Cat in The Wall: il volto che nessuno conosce dell’Inghilterra

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cat in the Wall locandina

Cat in The Wall

Titolo originale: Cat in The Wall

Anno: 2019

Paese: Bulgaria, Regno Unito, Francia

Genere: Drammatico

Produzione: Activist 38, Glasshead, Ici et Là Productions

Durata: 1h 32m

Regia: Vesela Kazakova, Mina Mileva

Sceneggiatura: Vesela Kazakova, Mina Mileva

Fotografia: Dimitar Kostov

Montaggio: Donka Ivanova

Produttori: Vesela Kazakova, Mina Mileva, Christophe Bruncher

Musiche:

Attori: Irina Atanasova, Angel Genov, Orlin Asenov, Gilda Waugh, Jon-Jo Inkpen, Chinwe Nwokolo, Kadisha Gee Kamara, Lee Nicholas Harris, Chris Martin Hill

Dopo due documentari controversi che mostrano come la Bulgaria si stia ancora sforzando per estirpare le radici del comunismo, le registe e sceneggiatrici bulgare Mina Mileva e Vesela Kazakova passano alla fiction con il loro terzo lungometraggio Cat in the Wall. Alquanto lineare, senza fronzoli, la traccia narrativa di Cat in the Wall si ispira a piccoli fatti di cronaca realmente accaduti per raccontare la difficile quotidianità di un modesto nucleo famigliare.

Trama di Cat In The Wall

Ambientato nei sobborghi londinesi, il film è un affresco sulla Londra della Brexit. Irina (Irina Atanasova), madre single, vive con suo figlio Jojo (Orlin Asenov) e suo fratello Vladimir (Angel Genov), immigrati dalla Bulgaria. Irina, Vladimir e Jojo vivono, sopravvivono alle giornate e col tempo riescono a crearsi un piccolo mondo di cui sono i protagonisti. Dopo aver adottato un gattino le tensioni con i vicini si acuiscono, emergono rabbie e razzismo e nessuno è esente dai pregiudizi verso l’altro.

Recensione di Cat in The Wall

Il banale pretesto di un animale domestico diventa la valvola di sfogo di una società che vive costantemente nell’incertezza, tra difficoltà quotidiane e dubbi sul futuro. È un film dal messaggio molto chiaro, una voce autentica dalle classi sociali meno abbienti dell’Inghilterra di oggi. Elemento importante è il dolce gatto che unisce le vite di tutti gli abitanti di quel luogo; è una sorta di spettatore, di portatore di felicità. Quando Irina vede l’animale succede qualcosa; la donna stanca dal lavoro e forse un po’ triste e arrabbiata per i problemi giornalieri, diventa “amica” di quel gatto che sembra aspettare proprio lei. Goldie, questo è il nome del gatto pensato dal piccolo Jojo. C’è qualcosa di estremamente fresco e tenero nel modo in cui Irina, Vlad e Jojo creano il loro piccolo universo, giocando nei corridoi esterni dell’enorme palazzo e godendosi la vita nel loro appartamento e in tutto ciò l’adozione di Goldie potrebbe addirittura suggerire che questa famiglia moderna abbia una qualche possibilità di essere felice, ma presto i vicini arrivano a bussare alla porta di Irina accusandola di avergli rubato il gatto.

L’adozione di Goldie da parte di Irina è un punto centrale del film, da una parte perché sembra dire che per la sua famiglia un momento di serenità è possibile, che, dopo tanti problemi, esiste uno spiraglio di luce, dall’altra perché quel gatto diventa focolaio di una guerra con i vicini: il gatto è il loro e lo rivogliono, non solo e non tanto per amore quanto perché non vogliono lasciarlo a degli stranieri. Goldie involontariamente accende la miccia dello scontro: se gli autoctoni vivono di sussidi statali sufficienti a permettere loro di “stare sul divano e fumare”, ci sono Irina e Vlado che invece lavorano, fanno qualunque tipo di professione tanto che la donna dice: “Non sono venuta qui per essere una sanguisuga”. Tutto ciò che fa Irina lo fa per Jojo, per dargli una possibilità di un futuro ma non è poi così facile sopravvivere in quel palazzo, in quelle strade, in quel mondo. I due fratelli sono costretti a litigare per il gatto che, ad un certo punto, si nasconde nel muro dietro al frigorifero, situazione che è metaforica della “prigione” in cui si trovano tutti i personaggi di questo film, nascosti nei propri appartamenti e quando escono trovano un mondo spesso crudele.

Ma sono i bambini le vittime di questa guerra tra “poveri” e assistono, impotenti e spaventati, allo scontro tra urla, critiche, invettive: Jojo e Phobe (la nipote dell’altra famiglia) hanno paura e piangono. I due figli, di due nuclei diversi, hanno le stesse reazioni, la stessa emotività; i loro volti sono rigati dalle lacrime quando pensano di perdere Goldie, entrambi i loro visi sono segnati dallo stesso dolore, dalla stessa disperazione. I protagonisti hanno a che fare con personaggi che soffrono molto più di loro e a poco a poco emergono le vite degli altri. Debby (Gilda Waugh), la cui nipote, Phobe, è la precedente padrona del gatto, è il simbolo del dramma che vivono gli abitanti di quel palazzo. Quando Irina per parlare del gatto va a casa sua scopre una realtà dura. Una di fronte all’altra le donne parlano, si confidano e Irina comprende la verità: nonostante tutto lei e la sua famiglia sono davvero fortunati. La depressione, gli stupri nei parchi, la solitudine, la droga sono destini cupi e sfortunati di persone come Debby e dopo quell’incontro Irina capisce non solo del dramma di quelle famiglie ma anche che quel gatto è uno dei pochi doni che Debby e i suoi hanno avuto.

Cat in the Wall è un film che affronta due tematiche fondamentali intorno alle quali l’opera si costruisce: le case popolari che sono sottoposte alla gentrificazione e la Brexit (il gatto intrappolato dentro il muro sembra rappresentare la metafora della condizione inglese rispetto all’Europa in questi anni), argomenti importanti che inevitabilmente cambiano la vita dei personaggi. Irina è un’immigrata istruita e quindi sa giudicare sia il luogo da dove è partita sia il luogo dove vive; è sempre più delusa dal fatto che il suo Paese d’adozione non considera la sua esperienza, anzi la svaluta e quindi è costretta ad accettare qualunque tipo di lavoro. Nonostante questi problemi, Irina rimane perché ha un figlio, perché vuole dargli la possibilità di credere nel futuro, lei ha la stessa cura che ha Debby per la sua famiglia.

Cat in the Wall è una denuncia sincera in cui si sente l’eco del cinema di Ken Loach sia per estrazione sociale dei protagonisti che per ambientazione della vicenda. Racconta una storia vera che arriva al pubblico soprattutto quando parla d’Irina, quando mostra l’umanità dei suoi protagonisti, quando porta a galla le esistenze di questi uomini e di queste donne che sono, sotto lo strato superficiale, molto più simili di quanto si possa immaginare. Le due registe hanno uno usato per questo film uno sguardo documentaristico, per questo asciutto e rigoroso anche nei momenti di massima tensione che forse avrebbero bisogno di maggior empatia. L’intento delle due è quello di creare due personaggi, Vladimir e Irina, non necessariamente come due eroi del popolo di cui prendere le parti acriticamente, contro un sistema iniquo e crudele. Girato con grande attenzione per il dato sociale e nel suo minimalismo si rivela essere appassionante pure sotto il profilo della progressione narrativa. Attraverso i litigi condominiali veniamo a scoprire che neanche loro sono esenti da tentazioni xenofobe e che, messi alle strette, graffiano con le medesime unghie dei loro oppressori.

In conclusione

Cat in the Wall ci lascia con l’amaro in bocca nel finale, nel momento in cui ogni cosa deflagra. Si presenta come un quadro assai divertente ma dal fondo amaro di quanto sia complicata la convivenza multiculturale. Con una cinica ironia quasi billywilderiana su welfare, brexit e molto altro. Nonostante gli argomenti affrontati, il tono generale resta ai confini del dramma, nel disastro ordinario di un’umanità decadente e capricciosa, mentre ad aggiungere un frammento importante di realismo contribuisce un apporto musicale praticamente inesistente. Il lato umano sta nel giocare sulla difficoltà d’Irina di compiere un salto nella scala sociale, assediata dalla rassegnazione, dalla totale mancanza di ambizione, da personaggi abituati a cullarsi di un’unica idea di assistenzialismo. Alla fine di questo film, le cose che più ti rimangono impresse sono: una frattura più grande, la bolla esistenziale, l’impossibilità d’immaginare un futuro, i sogni infranti e un senso di frustrazione che cresce indisturbato nella periferia, pericolosa e per niente accogliente.

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