Zio Frank (2020). Il testamento autobiografico di Alan Ball

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Trailer di Zio Frank

Trailer ufficiale eng de “Zio Frank”

Informazioni sul film e dove vederlo in streaming

Il toccante e divertente road movie scritto e diretto da Alan Ball viaggia dalla scena bohemienne della New York post-Stonewall alla Carolina del Sud rurale, seguendo il doloroso percorso di Frank dall’aver toccato il fondo fino all’accettazione e al perdono e, infine, alla reintegrazione nella sua famiglia e nella vita stessa. Bettany rivela il fragile nucleo di Frank, svelando via via gli strati della sofisticata ma guardata personalità di Frank. Sophia Lillis interpreta Beth come una giovane donna ingenua ma osservatrice, i cui occhi si aprono a un mondo che non avrebbe mai potuto immaginare. Anche Peter Macdissi offre una performance eccezionale nel ruolo di Wally, un uomo il cui potenziale di compassione va più in profondità di quanto egli stesso sappia. Ball, noto per il suo lavoro televisivo con ensemble come Six Feet Under e True Blood, riesce anche a ottenere interpretazioni potenti dal suo superbo cast di supporto, tra cui Stephen Root, Margo Martindale, Steve Zahn, Judy Greer e Lois Smith.

Trama de Zio Frank

Manhattan, 1973. Frank Bledsoe (Paul Bettany) è un professore universitario con origini di Cheekville, nel South Carolina, paese notoriamente caratterizzato da una mentalità gretta e ottusa, il che lo porterà a scappare ben presto nella metropoli di New York in quanto omosessuale non accettato. La vicinanza forzata con sua nipote Beth (Sophia Lillis), anch’ella approdata nella Grande Mela per motivi di studio, lo porterà per la prima volta a fare coming out con un membro della sua famiglia. Ma sarà in occasione della morte e del conseguente funerale di suo padre (Stephen Root), che lo obbligheranno a far ritorno nella sua terra natale accompagnato, oltre che dalla nipote, dal suo compagno Wally (Peter Macdissi), che dovrà affrontare l’ardua sfida attorno a cui si snoda la vicenda: scontrarsi con la mentalità di una famiglia del Sud e fare i conti direttamente con un passato ancora troppo vivido e irrisolto.

Recensione de Zio Frank

Quella che si presenta come la seconda regia cinematografica di Alan Ball – nonché noto sceneggiatore del capolavoro Premio Oscar American Beauty (1999) -, è in maniera più latente (e a dirla tutta neanche troppo, latente) il testamento autobiografico del padre dello stesso progetto; se si è anche solo minimamente a conoscenza del background di Alan Ball, sarà inevitabile trovare continue similitudini tra una sceneggiatura così curiosamente personale e la vita del regista e autore stesso. Esattamente come il protagonista del suo film, Ball nasce nel sud degli Stati Uniti per poi spostarsi a New York City dove inizierà la sua formazione come drammaturgo e successivamente sceneggiatore, produttore e regista cinematografico, e il fatto che egli stesso sia omosessuale dichiarato non è solo una curiosa coincidenza che condivide con il fittizio Frank Bledsoe. Ci basta un numero irrisorio di informazioni biografiche e si evince fin da subito l’esigenza prima di questo prodotto: raccontarsi! Che Ball sia riuscito a traslare su schermo anche una storia piuttosto ordinaria in cui più d’uno possa identificarsi è certamente innegabile, ma prima di tutto, a farsi starda è la necessità vera e propria di autobiografismo marcato e la riscoperta di un’intimità che chiede di essere narrata del regista stesso, che ne influenza l’intera poetica a tal punto da vantare all’interno del cast del progetto Peter Macdissi (nei panni di Wally, compagno di Frank) nonché reale compagno di vita di Alan Ball.

Alan Ball

Quando avevo tredici anni, la mia amatissima sorella maggiore è stata uccisa in un incidente d’auto; ero dentro l’auto che lei stava guidando quando è accaduto. In un istante terribile, la mia vita è stata irrevocabilmente divisa tra Prima e Dopo. Ho trascorso molto tempo ed energia cercando di fuggire da quell’evento, tutto inutile, come posso ora vedere. Ci sono alcune cose che ci accadono nella vita dalle quali non c’è davvero scampo.
Molti anni dopo, quando ho fatto coming out con mia madre, lei mi ha parlato di un parente più anziano, da tempo defunto, che pensava fosse “così”, anche lui. Nel corso dei giorni successivi ho sentito pezzi di una storia su questo parente, su come lavorasse nel Civilian Conservation Corps con un altro ragazzo della sua città natale, su come quel ragazzo annegò misteriosamente, e su come il mio parente accompagnò il corpo del ragazzo su un treno fino alla loro città natale di Asheville, North Carolina. Sono sempre stato colpito da quella storia, che si svolgeva nell’idilliaco scenario delle montagne del Nord Georgia negli anni ’30, l’innocenza e la gioia che quei ragazzi devono aver provato. Quanto devastante deve essere stato quando è sopraggiunta la tragedia, e quale perdita insopportabile deve essere stata per chi è sopravvissuto — colui la cui vita è stata irrevocabilmente divisa tra Prima e Dopo.
Questi personaggi e la loro storia sono rimasti con me nel corso degli anni. È stato un incidente puro? Erano amanti? Negli anni ’30, nel sud rurale? Sono stati scoperti? In tal caso, cosa è successo, e perché uno di loro è finito morto? E forse, cosa più importante, il mio parente, colui che è sopravvissuto, si sentiva in qualche modo colpevole? Non sono estraneo alla colpa del sopravvissuto a causa dell’incidente d’auto di mia sorella, e so quanto possa essere insidiosa.
Nel corso degli anni, la mia storia personale dell’incidente d’auto e la mia storia immaginata sul mio parente basata sulle parole criptiche di mia madre si sono fuse in qualcosa che alla fine è diventato lo zio Frank. In retrospettiva, posso ora vedere il film che volevo realizzare, quello che pensavo trattasse di essere gay negli anni ’70, e fare coming out con la propria famiglia, e lottare con l’addizione, non riguardava davvero nessuna di quelle cose. Riguardava questo:
Per molti di noi che hanno vissuto eventi profondamente traumatici nelle nostre vite, ci ritroviamo a tornare su questi eventi ancora e ancora nel corso degli anni — alcuni lo chiamano PTSD — e ogni volta lo facciamo abbiamo la possibilità di approfondire quelle vecchie ferite e di scoprire quali regali ci siano lì per noi. E credo che ci siano davvero dei regali — la possibilità di piangere di nuovo, di arrendersi ancora una volta alla verità di ciò che è accaduto, di vedere come ci ha cambiato quell’esperienza con occhi chiari, e di abbracciare ciò che rimane con tutto il nostro essere.
Fotogramma ritraente Beth, Frank e Wally in viaggio verso Cheekville
Fotogramma ritraente Beth, Frank e Wally in viaggio verso Cheekville

Il regista e co-sceneggiatore, oltre che produttore del progetto, mette in atto una sorta di redenzione personale attraverso un face to face piuttosto crudo e a tratti violento tra un passato poco felice e un presente che di quel passato travagliato ne paga ancora troppo le conseguenze; il tutto è esplicitato saggiamente a livello visivo a botta di flashback sul vissuto dello stesso Frank, che oltre a conferire alla sceneggiatura un ritmo piacevolmente sostenuto, delinea un perfetto e coerente background del protagonista, disegnandone punto per punto la psicologia complessa e profondamente ammaccata che lo caratterizza; ecco quindi che il senso di straniamento e la pericolosa freddezza nel personaggio risultano assolutamente voluti e ricercati minuziosamente in una sceneggiatura di per sé piuttosto semplice e lineare anche nei dialoghi, ma ricca allo stesso tempo e non per questo priva di pathos o di spessore. Stessa accortezza nella costruzione drammaturgica non la si ritrova ahimè nel personaggio di Beth, nipote di Frank, e narratrice della vicenda, personaggio di una certa importanza a livello diegetico e apparentemente interessante per un estro e una personalità non abituali per una ragazza di 18 anni proveniente dal Sud Carolina. A tal proposito, infatti, il film non manca di alludere a temi sociali preponderanti e attuali quali la questione femminista, di cui Beth stessa ne fa da vettore con un paio di battute, e la tematica d’immigrazione, di cui invece sarà Wally a farne le veci in quanto originario dell’Arabia Saudita. Con rammarico, due citazioni alla contemporaneità tanto forti come queste avrebbero quantomeno potuto essere approfondite con maggiore peso a livello diegetico e ai fini della sceneggiatura, piuttosto che essere a malapena accennate con un velo di allusione che non va mai in profondità fino alla fine della pellicola, restituendo alla fine quello che tenta di essere un progetto artistico che grida all’inclusione delle minoranze, ma poco riesce a catturarne il focus desiderato.

Fotogramma tratto da Zio Frank
Fotogramma tratto da Zio Frank

Se non ci sono troppe parole da spendere su una sceneggiatura nata dalla penna di un Premio Oscar, come già accennavamo in precedenza, il che costituisce una garanzia già di per sé, anche da un punto di vista prevalentemente tecnico, possiamo senza dubbio confermare quanto Ball abbia fatto tesoro della sua esperienza in campo registico televisivo per approdare sul grande schermo con una regia estremamente pulita, tendente al classico e quindi priva di particolari virtuosismi nella mdp, ma a suo modo ipnotica grazie anche all’impiego di una fotografia patinata che, oltre alla componente prettamente estetica, se ne serve come strumento di setting spaziale e temporale assumendo i tipici toni caldi del Sud e di un vintage tipico degli anni ’70. A impregnare di crudo realismo e credibilità una vicenda estremamente terrena poi, vi sono sicuramente le interpretazioni attoriali tutte, con maggior lode al lavoro di Paul Bettany e all’eccezionale bravura nel dosare il trasporto emotivo in un personaggio dallo spettro caratteriale tutt’altro che semplice e superficiale e soprattutto nel saper passare da scene di estrema pacatezza tendente al totale straniamento, a scene dal carattere drammatico più inteso.

Insomma, Zio Frank è un viaggio – letteralmente – catartico all’insegna della (ri)scoperta più intima e profonda dell’essere, necessario e voluto su due fronti di cui l’uno è lo specchio dell’altro: Frank Bledsoe e lo stesso Alan Ball. E’ un road movie imbevuto d’intimità e dolce ottimismo sul finale che ne fanno un moderno Bildungsroman splendidamente riuscito.

In conclusione

In “Zio Frank”, il regista e co-sceneggiatore Alan Ball affronta una narrazione che va oltre la semplice storia, cercando una redenzione personale attraverso un confronto crudo tra passato e presente del protagonista, Frank. Utilizzando saggiamente flashback che delineano il background complesso di Frank, Ball offre al pubblico un’introspezione profonda nella psicologia del personaggio, evidenziando il suo straniamento e la freddezza attraverso una sceneggiatura lineare ma ricca di pathos. Tuttavia, se il protagonista è riccamente sviluppato, lo stesso non si può dire per il personaggio di Beth, la narratrice della storia, la cui importanza e complessità rimangono in gran parte inesplorate. Ball accenna a temi sociali rilevanti come il femminismo e l’immigrazione, ma avrebbe potuto approfondirli ulteriormente per conferire maggiore peso alla narrazione. Dalla regia pulita di Ball alla fotografia che cattura l’atmosfera vintage degli anni ’70, “Zio Frank” offre un viaggio catartico di scoperta e redenzione sia per il protagonista che per il regista stesso, risultando un Bildungsroman moderno e ben riuscito.

Note positive:

  • Utilizzo dei flashback per evidenziare lo scontro passato/presente e per costruire il personaggio di Frank
  • Ritmo sostenuto
  • Sceneggiatura semplice ma ricca di pathos
  • Pulizia registica
  • Interpretazione di Paul Bettany

Note negative:

  • Accenni superficiali sulle questioni del femminismo e dell’immigrazione
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