che interessa) né costruisce un arco evolutivo canonico. I personaggi cambiano, sì, ma in modo quasi impercettibile, attraverso minime mutazioni quotidiane: il ritorno alla sigaretta, il dormire separati — uno dei due sul divano — piccoli gesti che suggeriscono un movimento più emotivo che narrativo.

Non c’è una “vera” evoluzione, ma una messa in scena della realtà quotidiana, nella sua complessità emotiva e verbale. Trueba non insegue la spettacolarità né l’azione drammaturgica: preferisce una narrazione lenta, riflessiva, umanissima, che trova la sua forza nell’intelligenza del dialogo, nella densità affettiva e in una messa in scena che restituisce, senza enfasi, la verità delle sfumature

La pellicola adotta un approccio apertamente realistico, ma al tempo stesso lo contraddice, abbracciando una narrazione dal sapore marcatamente metacinematografico, che fonde realtà e finzione in un gioco intellettuale disorientante. Soprattutto nell’ultima parte del film, le barriere tra ciò che è il lungometraggio di Ale (quello che la protagonista sta ultimando al montaggio) e ciò che è la “realtà” diegetica della coppia iniziano a sfumare: il film che Ale monta sembra invadere la loro vita, intersecandosi con essa in modo sempre più ambiguo.

Questo effetto di disorientamento, però, non assume una connotazione del tutto positiva. La scelta di dar vita a un “film nel film” risulta affascinante sul piano concettuale, ma poco funzionale rispetto alla narrazione trattata. Il risultato è duplice: da un lato si ha la sensazione che l’opera voglia affrontare troppi temi contemporaneamente, dall’altro si genera una confusione strutturale che può portare lo spettatore a distaccarsi emotivamente dal cuore della vicenda.

Rimane tuttavia chiara l’intenzione del cineasta di comporre un esercizio metacinematografico denso e intellettuale, intrecciando esplicitamente la vita e il cinema, in linea con la frase chiave udita nel film: “il cinema può renderci migliori”. L’uso del montaggio e della regia contribuisce a sostenere questa visione, funzionando in alcuni momenti (gli split screen e i cambi di asse sono spesso efficaci), mentre in altri si rivela meno convincente: alcuni passaggi risultano poco fluidi e alcuni movimenti tremolanti della macchina da presa rischiano di compromettere, seppur temporaneamente, l’equilibrio formale del racconto.

Il film di Ale, che intravediamo solo in frammenti sparsi, diventa così un doppio speculare del film che stiamo effettivamente guardando. Il dialogo con il critico non è solo un confronto sul linguaggio, sull’onestà o sull’autenticità del cinema, ma anche una maniera sottile con cui Trueba riflette su proprio questo film e sul modo in cui potrà essere accolto: troppo verboso, troppo intimo, troppo sfocato per alcuni, ma — forse proprio per questo — profondamente vero.

È un gesto dichiaratamente metacinematografico che riafferma il cinema come spazio per esplorare ciò che è fragile, indefinito, non spettacolare: una narrazione che non cerca conclusioni nette, ma interstizi di realtà, emozione e pensiero. 

Critico 1: Il problema, più che altro, è che è ripetitivo. 

Montatore:  Ma questa è la scommessa del film, il procede per accumulo 

Critico 1: Certo, ma non c’è una progressione lineare. Non c’è nemmeno un arco di trasformazione del personaggio. 

Critico 2: Vorrei sapere se si tratta di un film circolare o lineare. Un film circolare si concentra sul discorso, un film lineare riguarda la scoperta e l’incertezza. Non credo che sia nessuno dei due. I personaggi sembrano sapere cosa vogliono. Ma poi, neanche così tanto… Questo potrebbe valere sia per i personaggi sia per il regista

In conclusione

Volveréis – Una storia d’amore quasi classica è un film che richiede ascolto, pazienza e sguardo allenato, pensato per uno spettatore abituato al cinema d’autore più riflessivo e meno narrativamente convenzionale. Non è una visione immediata né consolatoria, ma offre, a chi accetta il suo ritmo e la sua stratificazione, un’esperienza ricca di riflessioni sull’amore, sul tempo e sul linguaggio stesso del cinema. È ideale per chi ama i film che parlano sottovoce, che sembrano semplici e invece costruiscono, un dialogo alla volta, un pensiero. Non per tutti, non perfetto, ma interessante.

Note positive

  • Dialoghi intensi e ricchi di riferimenti culturali
  • Intepretazioni attoriali

Note negative

  • Alcuni momenti di verbosità eccessiva
  • Approccio metacinematografico stimolante, ma nella seconda parte rende la narrazione troppo caotica.

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Review Overview
Regia
Fotografia
Sceneggiatura
Colonna sonora
Interpretazione
Emozione
SUMMARY
3.6
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Stefano Del Giudice
Stefano Del Giudice

Laureatosi alla triennale di Scienze umanistiche per la comunicazione e formatosi presso un accademia di Filmmaker a Roma, nel 2014 ha fondato la community di cinema L'occhio del cineasta per poter discutere in uno spazio fertile come il web sull'arte che ha sempre amato: la settima arte.